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Uno stallo permanente nella crisi globale – Intervento introduttivo a Tracce

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Di seguito riportiamo un testo di analisi politica a livello transnazionale, presentato tra le relazioni introduttive alla due giorni cosentina Tracce- Territori, Autonomie, Conflitti. Il testo, ampliato in alcune sue parti rispetto all’esposizione originale, si propone di analizzare in maniera sommaria le tensioni esistenti in ambito globale, le prospettive di innovazione da parte delle èlites, le mobilitazioni in corso rispetto alle questioni di genere e a quelle ambientali, le possibilità che emergono quantomeno in controluce dai sommovimenti all’interno della classe.

Non possiamo non partire, rispetto ad una analisi delle tensioni, dei processi di ordine e disordine dell’ambiente globale, delle trasformazioni in corso e delle sfide in campo, dallo scontro tra Cina e Stati Uniti. Narrato da molti commentatori ingenui come un conflitto puramente commerciale, esso riguarda in primis il dominio tecnologico, e le ricadute ampie di questo dominio sull’esistente. A livello politico, economico, militare. E’ uno scontro sulla guida sui futuri, possibili, ma non scontati quanto a riuscita, processi di globalizzazione e di innovazione capitalistica.

Uno scontro la cui frontiera più avanzata è quella in merito allo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione e della cosiddetta Industria 4.0, che implica rivoluzioni logistiche come produttive. Il caso Huawei ad esempio, che riguarda la lotta per chi costruirà le nuove infrastrutture tecnologiche e che quindi avrà anche la possibilità di “controllarle”, di bloccarle e sabotarle, è un esempio di questo scontro. Questo assume anche profondo valore strategico, dato che queste novità si applicano anche allo scenario bellico, al come si fa e al come si vince la guerra.

E’ un argomento davvero decisivo, perché è uno dei temi che si immagina possa permettere alle élites capitalistiche di trovare una uscita ad una crisi che invece, ad oggi, a questo punto, essere solo prossima ad un nuovo avvitamento. Non ci sono stati infatti nel recente passato scatti in avanti di ristrutturazione capitalistica a lungo termine, nuove prospettive di patti sociali capaci di sostenere esigenze di profitti e irregimentazione sociale sul lungo periodo. Le condizioni che portarono al crollo del 2008 sono difatti addirittura peggiorate al giorno d’oggi. Non c’è stato un processo che abbia attaccato le radici delle crisi e degli smottamenti attuali.

Finora è infatti stata la finanza a gestire la situazione, aumentando artificialmente l’accesso al credito nonostante la distribuzione della ricchezza sia a livelli di diseguaglianza inauditi. Si è risposto quindi all’attuale periodo di stagnazione permanente creando nuove bolle, e assicurando i debiti con politiche come il Quantitative Easing in Europa. Ma oggi che le bolle di un sistema economico drogato iniziano a scoppiare, e lo si vede dalla Turchia alla Argentina, ma anche dai rinnovati rischi sul debito italiano, l’enfasi sulla necessità di trovare nuove soluzioni di lungo periodo è ai massimi.

C’è in gioco la tenuta delle elites, che implica anche scontro intercapitalistico, in cui in questo momento sono Usa e Cina come detto sulla prima linea. Se c’è difficoltà a uscire da crisi sistemica, il cosiddetto internet delle cose si prefigura come nuovo campo di battaglia, come nuovo strumento d’innovazione, di valorizzazione ed espropriazione capitalistica. In particolare in riferimento alla divisione globale del lavoro, che si ristrutturerà attraverso l’approfondimento di nuove forme di razionalità logistica e con l’utilizzo di intelligenza artificiale ed automazione nei processi produttivi.

Questi possono significare anche ulteriore sfruttamento e irregimentazione della forza lavoro su scala globale. Inoltre, una tendenza sembra potersi vedere nell’inserimento ulteriore rispetto al passato nei circuiti di valorizzazione capitalistica di aree come l’Africa, dove non a caso la Cina si è costruita un’enorme influenza e dove Usa e Unione Europea cercano in maniera disperata di difendere quanto rimasto dall’eredità coloniale e neocoloniale.

Ma non è detto che ciò basterà, che ciò avvenga, o che avvenga un maniera liscia. Si tratta di un quadro che si innesta in processi di impasse e di smottamenti geopolitici enormi. Entrambi i giganti hanno infatti profondi problemi. Per Trump c’è la realtà di una mancata riuscita del suo Make America Great Again. Al di là dei numeri più o meno credibili sui dati economici, e dell’impatto che ciò può avere in termini elettorali, è evidente il fallimento della promessa di ritorno di una organizzazione del lavoro e di un patto sociale in stile fordista. Di fatto Trump vinse le elezioni proprio su questo tema.

A questo declino si accompagna la difficoltà americana a sostenere uno sforzo di azione globale anche in termini militari che vede la Russia, la Cina, lo stesso Iran come nemici davvero arcigni. Il Venezuela è la prima spia di una difficoltà yankee a imporre le sue volontà in maniera liscia anche nel tradizionale giardino di casa, anche in un momento di forte arretramento dell’opzione del socialismo del XXI secolo.

Per la Cina invece c’è un livello di sovrapproduzione troppo elevato, che si vorrebbe provare a sfogare con la Via della Seta, che trova proprio nel tentativo di mantenere alti i livelli commerciali nonostante i dazi Usa una delle sue principali ragioni. Ma questo si intreccia con gli alti livelli di debito soprattutto locale, con la necessità di bilanciare verso il consumo interno il sistema economico rispetto all’export, con l’aumento delle diseguaglianze interne e con un invecchiamento della popolazione che sembra mettere sempre più in crisi la tenuta sociale di lungo periodo. Siamo quindi di fronte a dei modelli di sviluppo con enormi contraddizioni, che ovviamente riguardano anche gli altri due principali attori geopolitici, la Russia e l’Unione Europea.

Possibili nuove turbolenze finanziarie globali potrebbero dunque essere all’orizzonte, per le deficienze interne dei sistemi economici dei due giganti, per la fine delle varie droghe sistemiche alla quantative easing e quindi dei livelli di speculazione sul debito. Ma anche per gli effetti del tema dell’automazione, con ciò che vuol dire in termini di sempre minore quote di ricchezza sociale destinata nel medio-lungo termine ai soggetti sociali meno ricchi che avranno in tendenza sempre più difficoltà a ripagare i propri debiti.

Il tutto accade poi all’interno di un contesto di doppia crisi, come fatto notare diversi anni fa anche da personalità come Luciano Gallino. Alla crisi finanziaria si aggiunge infatti quella ecologica. Tutta questa serie di tensioni, conflitti e contraddizioni appena descritta si riversa e diviene iconica all’interno di quella che possiamo definire la grande contraddizione ambientale. In questa emerge sempre più il limite tra esigenze di profitto del capitale e ambiente inteso come territorio della riproduzione della specie umana.

Il movimento globale che si sta sviluppando in questi mesi è qualcosa che probabilmente è lì per restare, anche perché c’è al suo interno anche una questione di scontro intracapitalistico che vede da un lato i negazionisti, dall’altro i paladini del Green New Deal che è anche la carta che probabilmente i democratici cercheranno di giocare alle prossime elezioni USA, che anche in Cina è una prospettiva ampia di sviluppo e che oltre all’internet delle cose è l’altra grande speranza di innovazione delle elites.

Sappiamo però che dentro l’assetto capitalistico questo cambiamento è impossibile. Che riguarderà tendenzialmente pochi “centri”, sacrificando contemporaneamente le molte “periferie”. E che di fatto porterà ad aumentare ulteriormente i flussi migratori, legando il tema della libertà di movimento e della tenuta dell’ambiente in maniera ancora maggiore. Diventando anche elemento di costruzione di soggettività in chiave reazionaria da parte delle elites stesse.

Teniamo inoltre conto che il tema del debito accennato prima implica anche pesanti ripercussioni sulla riproduzione sociale complessiva. Le elite scaricano a livello globale sempre più il carico della spesa sociale soprattutto sul corpo delle donne. L’attacco alle conquiste femminili è di conseguenza anche legati alle nuove crisi del debito. Scaricare debito significa scaricare austerità e controllo tramite ulteriori processi di irregimentazione dei corpi e del ruolo sociale della donna. Nel movimento globale femminista vanno rintracciate dunque anche motivazioni sistemiche che hanno portato il corpo delle donne ad essere terreno di scontro politico. Non si tratta di un ritorno al MedioEvo, quanto dunque di un allineamento con i desiderata del sistema neoliberale che è pienamente attuale.

Tornando alla questione dello scontro intercapitalistico. Come detto gli USA come soluzione alla crisi utilizzano quella di scaricare debito su paesi terzi: è successo con Argentina e Turchia come detto, ma anche nel 2011 con Unione Europea. Ma esiste, ed è sempre più emergente, il tema della guerra come meccanismo di risoluzione delle controversie. Il tentativo americano sul Venezuela e la sempre maggiore assertività cinese nei mari che la circondano e in Africa implicano l’aumento anche della dimensione militare in questo quadro. Lo scontro tra Arabia Saudita, Israele e Iran è un’altra faccia di queste tensioni. Si va a delineare quindi un ritorno del discorso imperialista, dove differenti opzioni si confrontano contribuendo all’aumento dell’instabilità internazionale, anche attraverso uno sfruttamento politico della questione migratoria che ne deriva.

Su questo tema ovviamente si compatta poi una ondata nazionalista europea nata anche sulla opposizione, per quanto simulata, agli effetti della globalizzazione neoliberista e alle sue conseguenze sociali. C’è da segnalare come non ci sarà realisticamente uno sfondamento reazionario alle prossime elezioni europee, quantomeno non si darà in termini di governo. Inoltre, si affacciano le prime crisi quantomeno di credibilità di alcuni percorsi, basti pensare al tema della Brexit. Esiste allora spazio per spezzare, per rompere tenaglia in cui ci si trova tra tecnocrazia ultraliberale e nuove prospettive nazionaliste e etno-identitarie?

Alcuni processi hanno iniziato a fare balenare spazi e prospettive nuove. Il movimento dei gilet gialli sembra essere anticipatrice di un qualcosa che è destinato a restare. Hanno materializzato l’ipotesi dell’emergere di nuove composizioni sociali, trasversali, spurie, che si inseriscono su una linea di scontro fortemente di classe. Hanno avuto anche il pregio di mostrare come temi a volte inquadrati in termini di interesse generale, ad esempio quello dell’ambiente, siano, debbano invece essere affrontati proprio su linee di classe (la transizione la paghino i ricchi). Allo stesso tempo vivono le contraddizioni tipiche di questi neopopulismi, ovvero il rifiuto dell’ordine esistente ma anche la mancanza di una prospettiva trasformatrice che vada oltre questo e che quindi rischia di essere risucchiata all’interno di spirali sovraniste e reazionarie.

Se come detto il green new deal potrebbe essere proposta che mette tutto insieme, un afflato ecologista con l’esigenza da parte di alcune sezioni del capitale di andare in quella direzione, per trovare nuovi margini di profitto, allora immaginare un ambientalismo di classe, che non vuole dire solo opposizione alla grande opera ma usare il tema ambientale come opposizione ad un modello di sviluppo complessivo, come terreno su cui situarci fa la differenza. Il tema del reddito poi, nello scenario di automazione e riduzione del lavoro che abbiamo ipotizzato in tendenza anche grazie alla rivoluzione dell’intelligenza artificiale, si imporrà probabilmente con sempre maggiore forza nei discorsi potenziali di queste nuove composizioni di classe, iperproletarie nel senso della pervasività dello sfruttamento che tiene insieme produzione e riproduzione, sempre più masse inutili, passibili di espulsione, in lotta però per il loro riconoscimento in senso rivoluzionario.

Un’ultima considerazione più nostra. L’Italia che ritorna terreno di contesa? Quanto avvenuto sul tema della Via della Seta, delle polemiche rispetto all’adesione italiana al progetto cinese, mostra che la storia non è finita, che le collocazioni internazionali e il dibattito su di esse dipendono dagli smottamenti globali e dai processi storici. Chissà che nei prossimi anni, se l’Unione europea non farà dei passi avanti in un senso unitario al momento difficilmente ipotizzabile, se le tendenze disgreganti americane, russe e cinesi nel rapporto tra Italia ed Ue proseguiranno, non ci si possa ritrovare in una situazione di profonda instabilità internazionale capaci di rimettere in discussione quello che fino a ieri sembrava assodato…

 

 

 

 

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