Ovest. Venticinque anni di lotte No Tav in val di Susa
Alle 11.15 del 27 gennaio 2016, sotto un cielo denim chiaro, dopo aver attraversato il borgo di Chiomonte e raggiunto la riva sinistra della Dora, ci presentammo al checkpoint di via dell’Avanà, poco oltre la centrale idroelettrica.
La centrale. Sorella piccola delle montagne, sposa del fiume dal 1910, era stata nutrice delle industrie della val di Susa e di Torino. Si stagliava, virata in seppia e fiera del suo lavoro, in cartoline d’epoca vendute su ebay, e gli scolari venivano ancora a vederla, ad ammirarla, perché era stata una grande opera di quelle sensate, lei, e funzionava ancora, serviva ancora, lei. Altre opere lì nei paraggi, invece… tsk.
Al posto di guardia, una triste casupola esalò fumo biancastro e tre poliziotti blu di Prussia, che subito fermarono l’auto. Usarono la terza persona plurale come pronome di cortesia e il verbo “favorire” nell’accezione tipica delle guardie: “Favoriscano i documenti. Dove stanno andando?”.
Fu allora che cominciò il battibecco.
Volevamo andare prima alla Maddalena, la cascina sull’orlo del cantiere-fortilizio, poi ai terreni posseduti dai No Tav in località Colombera, per unirci a uno dei famosi “pranzi del mercoledì”. Con noi c’erano due dei 1.400 proprietari, Guido e Nicoletta.
Si chiamava la Colombera perché, sulla collina, si ergeva una torre abbandonata e ammantata di rampicanti che era servita, appunto, da colombaia. Un tempo ce n’erano tante, sparse in tutto il nord Italia, da Ventimiglia a Venezia. Si allevavano colombi per vari motivi: per mandarli in giro con messaggi; per addestrare gli stormi e farli volare in apposite competizioni; per farne richiami da caccia; per mangiarli… e per tutte queste cose insieme. E poi, i colombi erano belli. Erano magici. Ricordavo colombe bianche uscire in un frullo d’ali dalle maniche di Silvan. Mariano, il mio amico mago, mi aveva raccontato di un illusionista alcolizzato che aveva perso i sensi poco prima dello show e, crollando al suolo, aveva schiacciato tutte le colombe che portava nascoste nel blazer, prigioniere.
Alla mia domanda su chi avesse allevato colombi in quella torre, Abraracourcix aveva sciorinato informazioni: “Fino al 1713 Chiomonte e la val Clarea erano terra di confine tra il regno di Francia (e prima ancora il Delfinato) e le terre dei conti di Savoia… È probabile che ci fosse una guarnigione, e che questa allevasse piccioni per poter comunicare con le guarnigioni di Oulx e Briançon. In seguito la torre è rimasta, e probabilmente i colombi erano allevati per cibarsene”.
La Colombera mi faceva pensare al mago etilista dell’aneddoto: solinga, piena di fantasmi di uccelli da diporto, stava proprio sul ciglio di un dirupo e sembrava vacillare, sbilanciata da un cappuccio di rampicanti. Quanto al dirupo, s’affacciava su un orrido. Scendevi una scalinata e arrivavi alla sorpresa: uno specchio d’acqua sotterraneo che pochi conoscevano. Figurava già, con il nome di Lago piccolo, nella Carta topografica in misura della Valle di Susa e di quelle di Cezane e Bardonneche divisa in nove parti, realizzata dai cartografi sabaudi tra il 1764 e il 1768. Era acqua risorgiva della Dora, sbucava lì passando per chissà quali anfratti, limpida, perfettamente trasparente e dunque verde smeraldo, come il fondo nel quale l’occhio andava a distendersi.
Nel 2008, quand’era ministro dei trasporti tale Antonio Di Pietro, nei pressi della Colombera doveva sbucare ben altro: il (ratataplan!) “tunnel di base” della Torino-Lione. Si parlava anche di un viadotto attraverso le Gorge della Dora. Il movimento aveva avuto l’idea di comprare il terreno, dividendolo poi in 1.397 minilotti da meno di un un metro quadro, ciascuno proprietà di un attivista. L’intento era complicare le procedure di esproprio; in subordine, si voleva stabilire un nuovo avamposto. La prima festa dell’acquisto collettivo, chiamata Compra un posto in prima fila, si era svolta il 30 marzo 2008, una delle tante giornate memorabili nella storia e nella tradizione orale dei No Tav.
Nel giugno dello stesso anno si era fatto il bis a Venaus: 1.500 acquirenti No Tav per il terreno dov’era sorto il presidio più famoso, quello sgomberato dalla polizia il 5 dicembre 2005 e riconquistato tre giorni dopo da una moltitudine mai vista prima, un’alluvione di corpi che aveva travolto e messo in fuga le forze dell’ordine. Era stata la vittoria più importante, quella che aveva costretto l’avversario a cambiare piani, a ritrarsi dalla bassa valle e salire, inerpicarsi, cercare una gola in alta valle dove andarsi a rintanare.
Il terzo acquisto di massa era avvenuto più alla chetichella. Nel gennaio 2010, i No Tav avevano appreso che il cantiere del “cunicolo geognostico”, quello sbaraccato a Venaus quattro anni prima, avrebbe aperto in val Clarea, tra Giaglione e Chiomonte, accanto ai piloni dell’autostrada, nei pressi della cascina che i valligiani chiamavano – per via di un’immagine di donna affrescata su un muro – La Maddalena. Sessantaquattro No Tav erano andati dal notaio e avevano comprato un terreno proprio dove la bestia voleva riaprire le fauci. Un terreno fino a quel momento oscuro e ingrato, ma strategico per contrastare gli invasori nonché, di lì a poco, destinato alla celebrità: la “particella numero 31, foglio XV, seminativo di 889 metri quadri”.
Un ultimo raduno per l’acquisto di terreni minacciati si era svolto in un gelido e fradicio giorno d’ottobre del 2012, su un prato di San Giuliano di Susa. Più di mille persone a fare la fila sotto pioggia e nevischio, per presentarsi una alla volta davanti al notaio – lo stesso notaio delle volte precedenti, Roberto Martino, uno che in quelle circostanze doveva divertirsi un mondo – e comprare un metro quadro di terra a testa. Prezzo: 15 euro. Il regista Daniele Gaglianone aveva immortalato l’evento per includerlo nel suo documentario Qui.
Un animale bellissimo
L’acquisto più strategico si era rivelato il terzo, perché lo scontro si era rapidamente spostato in val Clarea. Il movimento aveva stabilito un presidio permanente, che nella tarda primavera del 2011 si era evoluto nella
Libera / Repubblica / della Maddalena.
Pronunciare quel nome ancora emozionava, i valsusini lo scandivano, lo facevano sembrare una poesia. Un esperimento di lotta e autogestione avanzatissimo, un minuscolo Rojava – che infatti in curdo vuol dire ovest – nel west della provincia di Torino. Due mesi che riempivano il movimento di nostalgia: dalla proclamazione del 23 maggio allo sgombero poliziesco del 27 giugno.
Il 3 luglio, il movimento aveva provato a ripetere il felice exploit di Venaus, di riprodurre quell’onda umana, travolgere gli usurpatori di terra e riprendersi la repubblica. Ma la val Clarea non era il fondovalle, e stavolta le forze dell’ordine erano pronte. Dopo una lunga giornata di avanzate, inseguimenti, nubi di lacrimogeno, manganellate e schermaglie nei boschi, la cornamusa dei No Tav aveva dovuto suonare la ritirata. Del vecchio presidio era rimasta una baita dove i No Tav facevano i turni, circondati dal cantiere che cominciava a ribollire, escrescere, sbuffare spore che divoravano il bosco.
Il 27 febbraio 2012, il cantiere aveva attaccato anche la baita. Durante l’assalto era avvenuto uno degli “incidenti” più noti della lotta No Tav: il contadino Luca Abbà, proprietario di uno dei metri quadri che il cantiere andava usurpando, era salito per protesta su un traliccio dell’alta tensione. Inseguito da un poliziotto, si era spostato sempre più su, finché non aveva preso la scossa ed era precipitato a terra, entrando in coma.
Luca si era salvato. I Cattolici per la vita della valle pensavano fosse anche merito loro: il Signore aveva ascoltato le loro preci. Beghine che pregavano per la salvezza di un anarchico! Il movimento No Tav era un animale bellissimo.
Assediare gli assediatori
Da allora i nemici si erano asserragliati in quella gola ed erano cambiati i rapporti tra movimento, popolazione della valle e grande opera. Non più la sfida in campo aperto, come ai tempi della battaglia del Seghino – 31 ottobre 2005 – e della riconquista di Venaus. Non più la militarizzazione appariscente del territorio e del consesso civile, con posti di blocco ovunque e forme di controllo odiose. No, da quel momento si trattava di inventare forme di creativa e capillare pressione sul cantiere.
L’articolo 19 della cosiddetta legge di stabilità 2012 – legge numero 183 del 12 novembre 2011 – aveva dichiarato il cantiere e l’area circostante “aree di interesse strategico nazionale”, equiparandole a zone militari, e come zone militari erano presidiate e difese. Non si trattava più solo di poliziotti: lungo i recinti e nei boschi si aggiravano militari di vari corpi, dagli alpini della Brigata Taurinense ai cacciatori di Sardegna, unità speciale dei carabinieri.
Nel mio primo racconto No Tav per Internazionale – Folletti, streghe, santi e druidi in val Clarea, del marzo 2013 – avevo passato in rassegna svariate invenzioni e tattiche di guerriglia del movimento: campeggi, preghiere di gruppo, riti pagani, apparizioni di spiritelli, “battiture” e tagli delle reti… Ma c’era una grossa lacuna: erano rimasti fuori i “gesti profetici” del siciliano Turi Vaccaro, veterano di tutte le lotte pacifiste e antimilitariste da Comiso 1981 in avanti, anzi, da prima ancora.
Il 4 agosto 2011 Turi, penetrato nella “zona rossa” che cingeva il cantiere, era salito su un grande cedro. Era rimasto lassù, tra i rami, per due giorni e due notti, in sciopero della fame, bevendo solo la sua urina, comunicando con i No Tav tramite note scritte che appallottolava e gettava oltre la recinzione. In una delle ultime si leggeva: “Vorrei restare quassù, ma mi rimangono poche energie per continuare il digiuno e per resistere, soprattutto se ci sarà ancora una notte con pioggia e vento”. Si sarebbe “arreso” solo a don Luigi Ciotti, aveva detto poco dopo. Quest’ultimo – grandissimo performer – non si era fatto attendere: giunto in val Clarea, era salito su un’autoscala dei vigili del fuoco. Il prete e il santo si erano abbracciati a venti metri d’altezza, e Turi era sceso tra gli applausi del popolo No Tav.
Poco tempo dopo, senza una ragione difendibile, il cedro era stato abbattuto. La vendetta dei potenti sbeffeggiati deturpa il mondo.
Il 4 marzo 2012, una settimana dopo la caduta di Luca Abbà, Turi si era arrampicato sullo stesso traliccio. Ci era rimasto appollaiato tutta la notte. Le guardie, ancora scottate per le polemiche sul 27 febbraio, non avevano osato salire. Nessun tentativo di trascinarlo giù.
Il 5 settembre 2015 Turi aveva eluso la sorveglianza ed era apparso all’improvviso nel cantiere, a due passi dai poliziotti allibiti, a torso nudo e in calzoncini, la barba grigia, i capelli lunghi e caldi di sole, nelle mani una bandiera No Tav, inatteso e più che mai incongruo, come un ologramma, però tangibile. Prima che le guardie potessero battere le ciglia due volte, si era messo nella posizione yoga del Sîrsâsana, quella che noi profani chiamiamo “la verticale”.
Una delle più recenti forme di pressione sul cantiere erano appunto i “pranzi del mercoledì”, e noi avevamo fame, e rieccoci dov’erano rimasti i nostri corpi mentre il pensiero spaziava: al checkpoint di via dell’Avanà.
Avevamo tutto il diritto di passare, ma i blu di Prussia ci tennero fermi a lungo mentre facevano controlli, telefonate, sentivano questo o quel funzionario del tale ufficio… Infine, ci dissero che chi non possedeva terreni non poteva entrare.
“Loro sono proprietari terrieri?”, ci chiesero, usando precisamente quell’espressione.
“No, io faccio il fotografo”, rispose Michele.
“E Lei?”, domandarono a me.
“Io faccio lo scrittore”.
“E Lei?”, rivolgendosi a Mariano.
“Scrittore anch’io”, e per fortuna non aggiunse “illusionista”.
Prima che le guardie chiedessero a tutti che lavoro facessero, Guido, Nicoletta e Simone cominciarono a protestare: “L’ordinanza del prefetto vieta l’accesso a quest’area solo dopo le 19, non avete nessun motivo per impedirci di passare”.
Quelli si riattaccarono al telefono, e poco dopo riferirono: “La dirigente comunica che, per la loro incolumità, devono lasciare sgombro questo passaggio e uscire da quest’area”.
“Ah, sì? Bene, fatela venire qui, la dirigente. Noi intanto chiamiamo i nostri avvocati”.
Forse li aveva insospettiti il numero, perché eravamo in sette: io, Michele, Simone, Filippo, Mariano, Guido e Nicoletta. Chissà cosa stavamo complottando!
Nel prosieguo del battibecco, arrivarono a dire che l’ordinanza da noi citata non era più valida, ché ogni giorno il prefetto ne emetteva una nuova. Una simile prassi ci parve dispendiosa e poco plausibile, così chiedemmo di vedere l’ordinanza di quel giorno. Dissero che non ce l’avevano.
Telefonammo all’avvocato Valentina Colletta, del Legal team No Tav. Disse che avrebbe chiamato direttamente la prefettura.
Mentre aspettavamo, qualcuno mi chiese: “Che articolo hai in mente di scrivere?”.
Per rispondere, dovetti riavvolgere il nastro.
Sentenzaiola
Mentre il 2015 affievoliva, e dopo una gragnuola di notizie che avevano ammaccato la reputazione in loco di alcuni vip torinesi ma non erano arrivate nel resto d’Italia, proposi a Internazionale un nuovo racconto sulla lotta in val di Susa. Da tempo lavoravo a un libro-monstre sul movimento e sentivo l’urgenza di fare un compendio. Un punto della situazione.
A un quarto di secolo dai primi vagiti di protesta, a che punto si trovava il movimento No Tav?
Nel novembre 2015 il Tribunale permanente dei popoli (Tpp), dopo un impegnativo lavoro istruttorio e un lungo dibattimento, aveva dichiarato:
“In val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione…; [i diritti] di partecipare, direttamente e attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, nei processi decisionali relativi alla convenienza ed eventualmente al disegno e alla costruzione del Tav; di avere accesso a vie giudiziarie efficaci per esigere i diritti sopra menzionati. Dall’altra parte si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta… [Ci sono state] violazioni che sono il prodotto di azioni deliberate e pianificate: la diffusione di informazioni contenenti falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità, all’impatto dei lavori; la simulazione di un processo partecipativo con l’istituzione dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino Lione, che arriva a escludere i dissidenti e ad annunciare un accordo [con le amministrazioni locali] inesistente… Pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia che includono anche la persecuzione penale sproporzionata e la imposizione di multe eccessive e reiterate, l’uso sproporzionato della forza”.
Parole durissime, motivate in un dispositivo di sentenza che il movimento aveva subito diffuso in rete, distribuito in migliaia di copie a stampa… e veicolato in modi “alternativi”.
La sera del 10 novembre il mio gruppo guerrigliero preferito, il Nucleo pintoni attivi (Npa), aveva organizzato una “sentenzaiola”, un lancio di copie della sentenza – arrotolate a mo’ di pergamena e legate con nastrini rossi – oltre la recinzione del cantiere Tav. Hai visto mai che un poliziotto s’incuriosisce e la legge? Macché, come donar sangue a una pietra. Di là dal filo spinato, solo sguardi vacui e sogghigni spenti. I poliziotti avevano preso le “pergamene” e le avevano rilanciate ai mittenti. Nel mentre, un attivista leggeva la sentenza al megafono, ma hai presente quando uno ostenta di non volerti ascoltare, si mette le mani sulle orecchie e salmodia qualcosa tipo lololololololololololo? Ecco, così. E i Pintoni s’erano forse fatti scoraggiare? Avevano perso anche solo un’oncia di buonumore? Non sia mai.
Allontanatisi dal cantiere, avevano portato una copia della sentenza alla caserma dei carabinieri di Susa, e avevano chiesto che fosse protocollata.
Erano attivisti in gran parte over 60, con svariati over 70 e perfino qualche over 80. Il gruppo prendeva il nome dal “pintone”, la bottiglia di vino da due litri. La sigla Npa, vagamente “lottarmatesca”, intendeva prendere per i fondelli quei cronisti, opinion-maker e uomini di legge che amavano dipingere una val di Susa in balìa di imprecisati terroristi. Un unico grande covo.
Repressione e intimidazione
Il Tribunale permanente dei popoli era un tribunale d’opinione che indagava sulle violazioni dei diritti umani e delle libertà civili. Era nato nel 1979 su iniziativa di Lelio Basso, l’autore del comma più bello e utopico della costituzione italiana, il secondo dell’articolo 3:
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
Il Tpp operava sulla scia del Tribunale Russell I, fondato da Bertrand Russell per indagare sui crimini di guerra degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Successive incarnazioni del Tribunale Russell si erano occupate delle dittature latinoamericane (Cile, Brasile, Uruguay), della questione palestinese e dell’etnocidio dei popoli amerindi. Anche il Tpp si era dato parecchio da fare, conducendo inchieste e tenendo sessioni in mezzo mondo.
Nell’autunno del 2015, accettando l’invito del Controsservatorio Valsusa, il tribunale si era insediato a Torino, aveva ascoltato decine di ore di testimonianze, acquisito relazioni di ingegneri geologi economisti giuristi… Aveva anche contattato i proponenti e difensori della grande opera, i quali avevano risposto schermendosi nel modo più banale e passivo-aggressivo: “Non abbiamo niente da dire, è tutto scritto nei documenti”.
I membri del tribunale avevano cercato di visitare il cantiere Tav… e toccato con mano il clima di repressione e intimidazione che circondava l’opera. “Nella loro visita alla zona”, si leggeva nel dispositivo della sentenza “i membri di una delegazione del Tpp sono stati trattati come potenziali delinquenti. Ciò rende evidente che gli effetti sulla vita quotidiana degli abitanti sono stati enormi…”.
“Il tribunale aveva fatto richiesta ufficiale al direttore dei lavori”, mi avrebbe raccontato l’attivista Ezio Bertok, “ma l’accesso era stato negato con vari pretesti. Abbiamo accompagnato la delegazione ai bordi del cantiere… Sono stati sottoposti a controlli di documenti, attese lunghe, registrazioni, continua osservazione con telecamere… Decine e decine di funzionari della Digos circondavano i giudici. Un atto intimidatorio, e secondo me anche stupido”.
I No Tav davanti alle recinzioni del cantiere-fortilizio, val Clarea, 5 settembre 2015, . – Michele Lapini I No Tav davanti alle recinzioni del cantiere-fortilizio, val Clarea, 5 settembre 2015, . (Michele Lapini)
Sapevo bene di che parlava, era capitato anche a me nel gennaio 2014, quando avevo accompagnato in val Clarea Mark Savage e Lucy Ash, due giornalisti della Bbc. Una squadra di forzuti in mimetica e occhiali neri, con fare ostile, aveva circondato i due attoniti reporter e li aveva costretti a cancellare le foto del cantiere appena scattate con i telefonini. “Questo è un luogo pubblico dove si eseguono lavori pubblici spendendo soldi pubblici”, aveva commentato Mark. “Anche soldi dell’Unione europea. Io sono un cittadino dell’Ue, quei soldi escono dalle mie tasche e non posso vedere come vengono spesi?”. Vagliela a spiegare, agli inglesi, la legge di stabilità 2012.
I mezzi d’informazione mainstream nazionali avevano ignorato la sentenza del Tpp e quelli locali avevano tentato la via dell’irrisione, ma per il movimento era un risultato da valorizzare, una certificazione degli sforzi compiuti, un pieno riconoscimento delle ragioni di chi si opponeva alla grande opera.
Nel frattempo, dopo mesi in cui si era cercato di far passare l’idea di una valle “ormai pacificata”, nei pressi del cantiere erano ripresi gli scontri; lo scrittore Erri De Luca era stato inquisito per i contenuti di una sua intervista contro il Tav, processato per istigazione a delinquere e infine assolto perché il fatto “non sussisteva”; la corte di cassazione aveva smontato gli impianti accusatori di diverse inchieste contro il movimento, escludendo le fattispecie dei reati con finalità di terrorismo; il pool anti-No Tav messo in piedi dal procuratore Giancarlo Caselli – in valle li chiamavano “i pm con l’elmetto” – aveva sollevato tali e tante critiche negli ambienti del diritto e in una parte dell’opinione pubblica, che il nuovo procuratore Armando Spataro – non certo una “colomba” – aveva deciso di smantellarlo. Il 22 dicembre 2015, La Stampa aveva titolato: “Finita un’era, la Procura cambia strategia”.
Insomma, era il momento buono per passare di nuovo qualche giorno in valle, fare sopralluoghi e interviste, raccontare come stavano il movimento No Tav e – per sineddoche – il variegato movimento contro le grandi opere dannose, inutili e imposte, a un anno dal decreto definito “SbloccaItalia”. Nome che mi aveva sempre fatto pensare a un purgante.
Era una guerra di mondi, e per giunta asimmetrica. Il 6 novembre 2015, mentre il Tpp ascoltava testimonianze a Torino, il premier Renzi aveva estratto dal cilindro il coniglio del ponte sullo stretto di Messina. Sguardi colmi d’orrore: la bestiola era in putrefazione.
Il direttore aveva risposto: “Ok”.
Poi aveva aggiunto: “Porta con te un fotografo”.
Fine della prima parte.
di Wu Ming, fotografie di Michele Lapini
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