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Una ripartenza senza freni

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Marco Revelli per Volere la Luna

“Devono marcire in galera”. Così titolavano i tabloid da 50 centesimi nei giorni immediatamente successivi alla tragedia della funivia del Mottarone, quando ancora a prevalere era la versione che aveva motivato la Procura di Verbania a procedere all’arresto del gestore, del direttore e del capo operativo del servizio per la manomissione dei freni. Non mi stupì, allora, il contenuto perentorio della frase: in fondo è difficile immaginare un comportamento più “criminale” di quello di un’impresa che, per frenesia di guadagno, per non perdere nemmeno un giorno di profitto dopo l’agognata riapertura, disattiva il sistema frenante di una cabina per aggirare i frequenti arresti prodotti da malfunzionamenti ed evitare la chiusura prolungata dell’impianto, mettendo a rischio gravissimo la vita dei propri utenti. E ci sta che il senso comune non vada tanto per il sottile chiedendo punizioni esemplari.

Mi stupì, piuttosto, che quell’appello alla ghigliottina venisse da un mondo giornalistico, quello della cosiddetta penny press, da sempre serbatoio di passioni tristi populiste, o dei suoi fratelli maggiori (“Libero”, “La Verità”, ecc.) che poco più di un anno prima avevano non solo approvato, ma sollecitato comportamenti imprenditoriali altrettanto gravi, mossi dai medesimi appetiti, dalla stessa frenesia del “fare” che non tollera soste né “freni”, come quello di chi (le Confindustrie lombarde) poco più di un anno fa impedì la chiusura dei comuni di Alzano e Nembro, che costò non 14 ma centinaia di vittime. E ovunque si adoperò per neutralizzare l’azione frenante degli “esperti” circa le necessarie “chiusure” in nome del work must go, esibendo la stessa “avidità” che ora si attribuiva ai businessman di Stresa, la stessa insofferenza alle misura di sicurezza che la Procura di Verbania indicava nei comportamenti aziendali delle Ferrovie del Mottarone. In fondo quale differenza c’è tra chi mette i “forchettoni” ai freni di una cabina per disattivarli e impedirgli di rallentare il business, e chi mette il piede nella porta delle discoteche della Costa Smeralda e della Versilia per evitarne la chiusura sanitaria e garantirne l’alta stagione anche nella coda di una pandemia, trasformandole in giganteschi focolai che alimenteranno la seconda ondata? E poi, andando più indietro, che dire dei vertici dell’Ilva che a Taranto hanno continuato a produrre su scala allargata diossina e a uccidere fin anche i feti nel ventre materno, eludendo tutte le più elementari misure di sicurezza, a cui buona parte della stampa ha assicurato una costante copertura, perché “il Paese non può rinunciare all’acciaio”, e quanto lavoro andrebbe perduto? Insomma, quel giustizialismo da 50 cent. dispensato sull’onda del lutto di Stresa mi sembrava un’anomalia.

E infatti il quadro si è rapidamente rovesciato – o se si preferisce riallineato – con l’intervento da deus ex machina della Gip Donatella Banci Bonamici, che avrebbe “ribaltato” la decisione della Procura mandando liberi imprenditore e direttore e mantenendo le misure cautelari (domiciliari) per il solo lavoratore dipendente coinvolto, quello sciagurato Tadini che avrebbe fatto tutto da solo decidendo, non si sa perché, senza che nessuno glielo ordinasse, un intervento omicida e suicida. Solo a questo punto, finalmente, ha potuto venir fuori il vero spirito del sistema mediatico prevalente, ben visibile nella raffica dei titoli (“il Gip ribalta la decisione della Procura”, “accusa smontata”, “solo suggestioni” quelle del Pm) che rivelavano l’evidente sollievo nel vedere la proprietà assolta, e la colpa confinata nei piani bassi dell’organigramma aziendale. Il mondo restituito al suo giusto ordine – into its joints direbbe Amleto – con i capi d’impresa mondati di ogni colpa, anche solo del sospetto di essa, perché non si possa mai dire che l’onore un Imprenditore – come quello degli antichi Signori feudali – sia viziato dalla macchia dell’Avidità, e che un Manager non ami i propri clienti e i propri dipendenti come se stesso. Così sulle prime pagine di giornali e telegiornali, fin dal minuto successivo alla scarcerazione del gestore e del suo direttore, è partito un processo di beatificazione tambureggiante, quasi una sorta di risarcimento e di atto di contrizione per aver dubitato accogliendo le “suggestioni” della Pm e lasciandosi sfiorare dall’eretico pensiero che in questa storia terribile l’ossessione del profitto e la necessità di far quadrare il bilancio possano aver avuto un qualche ruolo.

Intendiamoci, non si tratta qui di sposare una tesi giudiziaria o emettere sentenze pre-giudiziali. L’indagine è appena iniziata, e può darsi benissimo che l’ipotesi innocentista ne esca confermata, anche se il curriculum della pm Olimpia Bossi ci consegna un profilo di alto livello e serietà, e la scarcerazione degli indagati è dovuta all’elemento formale dell’assenza del “pericolo di fuga” più che a una vera “estraneità ai fatti” che resta tutta da appurare. Quello che interessa è piuttosto il voltafaccia dei commentatori e degli opinion leader, con il riposizionamento esattamente nel punto in cui li si sarebbe potuti aspettare, e dove almeno tre decenni di egemonia di una cultura d’impresa che vede nell’imprenditore la figura simbolo della virtù sociale li ha quasi irremovibilmente collocati.

 Eppure, una lunga lista seriale di fatti di “cronaca nera” degli ultimi tempi dovrebbero farci riflettere sul carattere non innocente della logica d’impresa. E di quanto l’ossessione della “sfrenatezza”, ovvero l’incomprimibile fastidio per tutto ciò che sa di “freno”, d’inibizione alla “febbre del fare”, esasperato evidentemente dal carattere tendenzialmente costrittivo del lockdown, vissuto a sua volta come attentato alla santissima e celebratissima “libertà d’impresa”, sia diventato tratto diffuso del nostro mondo imprenditoriale. E’ ansia di “togliere i freni” la domanda pressante di far cessare il blocco dei licenziamenti stabiliti nel periodo del Covid. E’ furia di togliere i freni la “semplificazione” delle regole per gli appalti e per le Grandi Opere. E’ furia di togliere i freni la pressione per l’abolizione del “coprifuoco” ovunque, a prescindere dai parametri sanitari. E’ furia di togliere i freni il rifiuto della mascherina, anche se il contagio non è ancora scomparso.

E’ infine furia di togliere i freni la corsa disordinata alla ripartenza nelle fabbriche e nei cantieri, senza badare troppo per il sottile alle misure di sicurezza che potrebbero rallentare i ritmi del rilancio ma la cui trasgressione si paga, e caro. In fondo non solo la grande tragedia del Mottarone, ma anche tutte le altre tragedie minori che hanno costellato le cronache del lavoro in questi mesi, i tanti, troppi, “omicidi bianchi” che carsicamente hanno forato la superficie narcotizzata dell’informazione, recano in qualche modo lo stesso segno simbolico. Così è stato per la morte, terribile, di Luana D’Onofrio, dilaniata dall’orditoio su cui lavorava e in cui probabilmente era stata disattivata la fotocellula (il “freno” elettronico) che avrebbe dovuto far chiudere il cancelletto che l’avrebbe salvata sia pur rallentandone il lavoro. Così è stato anche per Andrea Lusini e Alessandro Brigo (51 e 50 anni) della Digima di Pavia, uccisi da un getto di vapore tossico mentre pulivano una cisterna: erano privi della maschera protettiva che li avrebbe salvati ma che il padrone ha detto che non era “obbligatoria” e che avrebbe costituito un impaccio… Proprio mentre scrivo le agenzie battono la notizia di una nuova morte sul lavoro, nel bresciano, dove un operaio di una ditta esterna addetto alla manutenzione è morto precipitando in una botola di cui non conosceva l’esistenza e che si è aperta improvvisamente sotto i suoi piedi. L’incidente è avvenuto mentre davanti alla prefettura si svolgeva una manifestazione di protesta contro le morti sul lavoro e un sindacalista ha così commentato:  “Mi pare che la fretta e la furia di ripartire possa diventare un rischio aggiuntivo a quelli già presenti nei normali processi”, dando voce al pensiero di molti.

D’altra parte, chi taglia corto e si affretta a partecipare alla festa del ritrovato guadagno senza badare troppo per il sottile e liberandosi di tutto ciò che considera una pastoia inutile, non fa che conformarsi all’aria che tira oggi nel Paese. In basso come in alto. Soprattutto in alto. Questo di Mario Draghi si conferma sempre più il Governo dell’accelerazione. Ovvero della rimozione dei freni. L’ha dimostrato con l’inqualificabile vicenda del blocco dei licenziamenti, prima votato all’unanimità in Consiglio dei ministri alla data di fine agosto e poi inopinatamente retrodatato all’inizio di luglio non appena la voce del padrone, nella persona del presidente di Confindustria Carlo Bonomi l’ha richiamato all’ordine. E l’ha confermato con il decreto “Semplificazioni”, con quell’inserimento dell’appalto al massimo ribasso (che equivale a una libertà di sacrificare le misure di sicurezza e i relativi costi) e della facoltà di subappalto senza soglia. Si dirà che poi il decreto è stato corretto, e che il primo istituto è scomparso e il secondo è stato ridimensionato, ma lo si è fatto solo su minaccia sindacale di proclamare uno sciopero generale. E la bozza originaria, che rivela evidentemente il vero pensiero dell’estensore, parla da sé. Avevamo sospettato fin dall’inizio, da quando il guastatore di professione di ogni istituto civile, Matteo Renzi, aveva aperto la crisi del Conte due, e anche da prima, quando era incominciato il tormentone del desiderio di governassimo e di beatificazione dell’ex presidente della Bce da parte di tutti i poteri parassitari di questo Paese, che Mario Draghi fosse l’uomo del via libera: della rimozione di tutti i freni inibitori agli animal instincts confindustriali. Ora ne abbiamo la conferma concreta. E temiamo che non sia ancora finita.

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