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Antropologia conviviale – estrattivismo e cura della terra

Il tavolo “estrattivismo e cura della terra,” tenutosi durante le giornate di Antropologia conviviale (Val Chiusella, 22-25 agosto 2024), è stato un momento di confronto tra diversi contesti e modi di intendere il problema dell’estrattivismo, problema che possiamo definire, con Raul Zibechi, come la forma mentis o forma ideologica del capitalismo. Con questo testo, scritto e rivisto a più mani, vogliamo restituire alcuni degli spunti emersi durante la discussione, e condividere delle risorse utili a capire e contrastare quei meccanismi che rischiano di annientare i tanti mondi che abitiamo.

Risulta difficile parlare dell’estrattivismo nell’astratto: il contesto geografico, storico e politico determina non solo la forma precisa dell’estrazione – che cosa viene estratto, e per quale motivo – ma anche le conseguenze più profonde e articolate dell’estrattivismo a livello sociale e culturale.

Oltre agli interventi più articolati – che riportiamo qui di seguito – il dibattito ha toccato tanti aspetti dell’estrattivismo, inquadrando il termine attraverso problematiche più che mai attuali come il caso dell’eolico in Sardegna, una vera e propria nuova frontiera dell’estrattivismo nostrano, o delle nuove leggi che mettono sempre più in difficoltà le comunità che tentano di opporsi e che spesso si ritrovano sprofondate nella rassegnazione. O ancora, allargando lo sguardo oltre l’Europa, possiamo rintracciare nell’attuale stallo geopolitic tra USA e Cina una nuova febbre dell’oro, una corsa alle terre rare volta a soddisfare l’insaziabile e crescente fabbisogno energetico imposto dalle nuove tecnologie e in particolare dall’intelligenza artificiale. E, sempre a proposito di nuove tecnologie, si parla adesso anche di estrattivismo dei dati, dove ciò che viene estratto è il valore in sé: valore delle comunicazioni, delle informazioni biometriche, dei profili degli utenti. Ma, a monte di queste molteplici e fantasiose forme di estrazione, la parola estrattivismo ha una radice ben precisa: l’estrazione di risorse dalla terra e le conseguenze che tale estrazione ha per i luoghi che ne vengono toccati.

Il primo intervento del tavolo, a cura del collettivo Athamanta, ha approfondito la questione dell’estrattivismo nelle cave di marmo delle Alpi Apuane (Massa-Carrara), affrontato attraverso un percorso di ricerca militante. 

Parlare di estrattivismo significa parlare di luoghi e di paesaggi che cambiano uso, e a Carrara la montagna è intesa in primo luogo come cava. Nelle Apuane vi è una forte mitologia del marmo e del mestiere del cavatore, che però al giorno d’oggi non corrisponde più alla realtà: all’“eroismo” del lavoro in cava si è sostituita la meccanizzazione; i dipendenti diminuiscono, mentre gli impatti ecologici aumentano. Oltre tutto, la proporzione di materiale estratto in blocchi rispetto al totale del materiale estratto (detriti) corrisponde a meno del 20%. La legge regionale prevede che una cava per essere attiva produca almeno il 25% di blocco, per fare piastrelle e lastre per l’edilizia del lusso, e il 75% di scarto, detrito che viene reintegrato da circa 30 anni nell’industria del carbonato di calcio (malte e collanti per l’edilizia, dentifrici, sbiancanti). In alcune cave si arriva addirittura al 5% di blocco e 95% di materiale di scarto, grazie ad alcuni sgravi legati a una presunta “economia circolare” dei rifiuti. 

I fatturati delle aziende possono arrivare ai 70 milioni annui e il profitto, anche per fatturati numericamente più bassi, si aggira intorno al 50% del fatturato. In tal senso troviamo concretizzata una delle maggiori contraddizioni del sistema estrattivista: le cave di Carrara hanno tra i fatturati più alti d’Italia, eppure il territorio rimane uno tra i comuni più poveri d’Italia e con il più alto tasso di disoccupazione giovanile in Toscana. Senza considerare il dissesto idrogeologico ( 7 alluvioni in 20 anni solo a Carrara), l’inquinamento delle acque e la saturazione dei bacini idrici che si riempiono di polvere (secondo bacino, quasi a pari merito per estensione, di acqua potabile in Toscana), la modifica irrevocabile del panorama e del paesaggio. 

La situazione è identica a quella che riscontriamo in altri casi di estrattivismo dilagante: a fronte di una devastazione socio-ambientale le piccole e scarse compensazioni da parte delle aziende si mescolano con la narrazione green e mediatica sulla loro centralità per la sopravvivenza (anche qui, socio-economica) del territorio, convincendo che quello è l’unico modo di gestire (e vivere) il territorio stesso. In un totale disprezzo della legge, l’estrattivismo a Carrara è molto più dell’estrazione di una risorsa: è un progetto che ha costruito l’immaginario di un territorio.

A seguito dell’intervento di Athamanta si è passati in Piemonte, con una presentazione del progetto di Confluenza, un gruppo di lavoro nato da persone che fanno parte di diversi comitati come Ecologia politica (Collettivo universitario), Salviamo gli alberi di Corso Belgio e  Acqua pubblica. L’obiettivo è quello di creare una rete di legami e rapporti attivi che possano rafforzare i diversi comitati che esistono nella regione in difesa del territorio, contro il dilagare di un estrattivismo sempre più invadente. 

Il lavoro che propone Confluenza risponde a una situazione attuale, quella del PNRR, dove impera una rapidissima territorializzazione di nuovi progetti estrattivisti: da inceneritori, a nuove cave, depositi nucleari e dighe. L’opuscolo di Confluenza, pubblicato in estate 2024, riporta quello che viene chiamato il corto-circuito estrattivista, dove dall’estrazione si passa alla produzione e, infine, allo scarto, in un processo di voracità e accelerazione sempre maggiore di sfruttamento della terra e dei suoi abitanti. L’esempio del Piemonte di oggi mette in risalto il problema dell’estrattivismo interno, un problema che prima non si vedeva ma che oggi si vede sempre di più. 

Uno dei focus principali di Confluenza sta nella riappropriazione dei saperi: imparare a mettere in condivisione le proprie competenze, nel caso di coloro che si occupano di fare ricerca in accademia, vuol dire mettersi a supporto concreto delle lotte in difesa del territorio in cui si è immersi. Vuol dire uscire dalla bolla del sapere formale e istituzionale per mettere a disposizione dei ragionamenti di critica al sistema, ma anche mettere a disposizione dei saperi che vengono impartiti nei contesti tecnico-scientifici per rafforzare delle istanze collettive. Si tratta di una riappropriazione dei saperi e allo stesso tempo di una loro attivazione, cercando così di evitare la trappola della sempre maggiore specializzazione, che comporta il rischio di chiudersi all’interno di camere ermetiche non più in grado di comunicare con il reale.

Uscendo dallo scompartimento del sapere accademico si incontra il mondo del sapere dal basso, fatto di esperienze e legami con il territorio. Saperi non riconosciuti, ma che sono la linfa vitale dei comitati che sempre più si stanno attivando. Gli esperti non sono solo i tecnici e gli scienziati utilizzati dalla controparte per convalidare un progetto impartito dall’alto per scopi economico-politici, gli esperti sono anche quelli che vivono tutti i giorni un determinato contesto e che superano i dettami della scienza e della tecnica che tentano di amministrare i territori. 

Oltre alla formazione, è indispensabile anche l’ambito della comunicazione. Proprio per questo l’intenzione di Confluenza è anche quella di mettere in connessione i comitati attraverso un’informazione dal basso, che passa per una rubrica che prende il nome del progetto Confluenza sul sito Infoaut, dove si possono trovare aggiornamenti, riflessioni e nuovi appuntamenti dai comitati. 

In ultimo luogo si è parlato della Valle di Susa, che condivide con tanti altri siti di estrattivismo una lunga e sofferta storia di sfruttamento del territorio e di devastazione ambientale, che nella fase attuale si concentra intorno ai cantieri della Torino-Lione. L’episodio più recente – che già si preannunciava nelle giornate di Antropologia conviviale, ma che si è poi concretizzato nell’autunno appena passato – riguarda la frazione di San Giuliano di Susa, una piccola borgata già sommersa di infrastrutture, tra cui una statale, una ferrovia, e un imponente svincolo autostradale. Con l’inizio dei lavori per il nuovo maxi-cantiere TAV della piana di Susa ormai alle porte, San Giuliano rischia di diventare il nuovo “luogo-simbolo” della devastazione in Valle di Susa.

Il primo passo in questa direzione si palesava ormai da tempo con l’annuncio di una serie di espropri che riguardavano alcune case della zona, e in particolar modo il terreno che ospitava da anni il presidio No TAV di Susa. Quel terreno, acquistato dieci anni prima da circa un migliaio di No TAV per resistere all’insediamento del nuovo cantiere, era servito inizialmente come una specie di “barricata di carta,” che avrebbe dovuto ostacolare l’avanzamento dei lavori costringendo i proponenti l’opera a una lunga e fastidiosa burocrazia. In realtà, è poi diventato molto di più: l’inizio degli espropri era previsto per i primi di ottobre, e per tutta l’estate il presidio, come tanti altri presidi No TAV nell’ormai trentennale storia del movimento, è stato vissuto quasi quotidianamente, ospitando iniziative, cene, proiezioni, spettacoli teatrali, e infine un campeggio di lotta, programmato per coincidere con l’inizio degli espropri.

In realtà, gli espropri veri e propri non sono mai avvenuti: le forze dell’ordine hanno infatti anticipato i tempi, sgomberando il presidio giorni prima dell’avvio formale delle procedure di esproprio, appropriandosi del terreno con la forza alle 4 di mattino e recintando tutta la zona intorno. Le strade della borgata sono state chiuse per giorni, costringendo gli abitanti della zona furono costretti a percorrere la via più lunga per arrivare in città senza ostacolare i posti di blocco. Un paio di volte è stato impedito il passaggio anche alle ambulanze. Il colmo è che, concluse le procedure di esproprio, il terreno è rimasto abbandonato, destinato – per adesso – ad essere usato come un mero e desolante deposito di barriere new jersey e di rotoli di concertina.

Ciò che abbiamo visto quest’autunno a San Giuliano è una nuova e lampante dimostrazione dell’idea che la Valle di Susa, in realtà, non può e non deve essere di chi l’abita. Come tanti altri territori che sono diventati siti di estrazione, la Valle è un luogo di importanza strategica per lo sStato italiano, per l’Unione Europea e per le grosse imprese che lavorano nei cantieri TAV, e per questo motivo deve rimanere a tutti gli effetti un territorio sacrificabile. La lotta del movimento No TAV si fonda sull’opposizione a questo sacrificio: “Non ci ruberete il futuro,” come recitava una delle frasi più emblematiche della lotta al TAV. In Valle di Susa questo sacrificio risale a molto prima del TAV: discariche piene di amianto, sversamenti di PFAS nelle acque, terreni agricoli cementificati e cantierizzati, siti archeologici devastati e militarizzati per anni, compensazioni ricattatorie e una repressione sempre più mirata ci dimostrano la cifra di quanto vale questo sacrificio, quanto sia già stato perso, ma anche il tanto per cui vale ancora la pena di lottare.

L’estrattivismo, sia esso inteso come ambito di ricerca o fronte di lotta, ci riporta alla concretezza di ciò che ci circonda. Fare rete significa aprire delle finestre comuni sulle cose che ci riguardano. Affrontando questi problemi da un punto di vista della ricerca, la sfida che ci poniamo è di come riportare la Vita all’interno del nostro lavoro. In questo senso, l’ecologia politica è un atto di immaginazione pratica, in cui la politica assume anche un valore conviviale, una forma di riproposizione del tema (tanto basilare quanto troppo spesso scontato alle nostre latitudini) della vita e della sua difesa. Ecologia politica, quindi, è immaginazione di altre forme di vita, in cui umano e natura possano finalmente fondersi di nuovo.

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