Nuovi terreni da esplorare: dal consumo di suolo allo spreco di risorse idriche verso un’agricoltura 4.0
In un clima in cui le istituzioni sono sempre meno propense ad ascoltare i bisogni e le necessità delle persone, di chi vive e lavora nei territori, compresi i coltivatori e i tecnici agrari, scambiarsi esperienze e prospettive è sempre di più uno strumento per crescere.
Questo contributo è il risultato dello scambio avvenuto in occasione del dibattito organizzato dal collettivo Il Faggio e Confluenza presso l’Università di Agraria il 27 novembre scorso.
Con il collettivo Il Faggio abbiamo parlato di agricoltura, di gestione del verde urbano, consumo di suolo e sfruttamento della risorsa idrica. Nel manifesto di Confluenza, il suolo è stato definito ‘la preda perfetta per il cacciatore neoliberista del Terzo millennio’: un cacciatore a fine corsa, appesantito oltre misura dalla sua ingordigia, che può dare la caccia soltanto a ciò che non gli sfugge o gli si ribella, eppure ancora divorato da un appetito cieco e distruttivo. All’interno del cortocircuito estrattivista individuiamo l’agricoltura, intensiva e meccanizzata, come agente trasformatore del pianeta e come produttrice di profitto. Negli ultimi decenni la fertilità del suolo e il suo uso per produrre cibo o foraggio stanno passando in secondo piano lasciando spazio a nuove possibilità per sfruttarlo. È stato portato l’esempio della Valledora, fino a cinquant’anni fa terra di frutteti: prima sfigurata dalle cave di sabbia e ghiaia per la realizzazione delle grandi infrastrutture della pianura Padana, poi inquinata dalle discariche che hanno occupato le voragini scavate per le estrazioni, ora è nel mirino di A2A, che vorrebbe insediarvi un inceneritore per rifiuti speciali. In casi come questi, i terreni agricoli vengono acquistati a prezzi superiori a quelli di mercato dalle imprese private, sottraendoli alla coltivazione. Ma ora incombono anche espropri, per la realizzazione di impianti agrofotovoltaici oppure, in altre Regioni, eolici (si veda l’indagine di Confluenza in Sardegna il mese scorso).
In città il suolo, compreso quello delle aree verdi pubbliche, è visto soprattutto come superficie o cubatura. Lo si priva della vegetazione, che talora alimenta la filiera del legno, in particolare della legna da ardere (pellet e biomasse legnose, inserite purtroppo tra le fonti energetiche rinnovabili dall’Unione Europea, nonché accaparrate dalle mafie che trafficano legno da nord a sud). Ma il suolo pubblico si svende anche per collocarvi supermercati (giardino Artiglieri da Montagna), ospedali (Pellerina) oppure per piazzarvi attività che saranno gestite da privati (Meisino). Questo processo è favorito dai fondi europei, in particolare quelli del PNRR, che permettono di saltare partecipazione e controlli ambientali e paesaggistici. Oltre a ciò, non si arresta affatto il consumo di suolo per la costruzione di edifici e strade: sul nostro territorio si va discutendo, per esempio, di Gronda Est, travestimento soft della tangenziale est che devasterebbe la collina tra Gassino e Chieri, con ramificazioni verso Cambiano, Villanova, Poirino, un territorio che ha avuto il riconoscimento MAB UNESCO, a vocazione agricola e di turismo di prossimità.
Anche l’acqua è ormai divenuta oggetto di sfruttamento. Solo meno del 3% della risorsa idrica presente sul pianeta è acqua dolce, i due terzi di esso inoltre si trova all’interno dei ghiacciai, buona parte dei quali sono in via di estinzione a causa del riscaldamento climatico. Alla crescente carenza di acqua la politica però non sta rispondendo con il porre limiti agli sprechi investendo ad esempio per riparare le reti colabrodo degli acquedotti o per la tutela delle fonti e la loro conservazione. Impone invece nuove grandi opere spesso funzionali al sistema estrattivista, quali l’assurdo impiego di acqua per generare neve artificiale al fine dii tenere in vita un’economia sciistica montana ormai elitaria e anacronistica e che hanno come conseguenza quella di alterare la portata dei fiumi, i loro habitat e la consistenza delle falde a essi correlata. Grandi opere che del resto consumano e inquinano acqua esse stesse, quando non causano addirittura l’inaridimento delle sorgenti. In un tale contesto di spreco e incauta gestione dell’acqua, si aggiunge la perenne e famelica presenza del mercato che tenta di farsi strada nella gestione del servizio idrico in maniera sempre più sfrontata (prova ne sono i recenti goffi tentativi dell’attuale governo di inserire l’ingresso di società private nella gestione dell’acqua, in un decreto legge denominato “ambiente”(!), laddove il referendum del 2011 ha sancito il principio che l’acqua non è una merce e su di essa non si fanno profitti.
Un tema centrale emerso durante la discussione è stato l’agricoltura 4.0. E’ stato citato per esempio, l’uso dei droni e di satelliti, che dovrebbero servire a ridurre l’irrorazione di prodotti fitosanitari: la tecnologia dirà al contadino quale pianta o quale porzione di terreno necessita di apporti. L’uso della tecnologia e la digitalizzazione dell’agricoltura diventano nuovi campi di battaglia, sui quali occorre aprire un ragionamento profondo che riguarda il consumo energetico, il rapporto diretto con la terra, la delega alla macchina e all’automazione come soluzione per tutto. Secondo i promotori dell’agricoltura 4.0 il suo scopo sarebbe produrre di più in meno spazio, ma sappiamo bene che produrre di più non deriva da un bisogno reale considerato che un terzo di ciò che viene prodotto nel mondo va sprecato, addirittura prima di arrivare al consumatore. La Grande Distribuzione Organizzata accetta soltanto prodotti “perfetti” imponendo prezzi insostenibili, così come l’UE che impone regole non favorevoli nei confronti dei produttori. Si arriva infatti al paradosso in cui conviene agli agricoltori buttare i loro prodotti piuttosto che venderli, per non far scendere troppo il prezzo. Abbiamo anche nominato le proteste in Sardegna, quando gli allevatori hanno protestato per il prezzo del latte versando il latte per strada o in Sicilia non raccogliendo le olive. Occorre dunque aprire anche un discorso sul lavoro, su quanto non venga riconosciuto e non gli sia dato valore, ma anche sul consumo, rispetto ai prodotti che siamo costretti a comprare, più economici ma meno sani e meno ecologici.
Il tema che ritorna è la costante che il cortocircuito estrattivista pone al centro: produciamo più di quel che ci serve, per chi e per cosa?
Nell’incontro è emersa nuovamente la necessità di intrecciare i punti comuni di tutti i comitati, dei collettivi e delle altre realtà, per opporsi a un disegno calato dall’alto, a opere progettate in sordina, senza mediazione con le persone che abitano quei territori e che si vedono costrette ad accettare trasformazioni dei luoghi in cui vivono descritte come ‘necessarie per la transizione ecologica’, ma che possiamo dimostrare che di ecologico non hanno niente. Quello che viene imposto non rispecchia le esigenze degli esseri umani e non umani. Anzi spesso le nuove tecnologie ‘ecologiche’ sottraggono solo energie economiche per i servizi essenziali: la sanità, le scuole, i trasporti, ecc. L’Unione Europea si distingue per essere un’istituzione ipocrita, le sue politiche ambientali sono evidente greenwashing poiché in parallelo promuove la produzione di armi e la guerra.
L’altra necessità dell’incontro si è tradotta in una dichiarazione di intenti comuni tra chi si attiva dal basso sul territorio per difenderlo e chi, formato in accademia, diventerà il detentore di un sapere tecnico utilizzato molto spesso a scopi politici per imporre progetti di “riqualificazione” e trasformazione dei territori. Trovare dei punti di contatto sin da ora diventa fondamentale, in una commistione tra sapere tecnico-scientifico prodotto nelle sedi istituzionali e il sapere prodotto dal basso, molto spesso denigrato a considerato di serie B. A questo si aggiunge una critica all’università da parte di studenti e studentesse che dovrebbero avere accesso a un sapere diretto, costruito sul terreno oggetto del loro studio, ma molto spesso tale accesso è precluso.
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