
Riflessioni post Festival Alta Felicità su riarmo, energia e nucleare: l’urgenza di bloccare la guerra ai territori a partire dai territori
Un filo conduttore scottante è quello che possiamo tracciare tra questione energetica, nucleare e riarmo. Condividiamo di seguito alcuni contributi su questi temi, prodotto delle riflessioni di Confluenza e di alcuni momenti organizzati in occasione del Festival Alta Felicità in Val Susa.
Il dibattito dal titolo “La transizione ecologica va in guerra: il ritorno del falso mito nucleare” con l’intervento di Angelo Tartaglia, fisico nucleare del Politecnico di Torino e Roberto Aprile, compagno dei movimenti antinucleari, ha toccato il cuore della questione.
Riproponiamo di seguito l’audio integrale del dibattito
Ringraziamo poi Paolo Cacciari che, impossibilitato a partecipare, ha inviato alcune note sull’intreccio tra guerra ed energia che pubblichiamo qui di seguito:
L’intreccio tra guerra ed energia è molto stretto. Per diversi motivi.
I militari hanno bisogno di molta energia, non solo per costruire armi sempre più sofisticate ad alta potenzialità distruttiva e per trasportare velocemente mezzi e truppe, ma anche per le reti di controllo, sorveglianza e di puntamento a distanza (“armi autonome”, le chiamano) che abbisognano di colossali apparati satellitari, informatici e l’uso di enormi data base.
Tutte attività fameliche di energia.
Davvero interessante un passaggio della appassionante ricostruzione che fa Pietro Greco della corsa alla costruzione della bomba atomica tra Stati Uniti e Germania (Pietro Greco in L’Atomica e le responsabilità della scienza, edizioni L’Asino d’oro, 2025). Secondo il grande giornalista scientifico l’attenzione dei fisici nucleari nazisti era più orientata a capire come controllare la reazione atomica per produrre energia finale utile, piuttosto che a farne una bomba.
Sappiamo da alcune stime (peraltro tutt’altro che realistiche) che le attività militari assieme alla filiera dell’industria bellica, “in tempo di pace”, consumano il 10% dell’energia mondiale e, secondo altre stime, emettono tra il 5 e il 6% delle emissioni globali di gas climalteranti. Se fossero uno stato si situerebbero al quarto posto, dopo US, Cina ed India. (Federica Frazzetta e Paola Imperatore, Clima di guerra, in Sbilanciamoci! 2025). Da notare che i dati sono segretati. Non vi è obbligo di comunicazione da parte delle forze armate, ma solo con l’Accordo di Parigi del 2015 gli stati sono invitati a fornire una rendicontazione volontaria.
Ma è davvero possibile scorporare i dati sul consumo di energia tra i settori militari e civili?
Per il nucleare l’intreccio è – per definizione – inestricabile. Sia per come funziona la filiera produttiva, sia per i requisiti di gestione. Una centrale nucleare è di fatto un sito militare.
Ma l’ignobile e perverso “dual use” è orami una realtà in tutti i settori tecnologici e della ricerca scientifica.
Sappiamo che le industrie belliche e le attività militari sul campo hanno bisogno dei servigi delle grandi aziende tecnologiche globali (tra cui IBM, Microsoft, Google, Amazon, Palantir e Hewlett Packard). Sappiamo da quello che sta accadendo a Gaza (vedi i rapporti di Francesca Albanese) come la guerra sia il campo di sperimentazione delle innovazioni tecnologiche in ogni settore.
Non è del resto una novità nella storia dell’umanità. I militari hanno bisogno di usare i ritrovati della scienza, così come la scienza e la tecnica hanno bisogno delle commesse militari per potersi sperimentare e sviluppare. Una questione questa di enorme importanza su cui gli scienziati, i centri di ricerca, le università dovrebbero riflettere, a proposito della neutralità della scienza e di altri miti bugiardi che allontano l’agire etico e delle responsabilità individuali (vedi l’Appello degli scienziati contro il riarmo, firmato da Carlo Rovelli e non molti altri).
Le grandi innovazioni nella chimica (esplosivi che diventano fertilizzanti e viceversa), nell’ingegneria (aviazione), nelle telecomunicazioni, nella biologia, della geoingegneria, nella stessa informatica sono quasi sempre il frutto della volontà di conquista degli stati esercitata attraverso gli eserciti.
La questione – mi sia permesso di dirlo – non è tanto o quanto si spende per le armi (come se il 2,1% sia più sostenibile del 5% del Pil), ma tutto ciò che permette agli industriali di costruire e ai militari di usare le armi. Quando si dice siamo in una “economia di guerra” non si dice solo che la spesa per gli eserciti è eccessiva, ma che il sistema sociopolitico ruota attorno alla guerra, dipende dai rapporti di forza armati (deterrenza) e dalla capacità di usarli in qualsiasi omento e in qualsiasi luogo (“prontezza”, la chiama Ursula von der Leyen). Letta e Draghi nei loro rapporti/suggerimenti alla UE affermano che la competizione economica (a partire dalla superiorità tecnologica) la si vince o la si perde nella misura in cui gli appartati industriali militari saranno superiori a quelli dei competitori. (Mi pare che Israele lo stia dimostrando alla grande con l’IDF).
La spirale tra militarizzazione del pianeta, accaparramento delle materie prime e controllo delle rotte commerciali moltiplica i conflitti armati (mai così tanti dalla fine della Seconda guerra mondiale, 57) e aumenta spaventosamente i fabbisogni energetici.
Come fare, allora, a fermare la guerra?
Potremmo provare a staccargli la spina!
Non è uno scherzo. Attenzione, anche loro sanno di avere qualche problema di sostenibilità nell’uso dell’energia. Sembra che gli Stati maggiori del generale Crosetto stiano lavorando ad una “Strategia Energetica della Difesa”, il cui obiettivo – udite-udite – è: “raggiungere più elevati livelli di efficienza e indipendenza energetica, al fine di perseguire concreti obiettivi di […] tutela ambientale […] e di sviluppare una nuova mentalità energy oriented nell’ambito dei settori della logistica, delle operazioni e delle infrastrutture della Difesa”. (https://temi.camera.it/leg19DIL/temi/19_la-transizione-ecologica-della-difesa.html). Ci sono anche progetti per “Caserme Verdi a basso impatto ambientale”, “Basi (navali) Blu” e “Aeroporti Azzurri”.
L’ex ministro alla fu Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ora ad della Leonardo saprà certamente inventarsi un carro armato con vernice green biologica, perfettamente riciclabile e dotato di motori elettrici. C’è un magistrale discorso di papa Bergoglio, che andrebbe sempre ricordato: “Gli aerei inquinano l’atmosfera ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi per compensare parte del danno arrecato. Le società del gioco d’azzardo finanziano compagnie per i giocatori patologici che creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!” (Vaticano 4 febbraio 2017). La Leonardo ci ha provato a donare 1,5 milioni di euro all’ospedale di Roma Bambin Gesù, ma non li hanno voluti.
Se nell’economia di guerra tutto ruota inestricabilmente attorno all’apparato militare industriale e se l’intero sistema industriale dipende dal controllo dell’energia, allora rivendicare un controllo democratico sull’uso delle fonti energetiche può essere una giusta e buona strategia per i movimenti pacifisti ed ecologisti (ecopacifisti).
In fondo l’energia è una sola, è il flusso che alimenta ogni processo naturale. È il primo bene comune. È la forza preesistente della vita, sia quella miracolosamente sprigionata direttamente dal sole, sia quella racchiusa nei giacimenti fossili, sia quella meravigliosamente rigenerata in continuazione dal processo biochimico della fotosintesi clorofilliana, sia quella rara e misteriosa contenuta nell’atomo di uranio. Ha un valore primario in sé, il cui uso dovrebbe essere regolato da un semplice principio: i benefici che se ne possono trarre, senza danneggiare il bene, devono essere messi a disposizione, condivisi e goduti da tutti gli esseri viventi. (Non solo gli esseri umani).
Poiché il flusso dell’energia è il principale regolatore e indicatore (il “medium”) del metabolismo uomo/natura, nella storia dell’umanità intervengono delle regolazioni sociali che trasformano un dono gratuito della natura in uno di più potenti strumenti di controllo e di dominio politico. Accade così che nei regimi del capitale (nell’“ecologia del capitale”) le fonti di energia primaria vengano privatizzate attraverso la costruzione di apparati tecnologici e regimi giuridici proprietari di cattura, estrazione, trasformazione, distribuzione, erogazione, consumo. Si formano così enormi asimmetrie di potere nel disporre del bene comune, concentrazioni ed esclusioni, sprechi vergognosi e disuguaglianze intollerabili (povertà energetica, magari tra quelle popolazioni dal cui suolo si estraggono idrocarburi; 800 mln di africani non hanno accesso all’elettricità). Queste strutture e questi apparati sono pensati allo scopo di realizzare profitti e accumulare capitali, trasformano l’energia (un dono gratuito) in una merce e oscurano l’origine naturale dell’energia.
Per avere la pace, per pacificare il mondo dovremmo quindi mettere in discussione il sistema energetico nel suo complesso. Non solo il tipo di tecnologie usate per trasformare l’energia primaria in energia utilizzabile, non solo gli impatti ambientali sulle diverse matrici naturali lungo tutta la filiera, non solo l’equa ridistribuzione delle utilità, ma anche quali sono i fabbisogni autentici e davvero necessari al benessere umano (e non solo) che devono essere garantiti.
Insomma, dovremmo riuscire a mettere in discussione non solo quale energia produrre, ma chi la produce e per farne cosa. La questione fondamentale è il tipo di controllo sociale delle fonti e dei sistemi di distribuzione dell’energia.
Non siamo (mi pongo all’interno dei movimenti che sognano una società della decrescita) mossi da furore ideologico anticapitalistico o da nichilismo tecnologico. A me piace il solare perché è una fonte ben distribuita e si può usare senza appropriarsene. Amo le Comunità energetiche rinnovabili perché penso che siano una forma di autogestione consapevole e replicabile. Ma so anche quanto facile sia la loro sussunzione nel mercato tramite i collegamenti alla rete e la bancarizzazione dei ricavi. Mi rivolgo quindi a quanti in ottima buona fede sostengono la “transizione energetica”, le energie pulite, la neutralità climatica, l’elettrificazione, le green tech… per metterli in guardia sul fatto che questi sacrosanti obiettivi rimarranno una chimera (come lo è tutto il Green Deal europeo) se a controllare produzione e distribuzione continueranno ad essere le forze di mercato, i gruppi industriali interessati a ricavare più profitti a prezzi vantaggiosi.
Mi auguro e spero che non un raggio di sole, non un soffio di vento, non una goccia d’acqua possa mai finire in mani armate.
Per concludere condividiamo alcune riflessioni di Confluenza a seguito dell’Assemblea “Guerra alla Guerra” che si è tenuta a Venaus domenica 27 luglio
Un tema, quello del riarmo e della guerra, che ovviamente è emerso a vari livelli anche all’interno dell’esperienza della rete territoriale Confluenza, a partire dalla transizione energetica di cui, tra le altre cose, si sta occupando. I progetti di grandi impianti eolici e agri-fotovoltaici hanno messo in luce la perseveranza nel seguire un modello basato sulla necessità energetica infinita che, al di là dell’incoerenza tra il concetto stesso di transizione ecologica e la strada del mix energetico (comprendente gas e nucleare) intrapresa dal governo, pone una domanda essenziale: a cosa e a chi servirebbe tutta questa energia? Sicuramente il processo di digitalizzazione in corso con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e il suo dual use in campo civile e militare e la pianificazione in atto della macchina bellica sono fattori energivori che rispondono al quesito.
Ci sono ovviamente realtà territoriali dove l’argomento del riarmo ha un’evidenza più immediata per la natura stessa delle loro lotte contro la presenza di basi militari e di depositi di scorie nucleari. Mentre le prime causano preoccupazione in merito a un aumento di esercitazioni, emissioni di inquinanti e ampliamenti di strutture militari a discapito di zone naturali, ai quali viene affidato lo status di opere strategiche nazionali con le conseguenze che ne derivano sulle possibili forme di opposizione, in merito ai depositi è la sempre viva interconnessione tra nucleare civile e militare il punto di contatto col tema della guerra.
Tra i vari comitati sparsi nel territorio nazionale sono però emersi anche altri ragionamenti degni di nota, quali quello della paranoia militarista che sta pervadendo l’Europa, avvertita come cornice più ampia che si declina in un clima repressivo a livello nazionale. Si percepisce in maniera preoccupante la volontà di controllare, intimidire chi dissente: il decreto sicurezza con le sue norme “anti Ghandi”, la militarizzazione del territorio e le sanzioni spropositate comminate a chi protesta, rischiano tra le altre cose di innescare un clima di paura, abitudine e legittimazione.
Ma le connessioni tra lotte territoriali e riarmo si palesano anche su un piano strettamente economico. I comuni italiani negli ultimi decenni sono stati fortemente penalizzati da ingenti tagli di finanziamenti dovuti alle politiche di austerità europee; il riarmo avrà certamente ulteriori ripercussioni con futuri tagli alla spesa. Tutto questo avrà come effetto non solo la qualità dei servizi al cittadino ma anche una situazione di maggiore debolezza dei comuni stessi che si verranno a trovare in una situazione di maggiore ricattabilità. Le loro esigenze economiche porteranno pertanto alla svendita del territorio e all’accettazione di progetti che poco o nulla hanno a che fare con le reali esigenze di chi il territorio lo vive ma portano con sé forme di contributi o compensazioni a fronte di profitto delle aziende proponenti: un processo di sfruttamento del territorio a discapito della cultura della prevenzione di cui il nostro paese avrebbe urgentemente necessità.
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