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Il Realismo capitalista e il nostro hardcore continuum

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Realismo Capitalista è stato pubblicato per Zero Books nel 2009. E’ un pamphlet in cui l’autore, Mark Fisher, interloquisce con la sinistra New Labour e con l’attivismo sociale anglosassone di allora, e allo stesso tempo offre una sintesi di alcune ipotesi e tesi a quel pubblico che dagli anni 90 ad oggi si era aggregato, tra i bordi dell’accademia e le riviste musicali, seminari e concerti, intorno ai protagonisti della CCRU, Cybernetic Culture Research Unit, di cui Valerio Mattioli nella prefazione alla recente edizione italiana per Nero Editions fa una veloce e puntuale presentazione.

Il libro dopo aver affrontato ed esaminato gli effetti dell’egemonia neoliberista si conclude con dei suggerimenti alla sinistra tutto sommato banali: investimenti nella spesa pubblica e nel welfare state, regolamentazione della precarietà, attenzione e intervento ecologista nei mutamenti climatici. La tipica ricetta riformista delle sinistre alternative europee d’oggi, scopertesi dopo la sconfitta greca di Syriza, ben poco alternative e con un programma riformista irrealizzabile nell’attuale assetto UE.

Perché allora abbiamo letto una volta, due volte, tre volte in un mese Realismo Capitalista di Mark Fisher? A dieci anni dalla sua prima pubblicazione sono accadute molte cose sia in Inghilterra che nel mondo: i moti studenteschi inglesi del 2010, lo scoppio delle insurrezioni del 2011, la seconda fase di guerra al terrore successiva all’eliminazione di Bin Laden, il Daesh, la Brexit, black live matter, Trump, e via di seguito. Eppure con Realismo Capitalista si entra insieme a Fisher in un mondo non del tutto dissimile a quello dei nostri giorni. Sembra di essere l’antieroe di un romanzo di Philip Dick e Fisher il nostro aiutante. Capitolo dopo capitolo ci conduce nel mistero di un tempo inabissato nell’eterno presente in cui tutto ciò che c’è di nuovo è un raccapricciante revival, o una recombinazione kitch e inebetente di musica, comportamenti e oggetti del passato. Entrando nei fast food si viene serviti da cameriere costrette a personalizzare la divisa dell’impresa multinazionale con almeno quindici spillette o gadjet. Oppure si va a lezione in una scuola superiore di Londra dove gli studenti ascoltano la lezione sgranocchiando continuamente snack e portando alle orecchie degli auricolari da cui non esce alcun suono. In questa società totalitaria i campi di concentramento libici coesistono tranquillamente con l’inaugurazione di un nuovo Starbucks.

Convivono la fede nella cultura ufficiale per cui il sistema è premuroso e socialmente responsabile con la diffusa certezza che lo stesso sistema è in realtà corrotto e spietato. D’altronde “Il sistema” è un “Grande altro” sconosciuto il cui ipotetico compiacimento regola le relazioni tra uomini nelle così dette “publics relations”, nelle prestazioni e performatività smart. Fisher ci accompagna in questa serena catastrofe del presente in cui a volte appaiono delle interferenze nella forma di spettralità virtuali: sono le presenza dei futuri possibili e perduti, sono le manifestazioni di futuro trascorsi inesperiti, che gridando “the time is out of joint” (Hamlet) si presentano grazie al lavoro di musicisti hauntalgici, uno tra tutti il producer londinese Burial. [Per la nozione di hauntology fare riferimento a Mark Fisher, Ghosts of my life, Zero Book, dove l’autore rielabora lo “scherzo” derridiano di Spettri di Marx insistendo sulla critica musicale ed estetica, campo in cui Fisher ha dato a nostro avviso un contributo notevole]

Realismo Capitalista, non è un romanzo di Philp Dick, noi non siamo un suo antieroe e Mark Fisher non è un nostro aiutante. Al contrario è una diagnosi concreta della condizione di vita nel neoliberismo degli anni 2000, slittamento e radicalizzazione di quella “condizione post-moderna” contro cui i movimenti sociali degli 80 e 90 e alcune controculture, una tra tutte l’esperienza cyberpunk, hanno tentato l’assalto. Fisher annotava l’apoteosi del “there is no alternative” tramite l’analisi originale delle forme dell’assoggettamento, o meglio della produzione e formazione di soggettività del\nel capitalismo contemporaneo rivolgendosi alla critica della cultura pop (grande cinema di massa e serie tv, musica rap e jungle), delle sofferenze mentali (una sua nobile e importante battaglia è la riscoperta politica dei nessi tra sistema sociale e dolore psichico), dell’organizzazione del lavoro e della forma impresa.

E’ affascinante constatare come per strade così differenti dalle nostre, dove noi ci muoviamo per scontrarci nel mondo a partire dalle forme latenti ed esplicite di antagonismo e soggetività antagonista, dall’analisi della composizione di classe, e dallo sviluppo della tendenza, ci si incontri con Fisher nella concezione di “realismo capitalista”, l’esito di una lettura del presente sostenuta soprattutto dalla schizoanalisi e dal Lacan di Zizek (presa in prestito del filosofo sloveno che abbiamo sempre guardato consospetto), dalla critica culturale e da una certa semiotica guerrigliera e radicale degli anni 90.

Realismo capitalista è una concezione, uno strumento che può entrare nella nostra cassetta degli attrezzi, ma a patto che lo si voglia assumere come una polarità, un polo nemico nello spazio della crisi attuale, attraversato dalle faglie e le fratture aperte dall’incalzare di una storia che vuole rimettersi in moto. Se non si misura “il realismo capitalista” con la realista e sovversiva constatazione del non-essere “the last man” dopo le insurrezioni del 2011 e l’esperienza rivoluzionaria del Rojava, c’è il rischio che questo panphlet funzioni più come la descrizione originale e brillante di un presente immodificabile che uno strumento utile alla prassi.

Nel libro di Fisher, è vero, il soggetto non c’è, c’è l’uomo assoggettato all’egemonia neoliberale, ma questo stesso uomo non sta dando oggi anche una chance storica e politica alle prime scintille della violenza di classe? Il “there is no alternative” non è oggi in crisi insieme al modello economico neoliberista? Non si sta facendo nuovamente avanti negli immaginari politici la distruzione del capitalismo accompagnata dall’imperitura ipotesi di catastrofe generale?

“E’ più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, il pamphlet inizia con questa citazione, eppure crediamo che pochi anni dopo la Londra di Fisher abbia tremato quando a tempo di bass music è stata sconvolta dagli UK Riots, e che in quelle giornate di rivolta e appropriazione gli spettri dei futuro possibili si siano incarnati tra il proletariato giovanile e gli operai transnazionali in scontro, per poi il giorno dopo tornarsene nei beat di Burial a provocare quell’hauntalgia (la struggente nostalgia dei futuro possibili e perduti) che si è vista muovere sia passioni tristi che passione gioiose e collettive. La rottura del totalitarismo del realismo capitalista allora non è questione di nuova spesa pubblica o solo di nuovo welfare, come non è nell’impermanente “manifestazione dell’Evento”, “the time is out of joint”, ma è nella sua possibilità di organizzazione e durata, nel suo hardcore continuum.

 

 

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