L’Uruguay di Rosencof. Il romanzo dei tupamaros
Il quartiere era una festa, di Mauricio Rosencof (a cura di Martha L. Canfield e David Iori, traduzione di David Iori) è un romanzo simbolico e corale, che mette in scena dignità e tragedia, sofferenza e riscatto in un «barrio» in costruzione degli anni ’40. La storia fluisce come un racconto orale, disegna l’epopea degli ultimi che prende forma e coscienza, e trasfigura il gesto nell’interesse comune. Una battaglia singolare, ispirata a un episodio realmente accaduto qualche tempo prima. Così ha spiegato al “manifesto” Mauricio Rosencof, in Italia per un giro di conferenze: «Dopo l’inaugurazione dello Stadio del Centenario, avvenuta nel 1930, i tubercolosi del sanatorio, che protestavano per la carenza del vitto e per avere un medicinale considerato portentoso, marciarono fino allo stadio e si accamparono sulla tribuna ufficiale, decisi a impedire l’inizio del campionato sudamericano. Il ministro dell’interno mandò la polizia. I tubercolosi eressero barricate con le cassette di verdura, e obbligarono i militari a retrocedere… a suon di sputi. Fu una guerra batteriologica», chiosa Rosencof, istrionico e dissacrante, nella realtà come in letteratura.
Scrittore, poeta, drammaturgo, giornalista ed ex guerrigliero, Rosencof ha raccontato la sua esperienza da varie angolature. Una vita spesa senza riserve nei grandi orizzonti del ’900. Nato nel ’33 da una famiglia di immigrati ebreo-polacchi, scampati al nazismo, milita nel Movimento di liberazione nazionale tupamaros, una formazione politica e di guerriglia, fondata da Raul Sendic nel 1965. Viene arrestato nel ’72, un anno prima del golpe che darà il potere ai militari fino all’85. Con lui ci sono altri dirigenti tupamaros, Raúl Sendic, Eleuterio Fernández Huidobro (attuale ministro della difesa), Adolfo Wasem, Julio Marenales, Henry Engler, Jorge Manera, Jorge Zabalza e José «Pepe» Mujica (oggi presidente della Repubblica).
Non tutti sopravvivranno ai 13 anni di carcere duro, che lo scrittore racconta nel volume Memorie dal calabozo (edito da Iacobelli, e recensito nella Diploteca di novembre 2009). Ricorda oggi Rosencof: «Nella realtà del calabozo, in cui dovevamo bere le urine e mangiare mosche per sopravvivere, senza contatto con altri esseri umani, costruivamo un mondo alternativo, aggrappandoci alla fantasia per sopravvivere. Un mondo fantastico in cui la mente poteva però restare impigliata e non tornare più. Io, che scrivevo già prima di andare in carcere, catturavo i fantasmi e li mettevo in forma poetica o narrativa. Scrivevo prima nella testa e poi…»
Racconta: «Una volta irrompono le guardie nella cella e un sergente mi chiede: è lei lo scrittore? Dico sì. Quello allora mi porta una biro, della carta e un sostegno e mi ordina di scrivergli una lettera alla fidanzata. Lo faccio, e la cosa si ripete. Allora, sono riuscito a fare una cosa che non ho mai fatto nella vita: sedurre nella seconda lettera la fidanzata. In cambio, il sergente manda qualche sigaretta, che fumo come fosse un sigaro toscano. Ma poi arrivano altre guardie: non sono sergente, ma ho una fidanzata, una figlia…Chiedo: come si chiama la ragazza? E mi specializzo in acrostici, devono essercene diversi tomi sparsi in tutto il paese. Senta – dicevano le guardie – mi fa uno di quegli acrilici? Ogni “acrilico” fruttava un po’ di pane, fiammiferi…». Ricorda ancora l’ex tupamaro: «Capita che una guardia più disponibile mi lasci tenere l’interno della bic: allora in 72 ore annoto su carta da sigarette e con scrittura minuscola un paio di opere teatrali, un romanzo di quartiere, 32 sonetti… Poi ne ricavo un rotolino di nylon e lo infilo nell’orlo di una maglietta per mandarlo fuori a mia madre con la biancheria, come potevo fare ogni mese e mezzo. E così nasce quella che si potrebbe definire: “letteratura della maglietta”…».
Per comunicare fra loro, i prigionieri inventano una sorta di alfabeto morse, battendo con le nocche sul muro. «Giocavamo persino a scacchi – dice ora Rosencof – con un’immaginaria scacchiera disegnata sul muro, riuscendo anche a litigare a suon di nocche. Una volta, dopo una discussione complicata con l’attuale ministro della difesa, gli trasmetto questa frase: a volte mi sembra che parlare con te è come parlare col muro…Un uomo non vive di solo pane, ma anche… del riso».
Nella cella sotterranea chiamata calabozo nasce così il volume le Leggende del nonno di tutte le cose (edito da Nova Delphi, e segnalato nella Diploteca di novembre 2011). Spiega l’ex tupamaro: «Quando sono andato in carcere, mia figlia aveva 5 anni, ogni tanto potevano portarmela in visita. Ci accorgevamo che arrivavano i bambini perché li sentivamo urlare quando li spogliavano per perquisirli. La figlia del Ñato – uno dei compagni, soprannominato così per via del naso schiacciato – aveva un anno in meno della mia ed era nata in una caserma perché anche la madre era stata presa. Verso i tre anni, la bambina cominciò ad andare dal padre. Un giorno, però, il compagno mi chiama col nostro telefono a nocche, e mi dice: mia figlia e io soffriamo molto in queste visite, chiederò che siano annullate. Allora, le nostre figlie erano già in mano agli psicologi, a cui raccontavano che i loro papà erano senza mani perché eravamo ammanettati alle gambe del tavolo. Non vorrai – gli ho detto – che pensino anche di non avere un padre? Piuttosto, raccontale una storia, come fa un padre, pensaci. Dopo un po’, lui bussa: non conosco storie, non so raccontarle, dice. Io rispondo: ogni volta che arriva tua figlia, te ne passo una attraverso il muro. Le leggende del nonno, prima di essere state scritte su carta di sigarette, sono state scritte a colpi di nocche, ho messo in quel muro tutta la mia anima. Il Ñato oggi è ministro della difesa».
«La donna, cazzo, c’era già prima», dice il protagonista del romanzo Il quartiere era una festa. «Le donne … sono tutto – dice ora Rosencof. Le compagne hanno avuto una straordinaria capacità di resistenza alle torture, agli interrogatori. Il mio romanzo, Sala 8, che la casa editrice Nova Delphi pubblicherà nel 2012, è ambientato in un ospedale militare, dove i prigionieri venivano rappezzati come le gomme bucate di una macchina, prima di essere nuovamente torturati. La sala 8 era divisa da teloni bianchi, da una parte le compagne, dall’altra gli uomini: da una parte scomparivano bambini, dall’altra morivano compagni. Nel romanzo parlano sia i vivi che i morti».
Negli scritti di Rosencof, c’è un tema che ritorna, riassunto dallo scrittore Mario Benedetti nella parola “desexilio”, lo spaesamento del ritorno dopo un’assenza forzata. «Quando siamo usciti – racconta ancora l’ex tupamaro –, per stare tutti insieme, noi dirigenti abbiamo accettato l’ospitalità degli amici francescani.
E così ho potuto gustare di nuovo… i piaceri della carne, nel senso di quella cucinata da un frate del convento. In verità, è stato un periodo molto duro. Dovevamo rimettere insieme i pezzi del puzzle, ricomporre la nazionalità di un nuovo movimento, perché quelli che tornavano dall’esilio, si portavano dietro la Svezia, o la Spagna, o Cuba, i modelli di altri paesi. E quelli che uscivano dal carcere, dov’erano separati da piani, sezioni, divisioni, si portavano dietro la posizione di quelli del primo piano, del secondo piano, della tale sezione… Anche noi che venivamo dal calabozo avevamo il nostro punto di vista, che si basava sul pensiero del fondatore del movimento tupamaro, Raul Sendic: il socialismo uruguayano sarà uruguagio o non sarà».
Dalla cella al governo… perché – dice Rosencof – «la realtà a volte supera la fantasia, e dimostra che il cammino della lotta è per sempre».
di Geraldina Colotti
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