Nicoletta Dosio: «Saremo sempre qui, il Tav non passerà»
Di Massimo Franchi, da il manifesto
Nicoletta Dosio, la sua storia e quella del movimento No Tav è ispirazione per tantissime persone che si considerano di sinistra. Lei a questa parola oggi quale significato dà?
Una parola che uso sempre meno volentieri perché la ritengo vittima del male transgenico dell’opportunismo, metafora di rovinose ipocrisie che ne hanno annullato il significato originario: quello dell’opposizione al sistema, che entrava nel palazzo del potere per portare le voci degli ultimi e scardinare le blindature. Io continuo ad essere affezionata a quella sua antica valenza che ben rappresentava la visione del mondo dei miei vecchi, in parte comunisti e in parte socialisti e comunque rivoluzionari. Ormai dire sinistra significa dire poco, a volte addirittura diventa un equivoco; io continuo a dire lotta, rivoluzione nel senso di cambiamento radicale della società e del rapporto con la natura e con il mondo. Purtroppo la cosiddetta sinistra ha smarrito quello che poteva significare nel tempo e l’abbiamo visto sulla nostra pelle, nel momento in cui in Parlamento e al governo è entrato chi si diceva di sinistra, ma ha cominciato a fare politiche di destra. Un esempio? Da destra a sinistra c’ è un voto unanime per le politiche di guerra, le privatizzazioni, per le le grandi male opere di cui il Tav è elemento emblematico. Sono politiche guerrafondaie infarcite di slogan che dicono “libertà” e “democrazia” per praticare l’opposto. Ma non sono le parole che contano, contano i fatti. Io quei fatti li vedo in una lotta che riparte dal basso, senza deleghe, senza mediazioni né volontà di compromessi. La cattiva politica crea disaffezione alla politica, alla partecipazione popolare. E’ sulla sfiducia di un popolo tradito e disorientato che avanzano qualunquismo e fascismo.
Tu hai sempre vissuto in Val di Susa. Cosa connota questa valle e cosa l’ha portata a una lotta così lunga – siamo a 32 anni – senza mai scendere a compromessi?
Sono nata nella parte bassa della valle, quasi nella cintura torinese, ad Alpignano, e la mia famiglia è “meticcia”: papà piemontese e mamma emiliana, di Reggio Emilia, emigrata a 16 anni in Piemonte per trovare lavoro alla fabbrica Philips delle lampadine. Era la maggiore di cinque fratelli, una famiglia poverissima e perseguitata in quanto mio nonno era un comunista che si rifiutò sempre di prendere la tessera del Fascio. Era un povero contadino e lavorava quando qualcuno gli dava lavoro, precariamente e sempre a rischio di essere arrestato (in occasione di ricorrenze del regime scattavano immancabilmente anche per lui gli arresti preventivi). Quindi provengo da una lunga storia di resistenza. Mio padre era invece di famiglia valsusina, operaia, di tradizioni socialiste e libertarie. Questa è l’esperienza, la ricchezza umana e culturale, l’eredità preziosa che mi ha sostenuta ed orientata sempre, soprattutto nei momenti cruciali della vita. Ho poi studiato e iniziato a insegnare. Il primo posto di ruolo è stato il liceo classico di Susa, dove ho trovato come allievi, accanto ai figli della borghesia segusina, i figli dei ferrovieri di Bussoleno e della Valle . Erano i primi anni ‘70, un crogiolo di esperienze e di storie, tante storie. Anche la scuola partecipava di quell’ansia di cambiamento, nell’esigenza di una cultura che fosse davvero di tutti e per tutti. Volevamo una scuola “pubblica, democratica e formativa”. Per “ la riforma della scuola” abbiamo fatto negli anni un mucchio di scioperi e tutte le volte ci accorgevamo che era una controriforma sempre più totale. Una frana iniziata dai primi anni ‘80, in cui, anche per i cedimenti della cosiddetta sinistra, riprese il sopravvento il sistema, si chiusero i sogni e per qualcuno si aprirono le prigioni. La scuola ha rappresentato la parte più importante della mia vita, ho amato i miei allievi, da loro ho imparato tanto e ho cercato di dare al meglio delle mie possibilità. Con molti di loro continua l’amicizia. Uno dei miei allievi è pure il mio avvocato, Emanuele D’Amico. Sono venuta poi ad abitare stabilmente a Bussoleno nel ’79 , dopo cinque anni da pendolare. Fu proprio il vostro quotidiano, il manifesto, l’occasione che mi mise in contatto con i compagni ai quali ancor oggi sono legata politicamente e umanamente. Viaggiavo in treno e al mattino compravo, all’edicola della stazione di Alpignano, il manifesto (allora ancora in formato “Ordine nuovo”, quindi di dimensioni tali da non passare inosservato). A notarlo fu Gigi, un compagno di Lotta Continua, ferroviere, che prestava servizio sulla tratta Torino-Bardonecchia. Facemmo amicizia, lui mi invitò ad un’assemblea. Così conobbi altri militanti, uno dei quali, Silvano, divenne poi il mio compagno di vita (anche per lui gli albori dell’impegno politico incrociano il manifesto: le storie dei comunisti eretici, della primavera di Praga, di Cuba e dei paesi cosiddetti non allineati riportate dal quotidiano venivano lette e commentate collettivamente, poi incollate sui muri di Bussoleno con una colla casalinga fatta di acqua e farina). Qui in Valle, la lotta è sempre stata una resistenza di popolo, concreta, condivisa dalle famiglie. Resistenza operaia e contadina, antifascista: nella famiglia stessa di Silvano il padre e tutti i figli erano partigiani e la loro casa di montanari era diventato un punto clandestino di incontro tra i giovani combattenti e le famiglie. Fin dai primi anni sessanta In valle iniziarono le lotte operaie contro i licenziamenti e la delocalizzazione del lavoro. A fine anni settanta la ristrutturazione capitalistica allargò all’ambiente le proprie mire di profitto, così il conflitto sociale divenne anche conflitto ambientale. La prima fu l’opposizione alla costruzione dell’autostrada: in una valle che nel punto più largo è di tre chilometri esistevano già due strade statali, due intercomunali e, unica presenza naturale, la Dora Riparia. Proprio lungo la parte centrale della Valle e quasi totalmente sul fiume fu costruita la famosa autostrada Torino-Bardonecchia ora di proprietà Gavio. Ci opponemmo, per ragioni ambientali, economiche e sociali: compagni di Democrazia Proletaria, qualche ambientalista che si sentiva allo stretto nelle pastoie delle grandi associazioni ambientaliste. Furono proprio le grandi associazioni ambientaliste, con le loro strutture fuori-Valle, autodelegandosi al ruolo di “rappresentanti degli interessi diffusi”, a sedersi ai tavoli dei palazzi torinesi per trattare con i proponenti l’opera. Il tema del confronto non fu “se fare l’opera”, ma “come farla”. Per cui abbiamo avuto lo smacco di vedere come risultato la prima devastazione della Valle che ha portato alla morte, per esempio di tutta l’orticoltura e la frutticotura della Bassa Valle. Il traforo autostradale del Frejus è stato inaugurato nell’80. Successivamente fu costruita l’autostrada con i cantieri che, partendo dalle due estremità, occuparono in una decina d’anni tutta la valle. Bussoleno fu l’ultimo punto d’attacco: insieme agli abitanti della zona investita dall’opera avevamo messo in piedi un comitato spontaneo che cercò di bloccare il progetto opponendosi agli espropri dei terreni. La situazione si fece presto invivibile, perché Il paese fu investito dal nuovo traffico pesante, proveniente dai due tronconi già realizzati e messi prontamente in esercizio. Alla fine fummo perdenti, anche se con una mitigazione: la struttura che avrebbe dovuto tagliare in due l’abitato fu realizzata in tunnel dentro la montagna. Magra consolazione e non senza danni: gli scavi tagliarono le falde acquifere che alimentavano la frazione di Santa Petronilla. E ci fu un operaio morto sul lavoro, un minatore, travolto da un mezzo, a causa dei ritmi di lavoro, non rispondenti ad esigenze di sicurezza ma alla fretta di concludere l’opera. A fine anni ‘80 si annunciò un nuovo progetto devastante: il megaelettrodotto a 380 volt, Grand Ile-Moncenisio-Piossasco. L’infrastruttura era destinata a portare in Italia, attraverso la vallata della Maurienne e la Valle di Susa, l’energia prodotta dalla centrale nucleare francese Superphenix. Il nucleare cacciato dall’Italia dal referendum popolare sarebbe così rientrato dalla finestra attraverso i suoi prodotti, perpetuando un modo di produzione inaccettabile. Anche l’impatto ambientale si annunciava disastroso: l’infrastruttura avrebbe dovuto affiancare, a poche decine di metri, l’analogo elettrodotto già esistente, aumentando in modo esponenziale il rischio idrogeologico della zona e i pericoli per la salute, legati ai campi elettromagnetici. Decidemmo di opporci e questa volta non accettammo più alcuna mediazione dei “Rappresentanti di interessi diffusi”, ma favorimmo la nascita dei comitati popolari, Comune per Comune, su entrambi i versanti italiano e francese, nelle zone investite dal progetto . Fu una mossa vincente: niente elettrodotto. Per una volta avevano vinto le ragioni della salute e dell’ambiente. Avevamo appena superato una prova quando se ne presentò un’altra: il progetto Tav. Con lo slogan “Lo vuole l’Europa”, la Valle di Susa si trovò per l’ennesima volta ingabbiata in una prospettiva infrastrutturale devastante: il “Corridoio ferroviario ad Alta Velocità Lisbona-Kiev”. Quei primi anni ‘90, con la nascita dell’ Europa di Maastricht e la caduta del Muro di Berlino, furono cruciali. La fine della “guerra fredda” aveva rimesso in campo la “guerra calda”, questa volta a senso unico. Iraq, Somalia, Libia, Jugoslavia, Afghanistan: territori da destabilizzare e da conquistare in nome del capitale; e l’Italia tra gli aggressori, in prima fila, a fianco della Nato. Fu allora che nel nostro paese partì la corsa alle privatizzazioni. A farne le spese furono anche le Ferrovie dello Stato. Mentre si smantellavano come “rami secchi” tratte ferroviarie valutate socialmente utili ma non economicamente remunerative e venivano chiuse stazioni, officine e poli ferroviari, comparvero sul territorio nazionale i progetti Tav, il treno superveloce, costosissimo, socialmente discriminante, altamente devastante per i territori e lauto affare per i costruttori. In Valle ripartì la resistenza. Il metodo della lotta popolare si era rivelato quello giusto, così, quando si è presentatala la questione dell’alta velocità l’abbiamo nuovamente messo in pratica mobilitando le persone e i territori in modo capillare, senza imporre strategie dall’alto, ma organizzando nella pratica, collettivamente e di momento in momento, la risposta più adeguata. Si unirono così, senza forzature, storie, esperienze e pratiche anche molto diverse tra di loro. Proprio dalla ricchezza del confronto e dall’agire diretto e collettivo è nato il movimento No Tav che ha saputo fare delle diversità non motivo di divisione, ma fonte di arricchimento umano e culturale. Nelle prime adesioni al Movimento le istanze ideali erano molteplici, a volte anche assai diverse. E’ stata proprio la lotta contro l nemico comune a mettere insieme le persone e a farle crescere collettivamente in senso antifascista, sociale, ambientalista. Dalla necessità concreta e quotidiana di opporsi al primi approcci del Tav sono nati i presìdi: non erano un elemento folcloristico né dei centri ricreativi, ma luoghi in cui si stava insieme giorno e notte, per presidiare il territorio ed impedire i primi tentativi di esproprio. Eravamo anche riusciti ad aggregare parte della componente istituzionale locale: alcuni sindaci e interi consigli comunali furono con noi, sul territorio dei loro Comuni, ad impedire le prime prese di possesso istituzionali. Questi furono gli albori di una giornata che dura da decenni e che non ha alcuna intenzione di tramontare. Furono i fatti a portare da subito ad una crescita politica collettiva, una visione diciamo rivoluzionaria di sinistra, nel senso giusto del termine (in cui non si può comprendere il PD, da sempre favorevole all’opera). Poi ci caddero addosso le compatibilità governative, i cosiddetti “dodici punti” del governo Prodi, tra cui il cedimento sul Tav ( come quello del rifinanziamento alle missioni militari e le autorizzazioni alle nuove basi Nato) e la parola “sinistra “ fu degradata a foglia di fico per nascondere le “vergogne”. Fu così che dai presidi scomparvero le bandiere di Rifondazione e dei Verdi e il Movimento prosegui con le proprie forze e con la consapevolezza che, nello stato di cose presente, “non esistono governi amici”.
Gran parte dell’opinione pubblica vi accomuna ai cosiddetti Nimby – Not in my back yard, non nel mio giardino – e sostiene che è facile essere contro. Ma voi invece avete sempre avuto una visione “per”, proponendo un nuovo modello di sviluppo.
Assolutamente sì. Essere No Tav significa essere per un mondo e per una società più giusti e vivibili, quindi essere contro quest’opera devastante, che serve soltanto ai grandi interessi, funzionale ad una visione di Europa che è poi quella della guerra all’uomo oltre che all’ambiente. Il tracciato Tav, di cui la Valle di Susa costituisce un segmento, nacque come corridoio Lisbona-Kiev e non a caso, viste le finalità recentemente esplicitate dall’Ue e dagli organi militari d’informazione: “i corridoi trasportistici progettati per l’alta velocità devono essere linee di penetrazione, oltre che commerciale, anche militare, per la movimentazione di uomini e mezzi da nord a sud e da ovest a est”. Dunque il nostro è anche un No alla guerra, in sintonia con la storia antifascista di questa Valle che nel ‘44 vide i ferrovieri del polo ferroviario di Bussoleno organizzarsi nella omonima formazione partigiana e proclamare un sciopero ad oltranza che bloccò la linea e praticò il sabotaggio sistematico dei trasporti d’armi e truppe nazifasciste. La Valle di Susa non è fuori dal mondo, chiusa in un giardino dalle mura invalicabili. La ferrovia internazionale esiste già, addirittura dalla fine dell’’800 e su di essa passano, oltre al trasporto locale, la Freccia rossa italiana e il Tgv francese. Ed è la linea meglio attrezzata a livello nazionale anche per il trasporto merci, potendo ospitare sui pianali, oltre ai container, anche i TIR con motrici. Eppure la sua capienza è sfruttata solo al 12%. Inoltre Bussoleno, fino a fine anni ‘80, era sede di un importante polo ferroviario a cui facevano capo mille ferrovieri, un deposito locomotive con carro-soccorso di seconda classe e un’officina per la revisione delle motrici. Tutto fu smantellato con la privatizzazione delle ferrovie . Ora i dipendenti della stazione di Bussoleno si contano sulle dita di una mano. Il nostro “No” al Tav è anche un “No” al mercato globale, all’industrializzazione dell’agricoltura, allo sfruttamento dei lavoratori, alla crudeltà degli allevamenti intensivi. Ed un “Sì” ad una diversa qualità di vita e di produzione, che valorizzi le produzioni locali, abbia la consapevolezza del limite e rispetti i diritti dell’uomo e della natura. Dunque non lottiamo solo per noi (sappiamo bene che la buona vita non è reale se non è collettiva) e non lasceremo che siano imposto ad altri i mali che noi rifiutiamo. In questa valle dove passano le merci, i capitali e dove vorrebbero far passare i trasporti di guerra, è però negata libertà di transito alle persone che, venute da inferni di oppressione e di fame, cercano nel ricco occidente pane e dignità. Per questo il movimento No Tav pratica concretamente l’accoglienza e l’aiuto ai migranti in cammino verso la Francia.
Nel libro di WuMing 1 – “Un viaggio che non promettiamo breve” del 2016 – si descriveva benissimo tutto questo. E si raccontava come un nuovo movimento politico, il Movimento cinque Stelle, in qualche modo rischiava di appropriarsi della vostra lotta. Ad anni di distanza qual è la tua opinione?
Diciamo che certamente una buona parte del movimento No Tav fu affascinata dal M5s e lo votò perché prometteva aria nuova, e perché si presentava con il radicalismo di chi non fa sconti e assicura che farà piazza pulita delle vecchie ipocrite promesse. Anche in Valle molti si illusero che il M5s, una volta al governo, avrebbe fermato il Tav, come lo stesso Grillo aveva promesso dai palchi elettorali della Valle. Alla sirena del “vaffa” risposero, in buona fede, anche tanti bravi compagni. Però ricordiamo il motto del Gattopardo: “Tutto cambia perché nulla cambi”. E così fu, alla prova dei fatti. Per quanto mi riguarda, non mi sono mai fatta illusioni, quindi non ho provato delusione quando, vinte le elezioni e saliti al governo con la Lega, i M5s si rimangiarono le promesse sul Tav e su tante altre cose. La delusione in Valle fu cocente, non meno che al tempo del governo Prodi e anche questa volta non si fecero sconti. Il consenso al M5s cadde in picchiata libera anche in termini di voti, crebbero in modo esponenziale la sfiducia nelll politica istituzionale, l’astensionismo, la non-delega e la certezza che, dato lo stato di cose presente, “non esistono governi amici”.
Un’altra critica che vi viene fatta è che la vostro lotta non è mai riuscita a diventare europea, a coinvolgere almeno in modo massiccio, i cugini francesi. E’ una cosa che che ti rimproveri oppure la contesti?
Lo contesto. Fin dai tempi del progetto di mega elettrodotto, che doveva partire dal Superfenix e arrivare poi in Italia abbiamo lottato assieme alle realtà francesi della Maurienne, le stesse che abbiamo ritrovato nell’opposizione al tunnel transfrontaliero del Tav Torino.Lyon. Proprio qualche settimana in Val Maurienne si è tenuto un campeggio contro la devastazione ambientale e sociale legata ai lavori per le discenderie propedeutiche al tunnel, esattamente come da noi. Il Movimento No Tav è stato tra i promotori, insieme alle associazioni ambientalistiche della Maurienne e a Les soulèvements de la terre, del campeggio resistente e delle manifestazioni poi represse a suon di lacrimogeni, bombe assordanti, manganelli e spray urticanti. Per parteciparvi, dalla Valle di Susa si sono organizzati sei pullman che poi sono stati bloccati al traforo del Frejus con un’operazione congiunta delle polizie italiana e francese. Legami duraturi di solidarietà si sono stretti anche con le comunità resistenti della Zad di Notre-Dame-des-Landes, a sostegno della loro mobilitazione contro l’aeroporto che avrebbe espropriato della terra e della vita le comunità contadine ed i loro progetti di proprietà collettiva. In Francia – come in Italia – pesa indubbiamente il sostegno al progetto Tav da parte dei sindacati concertativi e delle forze politiche di una sinistra che, in nome del lavoro comunque, dimentica il diritto alla salute e alla qualità della vita. Certamente corresponsabile è il falso ambientalismo per il quale l’alternativa alle autostrade è il Tav e non il recupero del trasporto ferroviario pubblico a breve e media percorrenza né la lotta alla globalizzazione di produzione e consumi.
Arriviamo al 2012. Forse all’apice della vostra lotta c’è questo questo episodio che fra l’altro non credo neanche sia sia stata la cosa più grossa che hai fatto. Un volantinaggio al casello autostradale che vi e ti costerà la prigione.
Insieme a me sono stati condannati con sentenza definitiva altri undici compagni. Come me è finita in carcere anche Dana, con un aggravamento di pena per aver spiegato al megafono le ragioni della protesta. Quel pomeriggio del 3 marzo 2012 eravamo un folto gruppo al casello autostradale di Avigliana. L’indignazione per quanto era successo nei giorni precedenti ci spingeva ad una risposta concreta, che rompesse anche il muro di silenzio e la disinformazione sparsa a piene mani dai mass media di regime. Due giorni prima, durante lo sgombero del nostro presidio alla Maddalena di Chiomonte, il nostro compagno Luca Abbà, per sfuggire all’inseguimento dei poliziotti, si era arrampicato su un traliccio e, colpito da una forte scarica elettrica, era precipitato a terra. Mentre giaceva inerte, senza soccorsi, ai piedi del traliccio, circondato dalla polizia che ci impedì di avvicinarci, intorno a Luca continuava il lavoro delle ruspe guidate da automi indifferenti. Trasportato in ospedale, le sue condizioni si rivelarono da subito gravissime e per giorni rimase tra la vita e la morte. La reazione della Valle fu pronta e durissima: venne immediatamente occupata l’autostrada del Frejus e il blocco si allargò alle statali. C’eravamo proprio tutti, dagli anziani ai giovanissimi, comprese persone che, pur simpatizzando, non avevano mai partecipato attivamente. Azioni di protesta solidale partirono anche fuori valle. Solo dopo due giorni e con l’impiego di un migliaio di agenti in assetto antisommossa armati di ruspe, idranti e lacrimogeni riuscirono a fiaccare la resistenza popolare e a sgombrare l’autostrada. La mattanza proseguì fino a notte, fin dentro l’abitato di Bussoleno con una vera e propria caccia all’uomo: manganellati uomini e donne inermi; spaccati i vetri delle auto che le “forze dell’ordine” trovavano sul loro percorso; fatta irruzione in un bar dopo averne forzato le porte,ala ricerca di presunti manifestanti. Il giorno dopo leggemmo sui giornali gli sperticati elogi tributati da parte del governo Monti e di tutto l’arco parlamentare alle forze dell’ordine. La nostra risposta fu la protesta al casello autostradale di Avigliana: srotolato uno striscione che inalberava la scritta “Oggi paga Monti”, alzammo le sbarre del casello di una delle autostrade più inutili e costose d’Italia, facendo passare gratis i passeggeri che prendevano di buon grado i volantini e solidarizzavano con le nostre ragioni. La protesta durò non più di venti minuti, ma ci fruttò una condanna complessiva di dodici anni di carcere. Non era una novità: tutta la storia della nostra lotta si svolge sul filo della repressione e dell’applicazione del diritto penale del nemico, metodo che però non è mai riuscito a fermarne le ragioni e le pratiche. Si potrebbe dire che, per governi, questure e tribunali, fin dagli anni novanta questo nostro territorio resistente è diventato un laboratorio. La repressione si è alzata contro di noi nel momento in cui il potere si è reso conto che il nostro non era solo un movimento d’opinione, ma una forza popolare determinata a difendere, nella teoria e nella pratica, il diritto ad un’esistenza degna su una terra non avvelenata e devastata. I primi a farne le spese, a fine anni ‘90, furono tre ragazzi anarchici, Sole, Baleno e Silvano, incarcerati con l’accusa di associazione sovversiva. In seguito all’arrivo della prima trivella, si erano verificati nella zona alcuni misteriosi attentati ad un paio di centraline, fatti che poi al processo si rivelarono opera dei servizi segreti. Si arrivò così all’ assoluzione, di cui potè beneficiare solo Silvano. Sole e Baleno non furono presenti alla sentenza: il carcere li aveva suicidati.
Veniamo al processo che fu anche una rivendicazione della vostra lotta davanti alle istituzioni cosiddette dello Stato. E tu, a quattro anni di distanza, useresti ancora la stessa strategia difensiva?
Certamente. Fu la rivendicazione del diritto a resistere per esistere e, insieme, un modo per far conoscere alle persone dove stavano i poteri devastanti e dove stava la giusta ribellione.Proprio nelle aule di tribunale, da quelle sentenze preconfezionate avemmo la prova che il fascismo non era finito e ci sentimmo eredi di quelle lotte partigiane, operaie, contadine represse ma non vinte, se ancora in noi viveva l’esigenza del riscatto. Che la nostra lotta fosse figlia dell’antica Resistenza, ce l’aveva confermato la presenza al nostro fianco dei vecchi partigiani. Nel 2005 avevano portato a Venaus le loro bandiere; erano con noi alla Libera repubblica della Maddalena nel 2011; furono dalla nostra parte quando l’Anpi nazionale, inquinata dai rottamatori piddini, mise sotto inchiesta le nostre Anpi locali.
Passiamo alla tua scelta. Arriva questa condanna insieme ad altri undici compagni. A 72 anni potresti benissimo chiedere di accedere alle pene alternative ma decidi di rinunciare e di andare in carcere. Che scelta è stata dal punto di vista politico e dal punto di vista personale?
E’ stata una scelta ponderata, comunicata anticipatamente al movimento e rispettata da tutti, anche da chi esprimeva preoccupazione per la mia età e le mie precarie condizioni di salute. L’ho fatto per rabbia e per amore, per far capire alle persone le ragioni della nostra lotta, e perché indisponibile a far la carceriera di me stessa, a chiedere sconti ad un sistema che abolisce di fatto lo stato di diritto. L’ho fatto perché, a differenza dei miei coimputati, tutti giovani e precari, sono un’anziana pensionata, con tanto passato e poco futuro sul quale l’arroganza del potere possa vendicarsi. l’ho fatto anche per lanciare un segnale d’allarme, denunciare la china pericolosa imboccata da una “sinistra” transgenica, dimentica delle proprie origini e ormai in corsa sulle orme del Mercato e del profitto. Se attualmente abbiamo i fascisti al governo non è una fatalità: più che merito delle destre è demerito di una sinistra che non è più tale, che ha tradito le proprie origini, dimenticando le istanze di giustizia sociale e di liberazione da cui è nata.
Forse si rischia il qualunquismo, però mi viene un paragone: tu che ti sei fatta un anno di carcere mentre tanti potenti condannati invece non ci sono neanche entrati. Ora questi “due pesi e due misure” c’è una pratica italiana di garantismo per i potenti e di giustizialismo contro i deboli?
Per me l’esperienza del carcere è stata illuminante. Tra quelle mura, dietro quelle sbarre, in quelle celle sovraffollate e fatiscenti si sperimenta all’ennesima potenza che cosa sia l’ingiustizia sociale. Io, in fondo, ero una privilegiata: pur essendo in detenzione di media sorveglianza, quindi più controllata e soggetta a divieti, avevo dietro di me tutto un Movimento che mi amava e non mi faceva sentire a sola. Invece, intorno a me ho trovato solo povertà e solitudine: il carcere rappresenta davvero l’armadio dove il sistema nasconde gli scheletri delle proprie ingiustizie, le vittime dei propri delitti. Non ho incontrato ricchi o potenti, tra quelle mura. Le mie compagne erano tutte povere, molte malate o tossicodipendenti. Vi ho trovato persone che venivano da tutte le parti del mondo, donne represse, donne maltrattate. Tante le migranti finite nel racket dello spaccio o della prostituzione. E c’erano le rom, arrestate per piccoli furti nei supermarket aggravati in tentata rapina perché, intercettate, avevano reagito cercando di fuggire. Alcune scontavano condanne per tentato omicidio perché, stanche di subire, si erano difese contro mariti che per anni le avevano sfruttate e massacrate di botte. Provare il carcere significa sperimentarne la brutalità, l’inutilità sul piano del recupero sociale, la sua vera natura repressiva e vendicativa. La parte migliore e più umana di quel non-luogo erano proprio loro, le mie compagne di detenzione: è la solidarietà concreta tra oppressi che permette di resistere alle prepotenze delle guardie, di potersi nutrire a sufficienza integrando col sopravvitto a pagamento la sbobba scarsa e spesso immangiabile; e la parola amica di chi ti sta accanto è l’antidoto ai momenti bui, alla tentazione del cappio alle sbarre. Dal carcere si esce più poveri, arrabbiati e senza speranze. E all’uscita si ritrovano la stessa povertà, una precarietà aggravata dall’essere pregiudicati, spesso gli stessi inferni famigliari. Per questo spesso in carcere si ritorna….Il carcere va abolito: l’alternativa al carcere esiste ed è la giustizia sociale. Il giustizialismo non fa che riprodurre e aggravare l’ingiustizia.
Dicevi, anche con un certo orgoglio, che il tuo avvocato è stato tuo allievo. Come trasferire i vostri valori, la vostra lotta alle giovani generazioni? Un problema comune a tutta la sinistra e anche al giornalismo di sinistra che rappresentiamo.
Purtroppo i mass media – tranne pochi giornali meno obbedienti agli ordini di scuderia, tra cui il manifesto (che mi ha fatto compagnia in carcere grazie all’abbonamento fatto da un amico per me e che io mettevo a disposizione di tutte nella minuscola biblioteca del blocco femminile) sono sempre stati contro il movimento. Quanto alle giovani generazioni, noi siamo una grande famiglia di lotta che ha delle radici molto più salde della famiglia di sangue. Te lo garantisco: noi i giovani li abbiamo, sono tantissimi e sono la nostra gioia e il nostro orgoglio, la certezza che il viaggio di liberazione non si chiude con noi. E’ la generazione dei nostri nipoti che vedevamo piccolissimi, assieme ai nostri figli, agli albori della lotta No Tav, ma anche tantissimi venuti da fuori valle, attratti da una proposta culturale e sociale concreta, pronti a salire con noi sulle barricate per difenderla. Per questo la Valle di Susa è uno dei pochi luoghi che si stanno ripopolando e ricreando una economia diretta, dal basso. Questi ragazzi arrivano, fanno rivivere le vecchie borgate di montagna, rimettono in funzione le antiche coltivazioni, recuperando gli antichi vitigni dell’Avanà, del Becuet e, insieme, una dimensione di vita e di relazioni sociali davvero a misura d’uomo e di natura.
Quindi tu sei ottimista per il futuro nonostante questo mondo così ingiusto e questa lotta che va avanti da 32 anni e non vede il traguardo vicino?
Esistono cose fondamentali, per la cui difesa è indispensabile il conflitto,a costo della vita stessa. Per difenderle ci siamo messi in gioco e quel conflitto lo pratichiamo, concretamente,ognuno secondo le proprie forze, con pratiche molteplici , proporzionali all’offesa. Siamo un movimento corale e tali restiamo , facendo delle diversità una risorsa, una ricchezza di esperienze e di culture, anche di possibilità fisiche e di differenze generazionali: ad esempio, nel 2012 nella nostra resistenza sull’autostrada, di cui ho già narrato, eravamo insieme, giovani e anziani, contro il nemico comune. Rifiutiamo ogni leaderismo. C’è rispetto per l’esperienza e ognuno viene valorizzato, ma senza capi né deleghe. Allo stesso modo, pur partendo dalla nostra realtà, non siamo autocentrati : crediamo alla ricomposizione delle lotte (che non significa omogeneizzazione), all’aiuto reciproco delle realtà in conflitto anticapitalista e antimperialista. Come nel caso della Gkn. In tal senso nostri presidi sono anche un crogiolo di iniziative e di scambi a livello nazionale e internazionale con le molteplici realtà in lotta per i diritti sociali, politici, ambientali. Il nemico utilizza l’arma della guerra tra poveri, cerca di porre in conflitto il bisogno di lavoro e il diritto alla salute, ad un ambiente integro. Allo slogan della lobby del tav che “il Tav porta lavoro” il movimento risponde che “C’è lavoro e lavoro”, quello che devasta e uccide e il lavoro liberato, capace di rendere migliore la vita senza devastare la terra, madre di tutti.
Qualche mese fa ti sei candidata: come sei arrivata a questa decisione e cosa stai facendo ora come consigliere comunale di opposizione?
Non certo per prendermi una delega, ma per fornire alle lotte ( innanzituto alla lotta No Tav) uno strumento in più di informazione e di opposizione,…insomma una nuova barricata. Il Comune è sempre più la cenerentola delle istituzioni, esautorato di strumenti finanziari e politici, a favore delle privatizzazioni, utilizzato come servo sciocco, mero esecutore da cui i poteri istituzionali superiori pretendono obbedienza cieca, acritica collaborazione.E il sistema maggioritario, per il quale chi vince piglia tutto, ha svilito, anche per il Comune, la funzione di rappresentanza reale della popolazione, favorito la separatezza tra rappresentanti e rappresentati, facendo del voto una delega in bianco, senza la possibilità reale di controllo sugli eletti. Anche a Bussoleno c’è una tale sfiducia nelle istituzioni che più del il 50% della popolazione non è andata a votare. In questo vuoto pneumatico, dalle urne è uscita vincente la lista di destra, seguita a ruota da un lista di centrosinistra. Terzi siamo noi, col 18%: un gruppo consiliare piccolo, ma combattivo e compatto (sono l’unica eletta, ma tutti i candidati partecipano attivamente alla vita del Gruppo, anche in vista di una rotazione in Consiglio). La nostra è una lista esplicitamente No Tav, antifascista e antirazzista (insomma, quello che dovrebbe essere la sinistra ), diciamo rivoluzionari, che è la parola che mi piace di più. Quella di candidarci non è stata una scelta facile, viste le esperienze pregresse con le istituzioni,tuttavia abbiamo ritenuto importante esserci per non lasciar campo libero ai poteri forti, alle mafie che si annidano nel cuore dello stato e che fanno delle grandi male opere la fonte principale di profitto. Per la Valle questo è un momento particolarmente critico. Se il tunnel transfrontaliero è in alto mare per i ripensamenti del partner francese, il governo italiano, non potendo bucare verso la Francia, spinge a tutto vapore per dare inizio alla tratta di Valle: i cantieri avanzano verso il basso, l’ombra della devastazione si allarga su boschi e coltivi, vie di comunicazione e centri abitati. Negli ultimi mesi tra Susa e Bussoleno sono partiti i cosiddetti “sondaggi archeologici”, propedeutici ai lavori di interconnessione tra la nuova linea e la linea storica . Il movimento No Tav si è messo immediatamente in movimento con assemblee informative ed azioni dirette di disturbo. Anche noi c’eravamo, come sempre, questa volta con una possibilità in più: quella di fare da scudo istituzionale contro le violenze poliziesche.
Naturalmente mancavano le altre rappresentanze consiliari.
Hai qualche punto di riferimento ideale, culturale, politico che vada oltre la vostra lotta nella tua visione del mondo?
Amo la storia e le esperienze dei popoli che si ribellano. Penso alle lotte di liberazione dei popoli dell’America latina, alla figura dolce e forte del Che, alla coraggiosa resistenza del popolo palestinese. Poi c’è la mia Rosa, Rosa Luxemburg che è da sempre per me fonte di ispirazione, colpo d’ala politico , poetico, sentimentale. Le sue lettere dal carcere, insieme a quelle di Gramsci, mi hanno fatto compagnia nel periodo che passai reclusa alle Vallette. Rosa contro la guerra, una rivoluzionaria inflessibile contro gli opportunisti e gli ipocriti e tenerissima nei confronti dei più deboli, fossero essi uomini o animali. Lei che seppe andare fino in fondo è non abbandonò il sogno rivoluzionario di Spartakus. Amo gli eretici di tutti i tempi. Storie che mi hanno insegnato tanto: che non bisogna mai tradire i propri sogni, le ragioni profonde che ti fanno vivere, lottare e forse anche morire…perché puoi anche perdere al momento, ma vincere nel tempo, attraverso il tempo.
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