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Quentin Tarantino: Django Unchained

Django, lo schiavo, ha una destinazione. Il suo liberatore, colui che lo acquista per servirsi di lui, ne ha un’altra: trovare dei ricercati e ammazzarli, perché lui è “un mercante di cadaveri”, un cacciatore di taglie. Django è l’unico che li ha visti in faccia. Accetta, anche perché vuole raggiungere la sua, di destinazione: trovare la moglie, venduta come schiava, liberarla e portarla con sé. 
Così inizia il viaggio, iniziano le avventure. 
Cristopher Waltz, che abbiamo già visto nella divisa di ufficiale SS in Bastardi senza gloria, il precedente film di Tarantino che ha molti punti in comune con Django (si è parlato di una trilogia), è una sagoma: divertente, astuto, raffinato, sentimentale, istruisce Django, che ha conosciuto solo le catene e la frusta. Gli insegna a sparare, a vestirsi, a parlare. E a essere spietato, perché il loro lavoro non prevede la pietà. Durante una serata in un bivacco, tra una strage e l’altra, tra un’esecuzione e una eliminazione a distanza con un fucile da bisonti, racconta al suo esterrefatto allievo una favola epica: c’era una volta, nell’antica terra tedesca (perché Waltz-Schultz, il dentista, è tedesco), una principessa di nome Brunilde che fu imprigionata sulla cima di una montagna, circondata da fuochi infernali e sorvegliata da un feroce drago. Un cavaliere senza macchia, il suo cavaliere, Sigfrido, scalerà la montagna, ucciderà il drago e la libererà. Perché lo fa? Django, imbambolato, ovviamente non sa rispondere. “Lo fa perché Brunilde se lo merita” è la risposta di Schultz. Questa è una scena centrale del film, la chiave di lettura: Django è Sigfrido, un Sigfridonegro (parola usatissima nel film, che ha fatto infuriare Spike Lee, come se prima della Guerra Civile non fossero chiamati così gli schiavi) che va a uccidere il feroce drago per liberare la sua Brunilde negra. La sua amata.

Il feroce drago: lo conosciamo dopo una serie di ammazzamenti di ricercati, dopo che Schultz ha deciso definitivamente di aiutare e sostenere Django nella sua ricerca. E’ un vilan, un latifondista figlio di latifondisti, padrone di schiavi con la passione dei combattimenti tra Mandingos (abitanti dell’Africa Centrale, particolarmente ambiti dagli schiavisti per la forza fisica). Si gira verso di noi spettatori durante un combattimento, due uomini avvinghiati che si massacrano, si straziano le carni, si strappano gli occhi, e lo vediamo: Leonardo Di Caprio, Calvin Candie, il drago infernale. E’ lui che tiene prigioniera Broomhilda-Brunilde. E’ lui che l’ha comprata. Non la venderebbe per poche centinaia di dollari, che sarebbe il suo prezzo, poiché è stata sfigurata dalla frusta e dalla marchiatura a fuoco. Non gli interessano questi piccoli business. Lui gioca in grande. Così lo scafato Schultz decide di costruire una delle sue sceneggiate: fingersi il factotum di un paradossale negriero negro: Django. Contattano Di Caprio-Candie per comprare un Mandingo, e già che ci sono metterci dentro anche Broomhilda. Così, come capriccio, come affare secondario. E poi squagliarsela, ovviamente senza pagare i 12.000 dollari pattuito per il Mandingo.

Candie è il mostro. Sadico, pazzo, mellifluo, ovviamente di buona educazione (Tarantino ha una passione per i mostri spiritosi e beneducati). E’ la creatura principale del regista-sceneggiatore-soggettista, il suo eroe del male: perfetto, geniale, estremo, un demone vomitato dalle cavità dell’inferno. E’ anche dotato di tutti gli accessori previsti dal suo rango: una coppia di hellhounds, cagnacci infernali coi quali si diletta a sbranare vivo uno schiavo. E uno zelante vice-demone, uno schiavo-kapò che ha tradito i suoi simili per una vita fatta di crudeltà e servilismo. Candie è uno dei due assi nella manica di Django, uno dei segreti del successo di questo e di altri suoi film. 
Ma vediamo qual è l’altro asso nella manica.

Il primo asso nella manica di Django Unchained

L’amore. 
Django è una grande storia d’amore. Il suo protagonista è un cavaliere senza macchia, un eroe che ama la sua principessa ed è disposto a uccidere e a morire per lei in qualsiasi momento. Tutte le sue azioni, i suoi sacrifici, le sue fatiche sono finalizzate a trovare l’amata, per liberarla dalle forze del male che la tengono prigioniera e la seviziano. Non vede nient’altro, non desidera nient’altro. Amore totale, amore idealizzato, eroico, sincero . L’apparente teatralità che Tarantino usa per raccontarlo, scambiata per ironia, per parodia del/dei generi non fa che renderlo più credibile, più umano. Ne sottolinea la grandezza, la statura epica. La sua immortalità. L’amore vince, sempre. L’amore passa indenne tra gli orrori (i fuochi infernali), la condizione terribile degli schiavi, la meschinità degli schiavisti, la loro bestialità, la loro profonda, non riscattabile cattiveria. Sono tutte creazioni di Tarantino, e qui sta l’altro asso nella manica.

Il secondo asso nella manica di Django Unchained

Il gioco. 
Tarantino ha avuto la grande fortuna, o la grande abilità, il grande dono, di creare arte dal gioco. Il suo gioco. E’ riuscito a conservare l’approccio giocoso di un maschietto che gioca ai soldatini, alla guerra, a filtrarlo nell’età adulta, a lavorarlo, e a trasformarlo in linguaggio. E’ il gioco di un bambino della sua generazione, quando ancora non si passava tutto il tempo davanti a una PlayStation o a un Tamagochi, ma si usavano le mani, le urla, la fantasia. Quando si rappresentavano la violenza, la paura, la forza, l’abilità. Tarantino si crea da sé i suoi cattivi: costruisce i mostri, dà loro uno stile, una personalità, li circonda di altri mostri, li fa esibire, combattere, li fa torturare degli innocenti, a lungo, con puntiglio, con dovizia di particolari. Li odia, mentre li muove. Li odia a morte. Soffre, nel vederli in azione. Si indigna. Vorrebbe distruggerli. Poi li distrugge davvero. E lo fa con la ferocia del bambino. Li fa morire tra atroci sofferenze, e ci indugia, ci gode. Muori disgustoso muthafucka! Li brucia vivi, gli fa sparare nei testicoli (anche in Bastardi senza gloria), li fa contorcere a terra feriti in punti dolorosissimi. Maledetti nazisti, luridi schiavisti, ci penso io a voi. E il gioco vince. Sempre. Perché il gioco è fantasia, è giustizia, è il potere che abbiamo noi bambini di punire i cattivi e di far trionfare i buoni. Perché “se lo meritano”.

Django Unchained è un’opera riuscita, costruita su questi due assi. Tutto funziona: lo stile, i dialoghi, la miriade di riferimenti e di rimandi, gli attori, le ripetizioni con altre sue opere riuscite, come un blues che si suona e si risuona e ogni volta è una nuova scoperta. Gioco e amore “usano” la violenza, la fanno esplodere. Sono archetipi non servili, che non inseguono lo spettatore per compiacerlo, anche se la loro natura pop permette di soddisfarlo e di farlo divertire, oltre che di stupirlo. Anche di irritarlo, perché amore e gioco possono essere inaccettabili per alcuni, per cui c’è sempre chi si ribella. Chi li rifiuta. Chi li odia. Chi cerca di smantellarli. Ma, come ha detto una volta Bob Dylan parlando di se stesso, ci sono momenti in cui un artista riesce a domare gli spiriti. Li controlla, li tiene sotto il suo potere. Non succede sempre. Forse non succede neanche spesso. Talvolta non succede per nulla. Ma se succede, l’opera sgorga selvaggia e perfetta. Tarantino recentemente ha detto che al decimo film intende ritirarsi. Forse ha capito che non ha controllato gli spiriti, in alcune sue opere. Forse si rende conto che gli sfuggono, o che l’hanno abbandonato. O che stanno per abbandonarlo. Ma in Django Unchained, in questo mix di gioco e amore senza macchia, di orrore razzista e di speranza, è riuscito a dominare tutti gli spiriti della sua mitopoietica.

di Mauro Baldrati per Carmilla on line

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