Il clima della democrazia assomiglia sempre di più a quello  del pianeta: pessimo. I limiti stanno saltando uno dopo l’altro. La  terra non ce la fa più, come i suoi figli, impoveriti e precari. Il  radicalismo antropocentrico del modello capitalista è arrivato al suo  acme. Gli esiti del vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile ne sono  la prova finale. I documenti ufficiali esprimono la vacuità ed il  disinteresse con cui il liberismo affronta la sostenibilità sociale ed  ambientale. Guidare una transizione socio ecologica senza nessun impegno  concreto equivale ad una presa in giro insopportabile, specie per le  milioni di vittime colpite da questa ipocrisia. Promesse vane ripetute  in venti anni di meeting ed incontri ufficiali puntualmente falliti, ma  sempre molto partecipati dalla burocrazia internazionale. Così come  falliscono le strategie di lobbying delle grandi ong che hanno preferito  stare nelle conferenze ufficiali, ignorando i movimenti e le realtà  sociali che in questi anni si sono coraggiosamente messe in marcia per  costruire l’alternativa. Fallisce anche il riformismo internazionale,  dimostrando la sua completa sterilità di fronte alla crisi più grave che  l’umanità abbia mai affrontato. Le forme classiche della politica sono  insufficienti. In molti casi sono addirittura complici dei comitati di  affari di banche e multinazionali. La sinistra, se si esclude quella  latinoamericana, esce disintegrata da Rio, incapace di comprendere i  mutamenti epocali in atto e colpevole di aver rinunciato alla sua  missione emancipatrice.
La finanziarizzazione della natura è il  grande business del domani. Il cavallo di troia si chiama “green  economy”. L’ultimo terreno di cattura cognitiva è proprio questo, nel  cui potere taumaturgico confidano acriticamente in tanti, incluso  diverse realtà dell’ambientalismo, ormai subalterne alla logica per la  quale non esistono alternative possibili al liberismo. Affidarsi alla  mano invisibile del mercato per consentire il miracolo della perfetta  allocazione delle risorse. Siamo alla preistoria del pensiero economico  ed alla crisi più nera del pensiero politico. Sono i movimenti per la  giustizia ambientale e sociale, quelli riuniti nella cupola dei popoli, a  costituire l’ultimo argine all’espansione della frontiera capitalista.  Sono loro a resistere in tutti i territori del globo, a difendere i beni  comuni, sostenere l’agroecologia, impedire le privatizzazioni,  promuovere forme di democrazia partecipata e comunitaria, creare nuovi  strumenti e indicatori ecologici, lottare per la difesa dei diritti dei  lavoratori e per la riconversione industriale ed energetica. Sono i  movimenti per la giustizia ambientale che indicano la necessità urgente  di costruire non solo un altro modello economico bensì un nuovo  paradigma di civilizzazione, una nuova etica.
Per avanzare, oltre che  resistere, abbiamo bisogno di una relazione nuova tra giustizia e  sostenibilità. Questo significa lavorare per raggiungere non solo la  giustizia ambientale e sociale ma anche quella ecologica. Dobbiamo porci  il problema di fare giustizia alla natura. Solo così rimuoveremmo le  cause che generano le ingiustizia e che hanno istituzionalizzato nuove  forme di razzismo sociale ed ambientale. Non aver riconosciuto la natura  come soggetto di diritto, averla esclusa dalla teorie sulla giustizia,  non aver compreso come l’integrità della natura non umana sia funzionale  a quella umana, ha condotto la modernità ad una crisi legata alla  sostenibilità. La giustizia ecologica ed il riconoscimento dei diritti  della natura darebbero un colpo mortale all’impianto giuridico  capitalista, fondato sul meccanicismo che considera la Terra e le sue  entità inermi, quindi meri oggetti da mettere sul mercato.
Aver  sostenuto come l’umano fosse l’unico essere razionale, ha costruito la  legittimazione per dominare tutto ciò venisse considerato irrazionale,  partendo proprio dalla natura. Vale la pena ricordare come noi umani  siamo in realtà il frutto di circa 4 miliardi di anni di  complessizzazione simbiotica. In natura la pratica distruttiva alla  lunga fallisce. L’evoluzione si basa non su colui che compete ma che  coopera. Dalla prima cellula l’evoluzione è proceduta attraverso accordi  di cooperazione e di co-evoluzione sempre più complessi. La terra non  solo si sostiene e si riproduce da sola ma si ridefinisce ed evolve  continuamente. È quello che si chiama sistema autopoeitico. Noi non  siamo ne ospiti ne esterni alla terra, ma siamo la Terra.
L’etica che  ne possiamo ricavare si fonda dunque sul riconoscimento dei diritti  all’esistenza ed allo sviluppo della vita di tutte le entità che  condividono con noi umani la Terra. Questo garantisce il continum della  vita e dei sistemi da cui dipendiamo. Una società fondata sui principi  della giustizia ambientale ed ecologica, ricuce la ferita causata dalla  separazione tra razionale ed irrazionale, tra soggetto ed oggetto.  Antepone le ragioni dell’etica e della politica, utilizzando la tecnica e  la scienza per raggiungere l’equilibrio tra giustizia e sostenibilità.  Il riconoscimento dei diritti della natura sarebbe garanzia di rispetto  per i diritti umani e di democratizzazione dello sviluppo. Questa è ciò  che definiamo “biocivilizzazione”. Per essere dunque giusta e  sostenibile, la civilizzazione umana deve dismettere l’antropocentrismo  come etica, religione, giurisprudenza e filosofia. La vita ha il diritto  fondamentale di esistere, non solo perché necessaria a garantire la  vita della natura umana. Questo è il messaggio che i popoli per la  giustizia ambientale e sociale lanciano da Rio. Ci auguriamo che in  Italia siano in tanti a raccoglierlo.