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SNOWPIERCER di Bong Joon-ho, 2013

Ci sono film e registi che non ci entusiasmano a prescindere. Spesso, più che un giudizio di valore, si tratta di una questione di sensibilità, gusto,  chiamatela come volete. Diventa così difficile per noi riuscire a non essere prevenuti quando si parla di certi autori, e soprattutto di una certa estetica. Tanto per fare degli esempi, che comunque hanno a che vedere con l’oggetto di questo scritto, non ci siamo quasi mai esaltati per l’opera di registi come Tim Burton, Jean-Pierre Jeunet, Terry Gilliam. Ripetiamo, a prescindere dall’effettivo valore delle loro opere.

Se abbiamo fatto questa premessa, è perché dovendo scrivere dell’ultimo film di Bong Joon-ho, ci vediamo costretti a non unirci al coro di elogi che descrive Snowpiercer come nuovo capolavoro del cinema di fantascienza, a partire appunto da (e a causa di) scelte estetiche molto simili nell’approccio a quella dei registi sopracitati. Aggiungiamo a questo punto un’altra precisazione. Saremmo ben lieti di poter sempre scrivere positivamente dei film che andiamo a vedere al cinema, perché se potessimo scegliere fra i ruoli, preferiamo di gran lunga quello di avvocati difensori piuttosto che quello dei giudici. Ma purtroppo, molto del miglior cinema contemporaneo difficilmente riesce a raggiungere le sale italiane. Non è raro quindi che i film che vediamo sul grande schermo risultino a nostro avviso deludenti. Ecco perché, per quanto ci possa dispiacere, in questa rubrica ci tocca anche criticare e non solo difendere i film.

 

 

Per vie traverse, cioè non al cinema, avevamo visto in passato un paio di film di Bong Joon-ho, regista sudcoreano di grande successo in patria. Eravamo rimasti colpiti soprattutto da Memories of Murder, uscito nel 2003, tratto da un romanzo che raccontava la storia di un serial-killer realmente esistito, autore di diversi omicidi fra il 1986 e il 1991. Memories of Murder metteva in evidenza al massimo livello il tratto forse più caratteristico di Bong Joon-ho, ovvero il brusco mescolarsi, privo di vezzi e strizzatine d’occhio, del registro comico e di quello drammatico all’interno di uno stesso contesto. Lo stesso accadeva in maniera ancora più esplicita in The Host del 2006 (tuttora il maggior incasso coreano di tutti i tempi), un film che inizia come un divertente omaggio-parodia della sci-fi orientale modello Godzilla e termina in maniera cupa, violenta e tragica. Quando poi qualche anno fa si è saputo che Bong Joon-ho avrebbe girato un film tratto dal fumetto francese Le Transperceneige, inevitabilmente e giustamente le aspettative del pubblico più appassionato al cinema del regista coreano si sono fatte alte. Con questo spirito siamo andati a vedere Snowpiercer.

 

Il primo dato da sottolineare è relativo alla produzione. Il film è sì coreano, ma anche francese e statunitense. E ciò si capisce subito dal cast, composto dal protagonista Chris Evans (il Capitan America dell’omonimo blockbuster hollywoodiano), Tilda Swinton, John Hurt, Octavia Spencer e Ed Harris. Gli attori coreani, sebbene in parti di rilievo, sono solo due:  Kang-ho song  e Ko A-sung. E’ evidente che il proposito, certo legittimo, era quello di poter vendere il film non solo in Corea ma anche in occidente, il cui pubblico difficilmente spenderebbe dei soldi per vedere un film con protagonisti attori con gli occhi a mandorla (i tempi di Bruce Lee fanno parte ormai dell’archeologia del cinema). Il secondo dato è che il film è stato girato quasi interamente in studio, per la precisione negli studi Barrandov di Praga, probabilmente per garantire un “taglio” europeo alla pellicola (sì, Snowpiercer non è girato in digitale), grazie soprattutto alle scenografie disegnate dal ceco Ondrej Nekvasil e il supporto delle maestranze locali. Elemento questo che deve aver fatto felice la produzione francese, dal momento che l’estetica di riferimento ci sembra rimandare a film come Delicatessen e La città perduta di Jean-Pierre Jeunet. Il terzo dato è che il film è tratto da un bel fumetto francese uscito fra il 1984 e il 2000, che per prepararci al meglio alla visione cinematografica, avevamo letto. Purtroppo però della storia originale in Snowpiercer non resta che lo spunto iniziale, ovvero il treno, sul quale viaggia quel che resta dell’umanità, distrutta da una glaciazione artificiale. L’adattamento e la sceneggiatura di fatto costruiscono un’altra storia, con altri personaggi, altri sviluppi narrativi, e ovviamente un altro finale. Il tutto, semplificando moltissimo e dunque rivolgendosi essenzialmente a quel  pubblico riducibile al bambino di dodici anni su cui si sono basate le fortune del cinema USA (dove in verità, va detto che la soglia si è ulteriormente abbassata: massimo 8 anni)

 

Tutti questi elementi messi insieme, secondo noi, sono sempre stati degli ostacoli alla realizzazione di un cinema non omologato che solo i più grandi registi dell’industria cinematografica sono stati capaci di superare indenni (autori come Fritz Lang, Alfred Hitchcock, John Ford, Billy Wilder, mentre se dovessimo fare un nome di un regista contemporaneo l’unico che potremmo ricordare è Martin Scorsese). Quasi sempre cioè, con queste premesse, si finisce per essere assorbiti da una tale quantità di stimoli extra creativi, che si finisce per scomparire dentro al film (per contro, va però detto che entrando in questi meccanismi, si finisce quasi sempre per uscirne immensamente ricchi). Bong Joon-ho con Snowpiercer riesce a superare solo alcuni di questi ostacoli. La sua mano e il suo stile ogni tanto emergono, ma altrettante volte vengono meno. In generale, le scenografie ci sembra debbano troppo a quell’estetica che abbiamo già richiamato in precedenza, oltre che alle atmosfere di quel film a nostro parere incomprensibilmente di culto che è Brazil di Terry Gilliam, per noi semplici esercizi di stile e orpelli estetizzanti. Anche i cambi di registro, di cui l’autore di The Host è maestro, qui si riducono a un alternarsi di personaggi dalle opposte psicologie, per di più tagliate con l’accetta: l’eroe tutto d’un pezzo Curtis (Chris Evans) contrapposto alla perfida e crudele Mason (Tilda Swinton) è uno scontro tra buoni e cattivi in cui la cattiva Mason è talmente grottesca e sopra le righe che se da un lato farà ridere tanti spettatori, dall’altro riduce il male a innocua caricatura. Quell’effetto spiazzante, che serviva ad aprire altri imprevedibili percorsi nei precedenti film di Bong Joon-ho, in Snowpiercer più che altro crea confusione, e indecisione sull’effettiva strada da seguire in quanto spettatori. E poi c’è il discorso più strettamente politico. Il treno è uno spaccato della società divisa in classi: nei vagoni di coda vive ammassato il proletariato, in condizioni disumane e insostenibili; nei vagoni centrali e di testa vive invece la borghesia, man mano che si avanza sempre più ricca e privilegiata. Il film racconta la storia della rivolta dei proletari per conquistare la testa del treno. Per questo motivo, si è scritto che con Snowpiercer la lotta di classe torna protagonista al cinema. In parte ciò è vero, ma in parte no. Perché come sempre accade nelle grosse produzioni, il film è anche un monito contro i pericoli insiti nelle rivolte. Non sia mai! aggiungiamo noi. E qui vorremmo tornare al fumetto da cui trae origine il film. Nel fumetto, il tema della società divisa in classi è presente, ed è il punto da cui parte la storia. Tuttavia, il discorso che interessa Lob, Rochette e Legrand ci pare sia un altro, ovvero il futuro del pianeta. Gli effetti del dominio della borghesia e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo sono cioè già dati, e sono spaventosi. Quel che resta da capire è se per l’uomo ancora esista una speranza, una possibilità. Il fumetto è un lungo percorso alla ricerca di una nuova terra promessa, ma ancora e sempre guidato da una élite di privilegiati interessati esclusivamente allo loro personale sopravvivenza. Più che un invito alla ribellione, il fumetto è la previsione del luogo in cui la società così com’è è destinata a portarci. Concentrare il film sulla rivolta è una precisa scelta, fatta a scapito di altre meno “avvincenti”, e in questo senso forzata, perché data la storia originale e dato il finale del film (che ovviamente non riveliamo) il dubbio che tale scelta sia stata fatta più che altro per esigenze drammaturgiche, ovvero per dare ritmo e azione al film più che per una reale adesione alla causa, ci pare lecito.

 

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Va detto che però in Snowpiercer ci sono anche cose che funzionano. Significativamente, i momenti più riusciti vedono in scena i due attori coreani, in patria due vere e proprie star. I loro due personaggi, l’ingegnere tossicodipendente che ha progettato le porte di passaggio fra un vagone e l’altro, e sua figlia, sono i più convincenti e meno stereotipati del film, e aggiungono un po’ di imprevedibilità e mistero alla storia. Anche alcune scene di combattimento risultano efficaci e coinvolgenti, soprattutto quella girata al buio attraverso i visori notturni dei poliziotti, così come risulta vincente l’idea della luce del sole che aumenta man mano che ci si avvicina alla testa del treno. A nostro avviso, ciò non è però sufficiente a fare di Snowpiercer quella pietra miliare del cinema di fantascienza di cui si sta parlando.

Detto altrimenti, se Bong Joon-ho avesse puntato in alto osando seguire sino alle estreme conseguenze la storia originale, siamo sicuri avremmo scritto cose diverse. Ma siamo nel campo delle ipotesi. La realtà è quella di un film che per quanto ben realizzato, e che per quanto per lunghi tratti riesca a intrattenere, alla fine lascia un po’ di amaro in bocca. Perché quando un regista si presenta con le credenziali dell’Autore, e tutto e tutti lasciano intendere che quello che sta girando sarà un capolavoro, il risultato non può essere al di sotto delle aspettative. Da questo punto di vista, e anche aldilà delle nostre riserve su un certo cinema e una certa estetica di cui parlavamo all’inizio, crediamo si possa dire che Bong Joon-ho questa volta non abbia, purtroppo, centrato il bersaglio.

 

Kino Glaz

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