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TRUE DETECTIVE [serie tv] regia di Cary Fukunaga, 2014

Ma se ne parliamo, è anche e soprattutto perchè True Detective rappresenta quanto di meglio almeno in termini di qualità le serie tv possano attualmente offrire. In rete il dibattito fra i fans si è immediatamente scatenato, e sono ormai innumerevoli le testate giornalistiche e i blog specializzati che forniscono il loro giudizio sulla serie. In molti si sono sbilanciati e parlano di capolavoro assoluto; altri, ovviamente, offrono analisi meno entusiastiche, quando non apertamente critiche. Comunque sia, su un punto bene o male tutti concordano: True Detective è una serie tv di alto livello. Ciò che noi tenteremo di fare in questa recensione, è spiegare il perchè.

La storia ruota intorno al brutale omicidio di una giovane prostituta, sul quale indaga una coppia di detective formata da Martin Hart (Harrelson) e Rustin Cohle (McConaughey), e si svolge in Louisiana.

La prima cosa che immediatamente dà un segno di complessità è la costruzione della struttura temporale, che abbraccia gli anni che vanno dal 1995 al 2012. Contrariamente a quanto normalmente avviene in tv, gli eventi non vengono infatti narrati in ordine cronologico, ma in flashback, tanto da Marty quanto da Rust. Entrambi inoltre, dal primo istante in cui compaiono, li scopriamo essere sottoposti, separatamente, a un interrogatorio da parte della polizia. I continui salti fra passato e presente, raccontati secondo due diversi punti di vista, e da una posizione che non capiamo fino a che punto precaria e pericolosa, creano di per sé stessi tensione e incertezza sui possibili sviluppi narrativi.

Di nuovo sin da subito, alle indagini sull’omicidio si aggiungono le indagini sul carattere e sulla vita dei due protagonisti, entrambe complesse e disarticolate. La struttura narrativa è così costruita tenendo abilmente in equilibrio i motivi principali della storia, senza che si abbia mai la sensazione di uno sbilanciamento in un verso piuttosto che l’altro. Ai dettagli e agli indizi che fanno procedere l’indagine, si alternano i dettagli e gli indizi sui personaggi principali, col risultato che la vicenda nel suo complesso diventa sempre più ricca e densa di significati.

C’è poi il discorso sulla recitazione. Per quanto ben scritta, per quanto ben girata, una serie come True Detective non potrebbe funzionare così bene senza la presenza di Harrelson e McConaughey. I due attori forniscono infatti una performance di assoluto livello, e i tempi lunghi di cui possono beneficiare per approfondire carettere e psicologia dei personaggi, consentono loro di esprimersi al meglio delle capacità. Soprattutto il personaggio di Rust, con le sue “tirate” filosofiche sul significato dell’uomo, dell’universo, della morte, i suoi incubi, presagi e deliri, risultano accettabili dallo spettatore in forza della credibilità che McConaughey riesce a dare al suo sofferto investigatore dalla  psiche danneggiata, attraverso un processo di contemporanea stoica immedesimazione da un alto e sottrazione/introiezione emotiva dall’altro. Difficile immaginare di riuscire a fare meglio, verso un carattere altrimenti talmente caricato da sforare in macchietta.

Altro elemento fondamentale, in verità non abbastanza sottolineato, è la regia di Fukunaga. Intanto, se Harrelson e McConaughey lavorano così bene, una parte del merito, per quanto piccola, deve essere data per forza anche al regista; in secondo luogo, per quanto costretto dentro a un formula standard, Fukunaga trovo il modo, spesso, di dare un taglio personale allo stile della messinscena e soprattutto ai tempi e al taglio delle inquadrature. Per fare un esempio, invece che al già celebrato piano sequenza di 6 minuti alla fine del quarto episodio, su cui appunto già molto è stato scritto, vogliamo descrivere una sequenza che già alla prima visione ci aveva colpito, un momento fra i tanti che possono apparire di routine, e che invece implicano ragionamenti e scelte importanti.

All’inizio del primo episodio, dopo il ritrovamento del cadavere, Rust spiega a Marty, con linguaggio da criminologo specializzato, il rituale compiuto dall’assassino, con annesse motivazioni cliniche; Marty, pur consapevole del momento, informa Rust che la sera stessa è atteso a cena a casa sua, insieme alla famiglia. Il dialogo, freddo e teso, dura circa 2 minuti e mezzo. Fukunaga risolve il tutto con 7 inquadrature, e 8 stacchi di montaggio complessivi. Qui le psicologie dei due personaggi emergono oltre che per le battute che pronunciano, anche per il punto di vista da cui vengono inquadrati, per lo spazio e la posizione che occupano dentro il quadro, per come vengono messi a fuoco e fuori fuoco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Foto 1. Totale

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Foto 2. Marty, Rust e il cadavere a figura intera

 

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Foto 3. Marty e Rust in piano ravvicinato. Rust parla, Marty ascolta e il suo volto è sfocato

 

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Foto 4. Il cadavere in piano ravvicinato. La gamba sulla destra è quella di Rust

 

 

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Foto 5 e 6. Di nuovo Marty e Rust in piano ravvicinato, entrambi a fuoco,  parlano. Rust giunge subito ad alcune conclusioni, Marty le contesta. Rust si volta di spalle.

 

 

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Foto 7. Primo piano di profilo di Rust (a fuoco) che motiva le sue conclusioni e di Marty (fuori fuoco) che ascolta.

 

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Foto 8. Marty e Rust (di spalle) inquadrati  in un piano più ravvicinato rispetto alle foto 5 e 6. Marty inizia a voltarsi per parlare con Rust

 

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Foto 9-10-11. Stessa inqudratura della foto7, ma ora è Marty che parla ed è a fuoco, e informa Rust dell’invito a cena per quella stessa sera. Nella foto 10, Marty è ora fuori fuoco, in attesa della risposta di Rust (a fuoco). Rust accetta l’invito e esce di campo. Resta Marty (che torna messo a fuoco), solo e in imbarazzo.

Sono queste tutte scelte registiche certo non rivoluzionarie, ma assolutamente non banali, e perfettamente funzionali all’aumento di tensione che la sequenza richiede, sia rispetto a quello che viene raccontato, sia rispetto al progressivo svelamento del carattere di Rust e Marty.

In sostanza, in True Detective tutto sembra tendere alla realizzazione di qualcosa che non si accontenta dello standard, per quanto alto possa essere, ma sfrutta al massimo ogni elemento a disposizione per provare a offrire qualcosa in più del puro e semplice intrattenimento. Anche le musiche (selezionate da T. Bone Burnett), a partire dalla bellissima Far from any Road della Handsome Family dei titoli di testa , contribuiscono alla riuscita complessiva della serie. Sono quasi 50 i brani, tutti di repertorio, che si ascoltano nelle 8 ore di True Detective, dal blues al folk, dal country all’hip-hop, dall’indie metal alla psichedelia, fino al gospel  e alla musica cajun. Un mescolarsi incredibile di generi e stili diversi ma che ascoltati tutti insieme miracolosamente riescono a restituire l’atmosfera del racconto, mentre nel corso della visione non paiono mai prevalere sull’immagine filmica.

La critica più ricorrente rivolta a True Detective è relativa alla trama in quanto tale. Molti sembrano rimasti parzialmente delusi da alcune svolte occorse nelle indagini, mentre altri lamentano alcune incongruenze e inverosimiglianze. Tutto ciò è in parte vero, ma se c’è una cosa che ci sembra chiara in True Detective questa è la costante presenza di aspetti irrazionali al suo interno. Non ci interessa qui negare alcune piccole “cadute” nello stereotipo del genere noir, e alcune forzature di sceneggiatura, quanto affermare che queste non sono essenziali rispetto al senso generale dell’opera. Se vogliamo, tutta la vicenda può apparire nel complesso illogica, fantasiosa, opaca; ma non per questo impossibile. E’ il dubbio il vero motore della storia. La ricerca dell’assassino sembra cioè più una richiesta di risposta alle domande da sempre irrisolte, che una tradizionale caccia all’uomo. Certo, l’abbiamo già detto, l’obiettivo era offrire qualcosa di più del classico telefilm che termina con la brillante risoluzione del caso, ma per una volta perchè effettivamente tutti gli autori avevano qualcosa in più da raccontare, e su questo hanno puntato. Se non altro, pensiamo che ciò meriti di essere riconosciuto e valorizzato, perchè ci troviamo pur sempre all’interno di un ambito televisivo, ovvero in pieno mainstream dello spettacolo.

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Si può certo ironizzare su questa scommessa, anche perchè non prendere mai sul serio qualunque cosa i nostri occhi e e le nostre orecchie vedano e sentano passare su uno schermo, e seppellire sotto una fragorosa risata ogni tentativo di sollecitazione di un pensiero che non sia divertente o socialmente condiviso, è un esercizio di autocompiacimento sempre più frequentemente praticato. Noi invece, che siamo ingenui e crediamo alle favole, abbiamo preferito lasciarci trasportare dalla corrente, ci siamo fidati, e ci siamo fatti sedurre dalla curiosità. E questo è il motivo per cui quando Rust pronunciava i suoi discorsi, non abbiamo riso, ma gli abbiamo lasciato una possibilità. Proprio come accadeva una volta, quando queste storie venivano raccontate sul grande schermo.

[…] Per renderti conto che tutta la tua vita, tutto il tuo amore, tutto il tuo odio, tutti i tuoi ricordi, tutto il tuo dolore, era tutta la stessa cosa. Era tutto lo stesso sogno, un sogno che hai fatto dentro una stanza chiusa, un sogno sull’essere una persona. E come in un sacco di sogni, alla fine c’è un mostro.

(True Detective, ep. 3, The Locked Room)

Kino Glaz

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