We Own This City: corruzione e violenza in divisa
I realizzatori della stra nota serie The Wire, a distanza di 20 anni, ci regalano un nuova “chicca” sulla travagliata città di Baltimora negli Stati Uniti. Questa volta però, ad andare in scena è una mini serie serratissima, sulla corruzione della polizia di Baltimore, lungo gli anni 10 del nuovo millennio. A far da sfondo è l’omicidio di Freddie Gray e il movimento di proteste e rivolte che coinvolgono la città sull’onda della deflagrazione di Ferguson.
David Simons, Ed Burns, e George Pelecanos si ispirano a fatti realmente accaduti e raccontati nell’inchiesta giornalistica sulla corruzione nella polizia del giornalista Justin Fenton, autore di un libro con il medesimo nome dato alla serie.
Nonostante ambientazione e soggetti simili, chi si appresta alla visione, non deve aspettarsi nulla di simile a The Wire, quello che abbiamo di fronte è più un’immerrsione nella singola vicenda, che ha come soggetto la corrottissima squadra di “Falchi” anti armi, piuttosto che i panorami sociologici e soggettivi della serie cult degli anni 2000.
Il risultato è comunque di tutto rispetto, e vengono traghettati stili e inquadrature tipiche di The Wire, compresi alcuni attori, tra l’altro di Baltimora. Certo, dopo la sigla a colpi di bassi profondissimi e fotografie in bianco e nero, non si può che provare un po’ di nostalgia per i voli onirici e i personaggi omerici che intrecciano la sfigata vicenda del Tenente McNalty.
Ma andiamo alla trama. Viene ricostruita la storia della Baltimore police department’s gun trace taskforce (GTTF), unità anti-armi e droga costruita per cercare di abbassare il numero di armi in circolazione. Si viene trasportati in un horror Tour di corruzione, violenza contro la popolazione, razzismo, vessazioni di ogni tipo da parte di poliziotti in borghese e in divisa che imperversano in ogni dove.
Viene dipinto il contorno di copertura sistemica da parte dei piani alti della polizia e del Comune, e la stessa indagine che fa uscire il caso, è più frutto di una casualità non voluta che di una volontà di indagare sugli abusi. L’ omicidio di Freddy Gray viene affrontato indirettamente, ma le proteste della città trovano uno spazio considerevole.
Ovviamente il tema che infiamma la serie e la fa da padrone spingendo lo spettatore a riflettere è quello della “riforma della polizia” e del “defound police”, che negli ultimi anni ha trovato grande spazio a seguito del fiorire del movimento Black Lives Matter. Anche se non mancano i tentativi di rappresentare una parte “buona” della polizia, la critica alla “War on Drugs” è centrata e pungente. Viene evidenziato il suo ruolo di governance e di paradigma sociale che obbliga i proletari della città a vivere sotto il giogo della polizia, e di come questo sistemico intreccio fra polizia e mercato della droga, sia un modo per governare la società americana e la sua guerra civile a bassa intensità.
Evitando di scendere nei particolari ed evitare quindi facili spoileraggi, si può dire tranquillamente che anche se probabilmente, non è intenzione degli autori, quel che rimane come messaggio alla fine della decina di episodi, è più una amara constatazione di irrecuperabilità della polizia piuttosto che una sua riforma.
Anche se a tratti documentaristica, le interpretazioni di Wunmi Mosaku nei panni di un’avvocatessa per i diritti civili, e di Jon Bernthal nella divisa del capo della GTTF, ci restituiscono dei quadri soggettivi e psicologici profondi e non scontati. Sono capaci di toccarci senza cedere alla tentazione di rappresentare la bicromia buoni-cattivi, mostrandoci il cambiamento violento che porta il contesto classista e razzista nelle persone.
Forse il più grande merito di questa nuova serie è proprio quello di fotografare la realtà sociale della polizia, fuori dalle solite retoriche. Gli abusi come regola e non come eccezione, la sua natura corporativistica, la sua funzione guardiana della segregazione sociale e razziale.
Chi possiede questa città? A questa domanda non riusciamo a trovare risposta fino alla fine della serie di episodi. La risposta che ne traspira anche se non formulata, non sta nella dicotomica rappresentazione istituzioni- delinquenti, ma nell’intreccio di relazioni in cui una parte è funzionale all’altra, dove la voce fuori dal coro è quella sullo sfondo, dei movimenti sociali che hanno incendiato le metropoli dell’Impero negli ultimi anni.
Ovviamente le differenze con il contesto nostrano sono abissali, ma le menti maliziose non resisteranno alla tentazione di sostituire facce e personaggi con i nostri cari carabinieri piacentini, questurini torinesi dalla mazzetta facile o digossini e falchi di vario lignaggio. Insomma, diciamo che il materiale cinematografico non ci manca.
Buona visione!
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