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Un processo profondamente ingiusto

È iniziata il aprile a L’Aquila la sessione in Corte d’Appello del processo all’attivista cisgiordano Anan Yaeesh, arrestato in Abruzzo con Alì Irar e Mansour Doghmosh (e ancor oggi detenuto) per fatti accaduti a Tulkarem. Un processo iniziato  con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a una “sentenza già scritta” Manteniamo alta l’attenzione sul processo

da Osservatorio Repressione

“Cara, sapevo che la Corte mi avrebbe attaccato fin dal primo minuto, come in Israele, nessuna differenza. Ma io sono contento che sia successo perché vorrei che tutti lo vedessero e imparassero come ci trattano in tutto il mondo. Ma non temere, non siamo finiti, e verrà il giorno in cui noi saremo i giudici e avremo il potere nelle nostre mani” (Da una lettera di Anan Yaeesh del 10 aprile)

È iniziato il 2 aprile a L’Aquila il processo in primo grado ad Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, per fatti che sarebbero accaduti a Tulkarem, Cisgiordania occupata.

E’ iniziato  con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a una “sentenza già scritta”:

  • sono state ammesse al dibattimento le “prove” raccolte dalle autorità israeliane e dallo Shin bet sulla base di interrogatori svolti nei Territori occupati, senza la presenza degli avvocati difensori e su cui grava “il sospetto” – per usare un eufemismo – di torture;
  • la lista dei testimoni della difesa è stata falcidiata (ammessi 3 testimoni su 47 e per un unico imputato);
  • il Giudice ha fatto sgomberare l’aula dalla presenza dei solidali dopo le proteste contro il palese stravolgimento delle parole di Anan Yaeesh da parte dell’interprete, egiziana.
  • E’ stato fissato un calendario di udienze fittissimo per logorare la solidarietà e far calare l’attenzione dei media su questo caso (16 aprile – 7 maggio – 21 maggio – 18 giugno – 25 giugno – 9 luglio).

Esigua o praticamente nulla era infatti la presenza dei giornalisti in aula nell’udienza del 16 aprile, dove tra l’altro non compariva, negli schermi della videoconferenza con cui era collegato Anan dal carcere, l’inquadratura sulla difesa e sul pubblico, quasi a volergli negare un sostegno, anche solo visivo.

E così è proseguito il processo il 16 aprile. Un processo politico di cui si dichiarava in maniera ossessiva la neutralità, evitando con pervicacia che si parlasse del contesto violento e coloniale in cui si sarebbero svolti i fatti. Uno scenario politico che nonostante gli sforzi per ostracizzarlo, è emerso inevitabilmente, con la naturalezza che gli spettava già al primo testimone palestinese dell’accusa:

  • è bastato per lui fornire le proprie generalità (un palestinese di Sidone), per scoprire che si trattava di uno dei 2 milioni di palestinesi cacciati via dall’occupazione militare israeliana durante la prima nakba, nel ‘48.

Una farsa giudiziaria che si è disvelata per quello che è, man mano che gli interrogatori andavano avanti, fino alle affermazioni del perito balistico, chiamato a testimoniare dall’accusa sulla natura dell’arma visibile in una foto dei tre imputati:

  • si trattava di un’arma giocattolo, di plastica, e per giunta non funzionante
  • Ma la reale natura di questo processo è emersa con forza dalla dichiarazione spontanea di Anan (quella del 2 aprile è rimasta imprigionata in una traduzione fedele ad Israele, piuttosto che alla sua testimonianza):

Oggi non parlo della causa palestinese, ma parlo di altre cose, perché avete chiesto che non dobbiamo fare entrare la politica nell’aula di tribunale. Però io credo che siamo qua per una decisione politica e non giuridica

[Il giudice interrompe, ripetendo ossessivamente che in aula si prendono solo decisioni giuridiche e costringendo l’avvocato a intervenire. La difesa fa notare che in una dichiarazione spontanea dell’imputato, non c’è la possibilità di un confronto con la Corte. La Corte può non apprezzare quello che intende dire l’imputato, ma lo deve lasciar parlare, poi magari potrà motivare in ordine a quello che dice l’imputato, ma non può contestare quello che pensa l’imputato.

Il giudice interrompe ripetutamente anche la difesa, chiedendo se anch’essa la pensi come l’imputato, e l’avvocato risponde giustamente che nel codice di procedura penale non è ancora previsto l’esame del difensore. “Poi lo controlliamo, ma penso di no” è la risposta con cui il giudice finalmente si tace, prima di ridare la parola ad Anan].

Io sono qua per un motivo politico, perché non ho commesso alcun reato contro la legge italiana in Italia. Però rispetto la decisione di non far entrare la politica dentro l’aula del tribunale. Perché voi usate la politica per giudicarmi, perché se volete giudicarmi secondo la legge italiana dovete considerare tutti i documenti e tutti gli atti della comunità internazionale che voi riconoscete. E dovete considerare che tutti gli enti internazionali riconoscono che nelle prigioni israeliane si pratica la tortura e le regole dei diritti umani non vengono rispettate.

Però non avete preso in considerazione tutto questo. Avete preso invece in considerazione la relazione politica tra il governo italiano e il governo israeliano.

Signor giudice, voi non mi avete dato il diritto di difendermi. La stessa cosa succede nei tribunali di Israele.

Avete preso in considerazione i testimoni dell’accusa e invece non avete preso in considerazione la mia testimonianza.

Il procuratore ha usato dei documenti stranieri contro di me, però avete rifiutato i documenti che ho presentato io e avete deciso di non sentire i testimoni che ho proposto io, questo contro la legge in Italia.

E mettete fretta quando parlo io, e mettete fretta anche quando parla la mia difesa.

Non volete darci il tempo che ci serve per parlare, come se, dopo l’udienza, io tornassi alle isole Maldive e non in carcere.

Questo perché avete fretta di finire la causa invece di applicare la giustizia.

 Sento di essere tanto oppresso, sento che sto subendo una grande ingiustizia in questo tribunale. Come se fossi in un tribunale finto, come successo in Francia contro gli algerini o come avviene in un tribunale militare in Israele.

Se quello che sento è giusto, significa che la mia condanna è già decisa.

Allora emettete la vostra condanna!

Non è necessario fare tutte queste udienze!

Così sconto quello che devo scontare in prigione tutto il tempo!

Se invece questo tribunale rispetta la democrazia e rispetta i vostri diritti come umani, e se abbiamo il diritto come gli altri popoli di vivere in libertà, allora dovete darmi i miei diritti come essere umano, perché abbiamo già subito abbastanza oppressione dai vostri amici israeliani.

 Dovete lasciarci in pace!

Viva la resistenza palestinese, fino alla libertà!

Al termine dell’udienza del 16 aprile, la Corte si è riservata di deliberare, nell’udienza del 7 maggio, sull’eccezione presentata dalla difesa, che ha presentato una ricerca giudiziaria con l’obiettivo di dimostrare l’inammissibilità dell’acquisizione dei verbali degli interrogatori dei prigionieri palestinesi.

Il 21 maggio invece, dopo l’avvenuta traduzione delle chat ad opera di un perito della Corte di Assise sui telefonini degli imputati, verranno ascoltati i testi della Digos

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