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Protestare per la Palestina: il caso della Columbia University

L’università è il luogo per eccellenza del dibattito, del pensiero critico e scomodo, dove le idee si oppongono perché viene garantita la sicurezza di chi le espone. Se questo è il ruolo dell’università, ciò dovrebbe comportare, e normalmente comporta, due cose.

di Elettra Repetto, da Volere la Luna

La prima conseguenza è quasi banale, ossia il permettere che le idee vengano discusse, esposte, anche quando possono essere offensive o addirittura disturbanti, come chiede il diritto alla libertà di espressione nella sua interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti Umani (Handyside v. the United Kingdom judgment of 7 December 1976, § 49). Allo stesso tempo, se alcune idee si ritiene necessario siano sanzionate, è importante lo siano in modo proporzionato, aggiunge la Corte. Cosa significa, nel concreto, permettere che le idee vengano discusse? Certamente, l’assunto è che le idee che dovrebbero avere la libertà di essere espresse non promuovano odio, supremazia etnica o discriminazione su base di genere, credo, preferenza sessuale, di affiliazione partitica o altro. Ma come dare spazio a quelle idee che sono compatibili con la democrazia, ma che al contempo danno fastidio alla maggioranza, a chi è al potere? Sono accettabili le occupazioni pacifiche, come lo sono state quelle alla Columbia University di New York a favore del popolo palestinese? E se non lo sono, quali sono le sanzioni appropriate?

Leggiamo che la Columbia University ha espulso, sospeso e in alcuni casi revocato i diplomi di laurea di studenti che hanno partecipato ad attività pro-Palestina a partire dal 2024. Le attività contestate sono l’occupazione della biblioteca il 7 maggio 2025 – sgomberata dalla polizia di New York meno di 24 ore dopo – e gli accampamenti non autorizzati: formalmente atti illeciti, perché implicano l’invasione di spazi privati dell’università e l’interruzione delle attività accademiche. Tuttavia, questa è la prima volta che assistiamo a sanzioni così numerose e draconiane dalla fondazione della Columbia.

Secondo la Columbia University Apartheid Divest (CUAD), il gruppo studentesco formatosi per chiedere la cessazione di legami finanziari tra la Columbia e Israele, gli studenti colpiti da queste punizioni sono quasi 80. La sospensione degli studenti e la revoca dei diplomi sono le ultime azioni di una serie, prima tra tutte il ricorrere alla polizia per rimuoverli dal campus, che ha visto l’amministrazione dell’università fortemente contrapposta agli studenti. Come condannato da molti professori della Columbia, questi atti hanno limitato e continuano a limitare fortemente la libertà di espressione senza essere giustificate dal bisogno di contenere manifestazioni di odio. Infatti, sebbene le occupazioni fossero di per sé illegali – illegalità dettata dall’urgenza nel voler denunciare e dall’impossibilità di essere considerati nelle proprie richieste se non con un atto performativo e plateale – non sono state violente, né promotrici di violenza contro terzi. Di più: l’accusa di antisemitismo, che è stata lanciata per giustificare interventi così severi, non sembra reggere. Da un lato, per la presenza di studenti di origine ebraica tra i manifestanti, che anzi, come si legge nelle interviste a molti studenti, hanno contribuito a organizzare l‘occupazione. Dall’altro, perché quello che gli studenti hanno chiesto – un abbandono degli accordi finanziari con Israele –, nulla ha di discriminatorio nei confronti di un gruppo per etnia o religione. Anche i sondaggi secondo cui gli studenti ebrei sarebbero stati vittima di antisemitismo – che certamente è in crescita e deve essere combattuto – sembra mescolassero antisemitismo e critiche al Governo di Israele, come riportato da Middle East Eye. In particolare, è illuminante riportare le parole di Raz Segal, professore associato di Holocaust and Genocide Studies a Stockton, che ha detto: «Le accuse di antisemitismo ai manifestanti non sembrano considerare come ebrei i molti ebrei tra i manifestanti negli accampamenti, sostenendo in effetti che gli ebrei possono essere ebrei solo se sostengono Israele o non esprimono sentimenti filo-palestinesi». Se l’antisemitismo deve essere sicuramente combattuto, non può essere usato come arma per far tacere chi tenta di opporsi a un genocidio, accusando di antisemitismo chi si professa contro il Governo di Israele. Se il termine genocidio può suonare forte, non è espresso con leggerezza: non solo la Corte Internazionale di Giustizia, già nel 2024, ha sottolineato come alcuni atti di Israele potessero cadere nella definizione di genocidio, ma Omar Bartov, uno dei massimi studiosi in materia, ha definito quello che sta accadendo in Palestina genocidio e così il Lemkin Institute for Genocide Prevention, che ha anche messo in luce le crescenti violenze in West Bank. In ultimo, non regge neppure il tacciare il CUAD di sostenere il terrorismo, dato che al centro delle richieste del CUAD c’è che la Columbia interrompa i progetti accademici e rescinda gli accordi economici attivi con Israele, il che non implica nessuna forma di supporto per Hamas.

La seconda condizione perché un’università garantisca la sicurezza di chi espone le proprie idee è il non esporsi politicamente, il non prendere parte tra due contendenti politici alla presidenza di un Paese, o, il rimanere un’istituzione neutrale da un punto di vista partitico. Questo perché il prendere parte in questioni politiche, non si concilia con l’essere il più possibilmente obiettivi – requisito essenziale per fare ricerca –, con il senso di apertura che l’università porta con sé, con l’idea che sia un luogo in cui ogni persona, indipendentemente dalle proprie opinioni, possa essere accolta. Eppure. Eppure il non esprimersi di fronte a gravissime violazioni del diritto umanitario internazionale comprovate da fonti attendibili, il tacere di fronte a uno Stato che si sta macchiando di genocidio è moralmente e legalmente problematico. E ancora più problematico è continuare a collaborare con le istituzioni di tale Stato. Come sappiamo dal libro di Maya Wind, Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese (Edizioni Alegre, 2024), anche le istituzioni superiori israeliane sono parte del sistema di occupazione di Israele, e non come enti collaterali. Non solo alcune università israeliane sorgono sui territori occupati, ma la ricerca che si fa nei dipartimenti, da quelli di archeologia a quelli di ingegneria, contribuisce alla narrazione e al mantenimento di uno stato di occupazione permanente. Collaborare con questi enti significa scegliere di ignorare questa importante connessione, significa fingere che le istituzioni accademiche siano altro, e non facciano parte di un sistema in cui invece sono necessariamente inserite.

Sembra quindi che la Columbia stia abdicando al suo ruolo di luogo di discussione, di contestazione, di critica. Certamente le minacce di Trump, alle quali ha fatto seguito un accordo con cui la Columbia, in cambio dello sblocco dei contributi governativi, ha accettato di versare 221 milioni di dollari «per porre fine alle indagini condotte» dall’amministrazione centrale in merito alle manifestazioni pro Palestina, giocano un ruolo importante nelle scelte dell’università. Questa dipendenza è necessario riconoscerla, proprio per sottolineare come l’amministrazione universitaria sia sottoposta a un potere che ne limita, quando non ne nega il ruolo di luogo del pensiero critico e indipendente. Invece che condannare così duramente studenti che non hanno danneggiato edifici accademici, non hanno incitato all’odio, la Columbia, come la comunità accademica tutta, dovrebbe ringraziare gli studenti che si stanno e si sono con forza opposti al massacro del popolo palestinese. Questo perché è essenziale che gli istituti universitari contribuiscano a mantenere il rispetto per lo stato di diritto e per quel diritto umanitario internazionale che è insegnato in molti dei loro dipartimenti. Le proteste di questi studenti devono essere apprezzate in quanto ci mantengono all’erta non solo delle gravi violazioni dei diritti, ma anche rispetto al nostro progressivo abdicare alla moralità. Le occupazioni, data la loro illegalità, e la disobbedienza civile in generale, sono particolarmente capaci di esprimere la forza delle proprie convinzioni e ricordano al pubblico che certi eventi sono in contrasto con la morale, indipendentemente dalla loro normalizzazione. Le proteste, e più in particolare la disobbedienza, si oppongono all’indifferenza e promuovono l’indignazione, che un tempo costituiva un motivo di azione. Il fatto che gli studenti non si tirino indietro mentre vengono trattati come comuni criminali, non è solo una testimonianza delle loro convinzioni, ma un costante promemoria che ciò che viene presentato come normale e accettabile non lo è, e non deve esserlo. I giovani studenti ricordano alle stesse università che si presentano come bastioni di diritti, e, alla società in generale, i propri doveri morali e la risposta morale appropriata di fronte a gravi violazioni.

Agendo da provocatori e usando slogan drammatici, i disobbedienti agiscono contro un certo modo raffinato di discutere una tragedia e chiamano il re nudo. Così, chiedendo alle loro istituzioni di annullare le loro partnership con gli istituti di ricerca israeliani che sostengono l’occupazione, gli studenti si presentano come contrari a quell’abdicazione della legge morale di cui scrive Didier Fassin nel suo Une étrange defaite. Sur le consentement à l’écrasement de Gaza (La Découverte Ed. 2024), quando discute del silenzio assordante intorno a Gaza e della normalizzazione della violenza che vediamo in Medio Oriente. Come il reverendo King ha affermato in diverse circostanze, aspettare di agire davanti alle persone che stanno soffrendo ci costringerà a «doverci pentire in questa generazione non solo per le parole e le azioni al vetriolo delle persone cattive, ma per lo spaventoso silenzio delle persone buone» (dalla Lettera dalla Prigione di Birmingham). È un’azione che vuole resistere all’apatia e sconfiggere la paralisi di fronte a violenze gravissime il tipo di azione in cui gli studenti si sono impegnati e si impegnano, una forma di agire che potremmo considerare come l’ultimo baluardo contro il nostro collasso morale.

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