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La rabbia collettiva non ha bisogno di regie – Parte due

Dopo il fallimento del processo per associazione per delinquere, la Questura prova di nuovo a delegittimare le lotte torinesi.

Comunicato congiunto di CUA Torino, Studenti Indipendenti, PoliTO for Palestine, Cambiare Rotta Torino, Torino per Gaza ed Intifada Studentesca Torino.

Nei giorni scorsi ad alcunə giovani è stato notificato un faldone di circa 250 pagine, prodotto dalla Questura di Torino, che ricostruisce cortei e iniziative svoltesi in città da ottobre 2023 fino alla manifestazione nazionale del 5 ottobre 2024 a Roma.

Come al solito la narrazione faziosa delle indagini non inserisce le proteste in un contesto di domanda sociale e pericolo politico che lə giovani, e non solo, da tempo portano avanti, ma si limita a ritrarre lə manifestant i come delləsə sovversivə , riducendo le lotte alla stregua di violenza situazionale e infondata. Le persone indagate sono decine e per alcun ə di loro la Procura ha chiesto misure cautelari che vanno dai divieti di dimora a gli arresti domiciliari fino al carcere. Dal 28 al 31 luglio si terranno gli interrogatori richiesti dal giudice prima della firma.
Non è inoltre un caso che queste indagini, firmate e concluse a dicembre 2024, siano state notificate proprio adesso, a ridosso del festival Alta felicità . È evidente il tentativo di isolare e colpire il movimento in un momento in cui la sua forza collettiva si esprime anche nella lotta No Tav in Val di Susa.

Oltre agli attacchi individuali, l’obiettivo è delegittimare esperienze collettive radicate, come le mobilitazioni in solidarietà al popolo palestinese o la difesa degli spazi universitari da gruppi fascisti.
Infatti, i fatti citati all’interno del faldone comprendono mobilitazioni ed eventi ampiamente partecipati, in cui diverse dimensioni di lotta hanno deciso di prendersi la responsabilità collettiva di non tacere davanti ad ingiustizie e crimini di guerra.

È da tempo che le piazze si riempiono contro il genocidio in Palestina, denunciando il ruolo del governo israeliano, la complicità delle istituzioni italiane, e le collaborazioni strette tra università pubbliche e un regime macchiato di sangue. Nel mentre, aziende italiane, come la Leonardo Spa, continuano a esportare armi, contribuendo attivamente al business della guerra. Nel documento redatto dai digos di Torino vengono richiamati presidi come quello davanti alla Rai, da tempo riconosciuto per la sua copertura parziale e faziosa delle notizie e che nello specifico dal 7 ottobre in poi ha contribuito alla diffusione di informazioni che legittimano il genocidio.

Anche all’interno degli atenei, luoghi che dovrebbero essere adibiti al sapere e promotori del pensiero critico, si assiste non solo alla legittimazione e alla tutela dell’ingresso di collettivi come il FUAN, dichiaratamente neofascisti, ma anche alla criminalizzazione di chi si assume e si è assunto la responsabilità storica di opporsi alla loro normalizzazione. Invece di garantire spazi sicuri e liberi, il rettore sceglie sistematicamente di ricorrere all’intervento della polizia: il 5 dicembre 2023 il risultato sono state cariche pesanti contro studenti, studentesse e docenti, così violente da spezzare addirittura un manganello.

E possiamo continuare, episodio dopo episodio, a raccontare come in modo sistematico si sta tentando di criminalizzare chi dissente, chi alza la voce contro l’ingiustizia, chi difende il diritto di immaginare un’alternativa. Si costruisce giorno dopo giorno una narrazione distorta, che trasforma la legittima espressione di pensiero in un atto sospetto, da sorvegliare, da isolare, da punire. Una strategia comunicativa e politica che non si limita a reprimere le proteste, ma punta a delegittimare culturalmente il dissenso stesso, svuotandolo di senso e presentandolo come una minaccia all’ordine e non come ciò che realmente è: un’esigenza collettiva.

Lo abbiamo già vissuto pochi mesi fa, con le misure cautelari arrivate dopo il corteo per Ramy Elgaml, ucciso per mano dello Stato. La rabbia che emerge in piazza è profondamente politica e sociale, tangibile espressione di una frattura profonda causata dal fallimento delle istituzioni nel fornire risposte concrete a problemi sistemici come questo: per questo non può essere ridotta a gesti isolati o coordinati di violenza, come cercano di far credere.

Infatti, è evidente il tentativo di rilanciare il teorema della “regia” dietro le mobilitazioni, insinuando che ci sia un coordinamento preordinato e una volontà di strumentalizzare le lotte. È un’accusa che abbiamo già visto crollare miseramente con il processo per associazione per delinquere nei confronti di diversə militantə, e che ora viene riproposta con toni ancora più artificiosi, nel tentativo di delegittimare ciò che, nei fatti, è nato in tutt’altra direzione.
Le mobilitazioni a cui si fa riferimento non nascono da manovre calcolate, né da imposizioni esterne: nascono dal basso, da bisogni reali e diffusi, da un’urgenza collettiva che attraversa territori e contesti sociali. Questo rivela, difatti, anche una profonda difficoltà ad accettare che esiste ancora una capacità collettiva e spontanea di organizzarsi fuori e oltre le loro logiche.

Siamo di fronte a un impianto accusatorio fragile e costruito ad arte. Pagine e atti riempiono faldoni, ma mancano di sostanza, nel disperato tentativo di delegittimare un dissenso che cresce, si organizza e non ha intenzione di fermarsi.

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