L’uccisione di Bachelet e la reazione dell’Autonomia
L’uccisione del Professor Bachelet avvenne davanti all’aula dove aveva appena terminato la lezione di diritto amministrativo. Terminata appunto la lezione giornaliera, Bachelet si trattenne a conversare fuori dell’aula con la sua assistente, Rosy Bindi; in quel momento il commando brigatista lo colpì con otto proiettili di calibro 32 Winchester. Il professor Bachelet si accasciò, per poi venire raggiunto da altri cinque colpi. A quel punto i due BR, sfruttando il panico generale creatosi dopo aver falsamente annunciato la presenza di una bomba, si dileguarono nonostante il presidio presente quel giorno in Università, in occasione di una tavola rotonda sul terrorismo. Dell’omicidio furono accusati e condannati all’ergastolo Annalaura Braghetti e Bruno Seghetti.
Lo stesso 12 febbraio, sfruttando l’occasione rappresentata dall’ennesimo attacco terroristico, Luciano Lama ritornò alla Sapienza scortato dalla polizia, a tre anni esatti da quel 17 febbraio che segnò una data fondamentale per la crescita del Movimento del 77 e per il riconoscimento dell’Autonomia Operaia quale forza politica determinante all’interno dell’Università. Il risultato immediato fu l’intero ateneo sotto assedio dei mezzi blindati e il sequestro di migliaia di studenti, alcuni dei quali sottoposti al controllo dei documenti. L’episodio scatenò, a ragione, l’immediata reazione dei Comitati Autonomi Operai di Via dei Volsci, con un comunicato nel quale vennero espressi tutti i dubbi riguardanti la “soggettività revisionista” delle Brigate Rosse. Ciò che venne contestato fu la cecità con cui le Br, forti di una legittimità fatta costruita con la propaganda delle armi, crearono un revisionismo di classe che mirava, al pari del Pci, a togliere qualsiasi spazio all’opposizione rivoluzionaria del Movimento, relegandole un mero ruolo di spettatrice passiva da strumentalizzare e soggiogare. Il progetto socialdemocratico verso cui entrambe le forze politiche sembravano lanciate, chi attraverso la legittimità più o meno acquisita della lotta armata, chi tramite bieche manovre di potere, lasciava scoperti svariati nodi nell’ambito delle tensioni sociali e dei bisogni reali dei proletari, lasciando mano libera all’azione repressiva del Governo e della Democrazia Cristiana, in grado soltanto di emanare leggi speciali, far dilagare lo sfruttamento delle classi lavoratrici e aumentare il disagio tramite un continuo terrorismo di Stato.
Il ritorno di Lama significava non solo il ritorno ingiustificabile di un nemico del Movimento, ma rappresentava per il Pci l’occasione a lungo attesa per ristabilire un’egemonia morale e culturale, tipica del generico pensiero “di sinistra” tanto caro al partito. L’Università, così, spalancava le porte all’ennesima pantomima di Stato, “con i Pertini in prima linea, con i piccisti in abito antiterrorista, tutti specializzatisi in funerali“, con le stesse modalità da democrazia blindata che appartenevano alla Dc. Si assisteva dunque, da una parte, alla commedia di un Partito Comunista che “pur di arrivare al governo, si scatena contro i rivoluzionari, applaude al governo Cossiga e ai blitz di Dalla Chiesa“, mentre dall’altra un “revisionismo armato, che soggettivamente, addizionando una sull’altra le attività di mera propaganda con le armi, crede di aver inaugurato la guerra di classe, ma che in realtà sortisce solo terrorismo. E il terrorismo, è oggi, come già si è verificato in altre occasioni storiche, totalmente arretrato rispetto al livello dello scontro in atto, ad anzi più se ne allontana, più costituisce un ostacolo e una negazione per lo sviluppo di un nuovo ciclo di lotte“.
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