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ROSSO quindicinale del gruppo Gramsci: prima parte

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Quattro parole di presentazione

Giustificare l’uscita di un quindicinale è semplice. Siamo un gruppo, abbiamo una proposta politica che si differenzia da altre, vogliamo farla andare avanti. Dunque, tra l’altro, occorre farla esistere nero su bianco. Ma questo non basta a caratterizzare un quindicinale. Occorre anche dire a chi ci rivolgiamo, di che cosa vogliamo parlare e in che modo.

 

A CHI. Sono cinque anni che si lotta con continuità nelle fabbriche e nelle scuole: non è una cosa da poco né senza risultati. Dal movimento sono nati avanguardie e gruppi politici; dal movimento è stato modificato, a livello di massa, il rapporto tra operai e organizzazione della fabbrica, tra studenti e organizzazione della scuola. Le lotte hanno espresso tutto questo.

La proposta riformista non è più, oggi, l’unica ad esistere: in modo limitato e contraddittorio, oggi esiste qualcos’altro. E questo qualcos’altro è nato dalle lotte. Dagli obiettivi che queste lotte hanno fatto sempre più chiaramente emergere, dalle forme con cui sono state condotte. Molte maschere sono cadute: ampi strati di operai, impiegati, tecnici, studenti hanno imparato a vedere e a capire come il loro rapporto col lavoro e con la scuola non è scritto nella natura delle cose, ma è determinato da un modo specifico di produrre e di studiare.

È a questi ampi strati che vogliamo innanzitutto rivolgerci perché ciò che essi esprimono è ciò da cui oggi occorre partire per far marciare una proposta rivoluzionaria realistica.

 

DI CHE COSA INNANZITUTTO, DELLA FABBRICA. È lì che la classe operaia ha dimostrato di essere forte e di saper fare « politica », di essere estranea a questo modo di produrre e di poter essere autonoma nei suoi obiettivi e nelle sue lotte di rifiutare, cioè, il modo in cui il lavoro è organizzato dal capitale impostando un programma di lotta per l’egualitarismo e per l’unità della classe contro 13 divisione in qualifiche, contro la divisione tra operai e impiegati, contro orari troppo lunghi per salari troppo bassi, contro i ritmi e la nocività, contro la dIvisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, cioè contro questo modo di produrre.

 

POI, DELLA SCUOLA. Perché è lì, oggi, che la classe operaia ha i suoi principali, alleati, Perché lì si esprime una estraneità all’istituzione, alla disciplina, all’organizzazione dello studio che è estraneità alla scuola come fabbrica di qualifiche e di divisione, come fabbrica di gente a cui stia bene di produrre (o di restare disoccupata) come Io impone il capitale. Per trasformare questa estraneità in antagonismo gli studenti hanno bisogno di obiettivi che esprimano tutto questo. Devono, dunque, unirsi agli operai perché solo la classe operaia è in grado di esprimere questi obiettivi come progetto di distruzione di questa società e come progetto per una società radicalmente diversa.

Il problema, allora, è di saper vedere l’autonomia e l’estraneità nella fabbrica e nella scuola, di capire che cosa propone strategicamente la loro stessa esistenza. D’individuare tutto il nuovo che esse contengono per tutti noi, traendo da questi contenuti le indicazioni per un nuovo modo di fare politica.

 

Il PCI ci dice che, nella fabbrica, ci vuole un nuovo modo di fare l’automobile che accompagni un nuovo modo di sviluppo.

Ci dice che, nella scuola, c’è « incomunicabilità » tra gli studenti e l’istituzione e che perciò occorre superare i residui fascisti e le arretratezze, che occorre fare la nuova scuola della riforma.

Infine ci dice che, nella fabbrica e nella scuola, il movimento reale è espresso dalle forze politiche istituzionali e che perciò bisogna estirpare gli estremisti. La sua proposta è: socialdemocrazia e repressione dell’autonomia e dell’estraneità, cioè progetto di composizione delle contraddizioni di classe.

Per noi, invece, questa autonomia e questa estraneità sono il punto da cui partire: la realtà finalmente concreta su cui far marciare il progetto del comunismo.

Dunque, per tornare al discorso, in questo giornale parleremo della fabbrica e della scuola. Ne parleremo, però, non per vederci dentro due lotte per « qualcosa di più e di meglio » a cui poi mettere il cappello di una bella dichiarazione di linea marx-leninista o una sparata a tutte trombe sul governo del gobbo di Stato e la repressione.

Vogliamo invece tentare un’altra strada, perché è l’unica realistica: cercare la politica là dove nasce:

nel rapporto della classe operaia col capitale, nel rapporto degli studenti con la scuola. Lì nasce l’autonomia, lì vive l’estraneità. Tutto va misurato sul loro metro: proposte rivoluzionarie e proposte riformiste. È questo che cercheremo di fare. Perché la nostra proposta (e non è oggi condivisa da molti) è di saper vedere, sviluppare, organizzare la nostra autonomia e la nostra estraneità. Dentro le lotte e attraverso le lotte.

Dunque, fabbrica e scuola. E, partendo da queste centralità, parleremo di lotte sociali e della condizione della donna. Ma non solo. Vogliamo anche parlare di come sono organizzati i nostri rapporti personali, la nostra vita, la nostra cultura. Di come sono organizzati per noi dal capitale e di come noi sentiamo il bisogno di organizzarli. Non è più il tempo in cui il « pane» e la « libertà» potevano costituire un programma. Oggi è tempo di rivoluzione comunista, di rivoluzione culturale a livello di capitalismo avanzato. Dunque vogliamo parlare della cultura, della droga, del sesso e di tutto quello che ci riguarda ogni giorno non meno della fabbrica e della scuola. Non perché siamo più «intelligenti», ma perché è necessario, perché o se ne parla o non si esiste come rivoluzionari, ma solo come ripetitori di dogmi.

 

IN CHE MODO – Un’ultima cosa perché non ci siano equivoci: non ci interessa un giornale di «bottega » (ce ne sono già altri), un giornale, cioè, dove si « parla di tutto » per poter meglio ripetere solo le proprie quattro idee. Né, tantomeno, un giornale che vede la realtà solo nella misura in cui noi siamo presenti.

Abbiamo delle proposte realistiche. Le faremo. Saremo presenti in varie situazioni. Ne parleremo. Ma ciò che sarà al centro del giornale è ciò che la classe operaia è e fa, ciò che le masse esprimono: ciò che ogni movimento autonomo di massa esprime e sintetizza. Quindi pubblicheremo anche cose di «altri» e col linguaggio di «altri» perché sull’autonomia e l’estraneità non esiste copyright.

La nostra idea, dunque, è questa: un giornale che parla di operai, studenti, donne, ecc…. Che parla dell’autonomia e dell’estraneità e che parla di una proposta e di un progetto politico costruito a partire da questo. Un giornale che queste cose le cercherà nelle situazioni concrete, a partire da ciò su cui si lotta giorno per giorno e con il contributo di chi queste cose esprime come bisogno materiale di una radicale distruzione di questa società.

Dietro le quinte della crisi monetaria

Una lite in famiglia

« Il 1973 può essere l’inizio di una nuova era di prolungata e crescente prosperità per gli Stati Uniti. A differenza di quanto è avvenuto in passato, questa era di prosperità non dipenderà dallo stimolo artificiale della guerra». Sono parole di Nixon in un radiomessaggio alla nazione dopo la recente svalutazione del dollaro.

Ironia della storia: è toccato proprio a lui – all’uomo che più di ogni altro, più di Eisenower o di Truman, più di Kennedy o di Johnson, ha simbolizzato la fede imbecille nello slogan « meglio morti che rossi» e nella necessità della guerra calda e fredda per salvar la patria dalle orde di Gengis Kahn, è toccato proprio a lui dire ai suoi compaesani che la guerra è stata più uno stimolo necessario allo sviluppo capitalistico che una « necessità militare ». E l’ha dovuto dire perché questo stimolo non funzionava più. Anzi, incominciava a causare più danni che benefici tanto all’economia quanto al prestigio imperiale.

Da più di 30 anni l’economia capitalistica mondiale si è retta su un meccanismo molto semplice. La continua espansione dell’industria bellica ed aerospaziale statunitense forniva sia uno sbocco alla produzione eccedente il consumo e l’investimento produttivo sia un flusso continuo di innovazioni tecnologiche che venivano filtrate secondo le esigenze del Capitale, dall’industria bellica all’industria dei beni di consumo e di investimento.

Il commercio internazionale diffondeva, sostenendoli e amplificandoli, i benefici di questa espansione agli altri paesi capitalisticamente avanzati. Gli USA fornivano a questi paesi beni a tecnologia avanzata (per lo più mezzi di produzione, oltre agli armamenti) e ricevevano in cambio beni di consumo che gli USA avrebbero potuto produrre solo a costi di molto superiori. Le borghesie degli altri paesi (Europa e Giappone in primo luogo) trovavano così uno sbocco crescente per le loro merci nei mercati statunitensi ed elevavano costantemente il livello tecnologico delle loro combinazioni produttive.

Il potenziale bellico che di pari passo si accumulava aveva poi una sua utilità particolare e immediata: quella di forzare il commercio internazionale su paesi capitalisticamente arretrati che da quel commercio ci smenavano (perché in cambio di preziose materie prime e semilavorate si vedevano rifilati prodotti che, lungi dal favorire, ne impedivano il decollo industriale) e quella di tener fuori dal «giro» nazioni che per ragioni ideologiche o per mero calcolo economico, non volevano entrare nel giro in posizione subalterna (paesi socia-listi veri e fasulli).

Ben meritava la borghesia statunitense la riconoscenza e la fiducia delle sue sorelle minori che da questi traffici ingrassavano a più non posso. Ben volentieri, quindi, queste lasciavano che fosse lei a decidere che cosa, come, quanto e dove si dovesse produrre, investire, consumare.

Ma che bel castello, ma che bel castello…

Era un castello di carta.

La sorella maggiore approfittava della fiducia accordatale; in buona fede, intendiamoci, e a sentir lei nell’interesse di tutta la famigliola: ne era testimone papà Capitale. Ma pur sempre ne approfittava. Vedendo le sue sorelle minori ingrassare a più non posso per la semplicissima ragione che combinavano i mezzi di produzione a tecnologia avanzata con forza-lavoro meno pagata, cominciò a far visite sempre più frequenti a casa loro per succhiare anche lei questa linfa vitale. Commercialmente parlando, in cambio dei beni a tecnologia avanzata, cominciò a chiedere non i prodotti delle fabbriche delle sue sorelle ma le fabbriche stesse.

Dapprima nessuno protestò. Solo sorella Francia, maritatasi a tale Charles De Gaulle, ambizioso uomo d’armi, alzò un po’ la voce: disse che andando avanti così la linfa vitale l’avrebbe succhiata solo sorella USA; ma nessuno le diede ascolto: dopo tutto era perfettamente nel diritto di sorella USA richiedere in cambio dei beni che lei forniva i beni che più le accomodavano, fossero questi cravatte giapponesi, scarpe italiane o fabbriche francesi.

A un certo punto le cose cambiarono. Le sorelle minori cresciute abbastanza da potersi fabbricare da sé i beni a tecnologia avanzata, non ne vollero più sapere di vendere le loro fabbriche in cambio di qualche cosa che ritenevano di poter fare in casa (e a costi inferiori). C’è di più; le ingrate incominciarono a pretendere che sorella USA acquistasse i beni a tecnologia avanzata che le loro fabbriche stavano per sfornare.

Ah sì! E ditemi, di grazia, che cosa volete in cambio di questi beni, visto che volete anche rifilarmi automobili, radio a transistor, ombrelli, scarpe, cravatte e altre giapponeserie e cianfrusaglie di Vigevano e dintorni?

Ma è ovvio cara sorella! Rivendici le fabbriche che hai comprato da noi qualche anno fa, smetti di comprarne di nuove e se non basta vendici alcune delle fabbriche di casa tua.

Questo mai, brutte ingrate! È così che mi volete ripagare dopo che per tanti anni vi ho aiutato a crescere, vi ho insegnato a badare a voi stesse…

Appunto, ci hai insegnato a badare a noi stesse e adesso anche noi vogliamo fare né più né meno quello che tu hai sempre fatto.

Insomma, un carnaio! Alla fine ci avrebbe pensato papà Capitale a trovare una soluzione di compromesso che riportasse almeno per un po’ la pace in famiglia. Ma, ahimè, ci sono delle complicazioni.

Com’è noto ogni borghesia si nutre una serpe in seno: il proletariato. Ogni borghesia è costretta a nutrirlo perché è da lui che trae quella famosa linfa vitale (il plusvalore) che tanto le piace e la fa ingrassare. Ma più cresce e invecchia la borghesia, più cresce e si rafforza questo suo figlio degenere; più aumentano le sue pretese e meno disposto diventa a farsi succhiare energia vitale.

Finché ad avere figli forti e pretenziosi eran solo la borghesia statunitense e poche altre le cose si potevan accomodare facilmente: si succhiava talmente tanta linfa dai figli deboli e poco pretenziosi che si poteva tacitare quelli forti con qualche briciola del bottino. Ma con la crescita delle altre borghesie anche i loro figli sono diventati forti e pretenziosi e così il problema si fa più complesso: come sempre quando la torta si fa più piccola, la lotta per beccarsene una fetta più grossa si fa accanita e le soluzioni di compromesso diventano difficili.

Si incomincia a litigare sul trattamento che ciascuna fa ai propri figli: qualcuna viene accusata di viziarli, altre di trattarli troppo severamente. Ogni borghesia ha un atteggiamento ambiguo verso i suoi nipoti. Da un lato sa che quelle sue sorelle che hanno figli forti e pretenziosi hanno meno linfa da succhiare e quindi han meno possibilità di romper le palle invadendo le case altrui con prodotti e capitali. Ma ogni borghesia sa anche che la grandezza della torta che tutte le sorelle insieme hanno da spartire dipende da quanta energia vitale ciascuna di loro riesce a succhiare ai propri figli; non a caso son tutte unite nel voler castigare quei figli più ingrati che tanto pretendono da sembrare intenzionati ad affamare le loro madri. Senza contare che questo sarebbe un pessimo esempio per tutti gli altri figli che potrebbero accorgersi che senza la mamma si vive meglio.

Fu così che una sera, papà Capitale, preoccupatissimo che la lite tra le sue figliole finisse col favorire la ribellione dei nipoti («Se questi poi fan fuori le loro madri, s’accorgono che il loro vero nemico sono io!»), spinse davanti alle telecamere un suo tirapiedi, tale Richard Nixon, a dire al mondo intero che era ora di finirla, che il castello di carta andava smantellato e un altro eretto al suo posto.

(«Ma guarda un po’ da che omino insignificante mi tocca farmi rappresentare: fronte bassa, povero di spirito e pure antipatico. Non dico di pretendere un Lorenzo il Magnifico come ai bei tempi della mia giovinezza… Ma almeno un Roosvelt, un Kennedy… Posso anche capire come una delle mie figlie più racchie si sia tirata in casa un gobbo, ma se la mia figlia maggiore, quella che più di ogni altra ha in mano le sorti e il prestigio della famiglia ha dei gusti così deteriori, vuol proprio dire che siamo vicini alla fine»).

«L’epoca della guerra fredda è finita. Ci ha aiutato a tirare avanti altri 30 anni. Adesso non serve più. Ultimamente abbiamo rimediato solo delle magre. A tenere metà dell’umanità nel «giro» controvoglia e tenerne un altro terzo fuori dal «giro» non ce la si fa più. E poi non ci conviene più. La linfa vitale si fa sempre più scarsa: non se ne deve più sprecare neanche una goccia. Dobbiamo usare tutta quella che c’è per estrarne dell’altra, anche dalle orde di Gengis Kahn. Così speriamo di tirare avanti per altri 30 anni. A morte la guerra, viva il Commercio! Buona notte. «L’omino grigio raccoglie mestamente le sue carte pensando alla figura da pirla che ci ha fatto (linfa vitale dalle orde di Gengis Kahn?! E chi mi crede più adesso, dopo che per venti anni ho detto che quelli volevan solo stuprare le nostre donne?) e si affretta a casa a veder Carosello che è già andato in onda.

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