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Il processo di Burgos

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Euskal Herria, 2 agosto 1968, ore 14,45 circa.

Il capo della Brigada Social (polizia politica) della provincia di Guipuzcoa, Meliton Manzanas, giace sul pianerottolo di casa sua colpito a morte da alcuni proiettili, dietro di lui c’è un giovane con barba, baffi e lunghe basette che impugna una pistola.

Neanche due mesi prima la polizia di Francisco Franco aveva assassinato Francisco Saverio “Txabi” Etxebarrieta, dirigente di Euskadi Ta Askatasuna, tentando di soffocare nel sangue la lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo basco. L’uccisione di Manzanas, la prima compiuta da ETA, rappresenta la morte del peggiore dei torturatori fascisti presenti nel territorio di Euskadi, di un uomo formatosi alla scuola della Gestapo e che aveva cominciato ad operare durante la seconda guerra mondiale occupandosi di consegnare alle SS tedesche gli ebrei che avevano trovato rifugio oltre il confine spagnolo.

“Melitòn Manzanas – dice un alto prelato basco – era il macellaio del nostro popolo. E’ stato condannato a morte ed è stato giustiziato. E’ impossibile trovare un basco che lo pianga. Il suo zelo nella persecuzione non conosceva limiti. Numerose dita di ribelli rimaste senza unghie offrono ancora una discreta testimonianza del suo attaccamento al dovere. Era, se vogliamo, un malato.” In seguito alla morte del torturatore Manzanas lo stato spagnolo decise che si doveva fare il processo all’ETA e si dovevano condannare, tutti in una volta, il maggior numero di attivisti possibile. Venne dunque istituito a Burgos “il grande processo contro l’ETA”, così come l’hanno definito gli stessi giudici spagnoli o, più alla buona, “el sumarìsimo” (il sommarissimo).

In realtà, il processo si sarebbe svolto ugualmente anche senza l’uccisione di Manzanas, dal momento che per Franco diventava sempre più un problema politico doversi confrontare con il fermento sociale di Euskal Herria in opposizione ai “30 anni di pace” propagandati dal regime spagnolo. Il 3 dicembre 1970 iniziò il processo contro 16 prigionieri baschi, tra i quali due sacerdoti, accusati di numerosi capi di imputazione che andavano dall’omicidio, al terrorismo, alla ribellione militare, al possesso illegale di armi. Xavier Izko venne incolpato dell’assassinio materiale di Meliton Manzanas, mentre Teo Uriarte, Jokin Gorostidi, Xabier Larena, Unai Dorronsoro e Mario Onaindia furono imputati di «incitamento all’ omicidio». In base ad una legge franchista, i reati politici furono assimilati alla ribellione militare e vennero giudicati da Consejos de Guerra, cioè da tribunali militari. Per i responsabili di terrorismo e di ribellione era prevista la pena di morte e fu chiaro fin dal primo momento che la sentenza era scontata. Il processo si svolse a porte aperte per giornalisti e uditori di tutto il mondo grazie alla massiccia mobilitazione spagnola e internazionale che, nelle settimane precedenti, aveva costretto il Caudillo a ritrattare su alcune condizioni, nella convinzione che sarebbe bastato mostrare al mondo la crudeltà di ETA per far passare l’opinione pubblica dalla parte del governo spagnolo. In un clima di forte militarizzazione (gli imputati presenziarono al processo perennemente con le manette ai polsi), le udienze del Tribunale militare si susseguirono non senza problemi e forti scontri verbali e non tra gli avvocati difensori e i giudici affiancati dalla polizia. Il secondo giorno giunsero voci di scioperi, manifestazioni e negozi chiusi in segno di solidarietà in tutto il paese basco: c’era una grossa manifestazione a Cestona, dove la caserma della Guardia Civil era stata assediata ed erano stati costretti a far giungere rinforzi dai paesi vicini per mettere in fuga gli assedianti. Si raccontava di barricate a Tolosa e nella periferia industriale di San Sebastiàn, di gruppi molto numerosi di fedeli che si chiudevano nelle chiese in segno di silenziosa protesta.

Nel frattempo ETA decise di rapire il console della Germania occidentale a San Sebastian, Eugen Beihl, facendo sapere che avrebbe subito la stessa sorte degli imputati. Il 26 dicembre, dopo aver atteso la fine dell’interrogatorio dell’ultimo dei prigionieri baschi, tutti gli imputati si alzarono in piedi al grido di «Baschi liberi». Mario Onaindia sostenne di considerarsi «prigioniero di guerra», poi balzò sul banco dove si trovava il procuratore militare provocando la reazione di numerosi agenti di polizia che fecero barriera dinanzi agli imputati. Nella confusione, un poliziotto estrasse la pistola ma un collega lo convinse a rimetterla nel fodero mentre un ufficiale, membro della Corte, sguainò una sciabola. La sala venne sgombrata e la Corte si ritirò. Le richieste di pena formulate poco dopo furono di condanna a morte per sei imputati e condanne complessive a 752 anni di reclusione per tutti e sedici. Nonostante l’esito negativo, il 28 dicembre ETA decise di liberare Eugen Beihl e il 31 Franco fu costretto a commutare le pene di morte in ergastoli, schiacciato dalle pressioni delle piazze e ormai screditato sul piano internazionale.

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