1 Maggio. La forza tranquilla di un blocco autonomo e anticapitalista
Trentamila persone sono confluite nel primo maggio a Milano per dire no a Expo. Una partecipazione di massa sicuramente eterogenea ma che nell’insieme esprime una forte attivazione sociale capace di essere vera contrapposizione: alle logiche dei grandi eventi, degli sprechi , delle vetrine mediatiche che reclamizzano un benessere e uno sfarzo che non esiste nel paese reale, all’impoverimento di molti strati sociali e di molti territori imposto dalle politiche di gestione della crisi volute dall’Europa , alle istituzioni gestite concordemente da un sistema dei partiti per imporre solo precarietà, ricatti ed espropriazione continua di possibilità.
Se da tre giorni i media mainstream sono allarmati e criticano quanto è accaduto, se tutti i politici da Salvini a Napolitano da Alfano a Grillo, da Pisapia a Maroni si sono uniti trovando un nemico comune da combattere e promettono vendetta vuol dire che qualcosa di importante li spaventa.
Sicuramente si potranno cancellare celermente le scritte apparse nelle vie di Milano ma sarà difficile rimuovere il significato politico della prima protesta contro Renzi e il suo modello di gestione del paese. In piazza si è concretizzata una forza, una contrapposizione e un rifiuto che non si è potuta impedire o contenere nè con un immane schieramento di polizia, nè con i riflettori dei media puntati sull’inaugurazione di Expo.
Detto questo, chi ha attraversato, sostenuto, promosso le iniziative no expo deve contribuire alla costruzione di un confronto collettivo capace di valorizzarne le ricchezze e criticarne i limiti per far si che questo movimento si sottragga agli attacchi che lo vorrebbero già morto a causa delle sue presunte disomogeneità e invece condivida e rilanci al proprio interno percorsi capaci di sviluppare nuove forme di contrapposizione più estese e mature.
Non serve a nulla alimentare scomuniche, occorre invece consolidare i percorsi e le pratiche che diffondono in ogni modo la contrapposizione al sistema di Expo.
Quindi, andare avanti vuol dire fare uno sforzo per capire le caratteristiche del movimento e le specificità del momento.
Dobbiamo soffermarci allora per comprendere la composizione sociale e politica di chi ha dato vita alla mobilitazione. Si è trattato di una partecipazione soprattutto giovanile, la stragrande maggioranza di chi è sceso in piazza aveva tra i 16 e i 35 anni, una grande parte veniva sicuramente da Milano e il suo hinterland, ma consistente era anche la parte dei manifestanti che veniva dal nord e dalle altre città italiane; c’erano poi numerosi gruppi provenienti da altre località europee. L’ipotesi è che ha partecipato alla protesta una componente sociale di giovani fortemente scolarizzata composta anche da molti soggetti non appagati dalla propria collocazione sociale perché costretti a condizioni stabili di precariato, di lavoro a intermittenza, di disoccupazione, insomma che in qualche modo ha una collocazione sociale, ma percepisce allo stesso tempo una forte assenza di prospettive future che genera incertezza e rabbia.
La formazione politica, in assenza di conflitti effettivi, si riproduce più in ambiti di aggregazione sociale che si autodefiniscono e ripropongono come momenti di aggregazione giovanili, centri sociali, occupanti di case, sindacalismo conflittuale associazioni extraistituzionali. Si tratta di soggetti che hanno sviluppato volontà e capacità di antagonismo maturate con percorsi individuali o di gruppo che portano ad aderire e a partecipare a catene di eventi indetti da reti alternative o antagoniste, ma prive di un effettivo e continuativo attraversamento di realtà sociali conflittuali.
La rete politica che ha cercato di coagulare la partecipazione alla protesta è stata indubbiamente quella dei centri sociali, dei movimenti territoriali, che hanno riportato all’interno delle iniziative sensibilità e presupposti anche differenti e con specifiche esperienze organizzative e progettuali.
Nella manifestazione contro l’Expo si e coagulato un blocco autonomo e anticapitalista che è stato maggioritario, sia numericamente che come volontà di esprimere contrapposizione fuori da ogni possibile mediazione e che ha agito variegate forme di conflitto di piazza come modo di segnare un confine tra mediazione ricomponibile e rifiuto. L’andamento complessivo dalla giornata ha ribadito questa politicità, che non può essere travisata da una visione mediatica che propone il solito ritornello del blocco nero approdato da chissà dove e avulso da ogni contesto sociale.
Il movimento non può essere chiuso e contenuto nella logica dei divieti. Altri fatti accaduti nelle vie di Milano sono abbastanza ininfluenti e sono diventati pretesto, da parte dei media e del sistema politico per mascherare una grande debolezza, l’aver dovuto subire, dopo tanto tempo, l’iniziativa di nuove forme di antagonismo sociale.
La pratica reale dell’antagonismo non è frutto né della spontaneità né di sovradeterminazioni, ma si può concretizzare solo dando continuità alla costruzione di soggettività individuali e collettive capaci di rapportarsi e radicarsi a contesti e realtà sociali. L’esperienza conflittuale deve essere capace di trasformarsi, ma allo stesso tempo riproporre metodi e comportamenti finalizzati ad aggregare e a unificare nella direzione della contrapposizione e della rottura verso gli assetti istituzionali e partitici.
Si tratta, in altro modo, di proporre il metodo e le modalità di radicamento e costruzione di comunità di lotta che ha dato forza al movimento no tav in Val Susa. Qui il nodo del consenso e dell’adesione attiva alla lotta è stato costruito proponendo e perseguendo con tenacia un progetto che ha fatto da sempre convivere uso della forza e partecipazione di massa, i momenti massimi di lotta, come il 3 luglio, sono stati appoggiati sia dalla popolazione che dagli amministratori locali che hanno vissuto le forze dell’ordine e i partiti nazionali come nemici e come occupanti dei propri territori.
L’uso della forza è stato non effimero ma completamente legittimo tanto che, nelle assemblee successive, migliaia di valligiani hanno coniato la parola d’ordine “siamo tutti black bloc”.
Ogni movimento di lotta, a Milano come altrove, deve porsi la necessità di radicarsi e allargare la sua egemonia tra i giovani e nella classe, nei territori e nelle realtà sociali più colpiti dalla crisi e discriminati dalle politiche liberiste.
Questo non si fa, a nostro modesto avviso, sminuendo il terreno della rottura e non costruendo una soggettività all’altezza dello scontro che ci aspetta…
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