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(2a parte) Da Santiago Xanica: organizzando le lotte sui territori per costruire autonomia

 

2. Intervista a un compagno del Kolektivo Kolibrì che ha lavorato alla realizzazione del documentario “Somos viento”, proiettato durante l’incontro. Questo interessante lavoro racconta la lotta delle comunità indigene di pescatori nell’Istmo di Tehuantepec (costa di Oaxaca), dal 1994 tuttora in mobilitazione contro il progetto del “Parco eolico San Dionisio del Mar”, che l’impresa transnazionale Mareña Renovables vorrebbe realizzare su quel territorio.


D: Come mai avete deciso di documentare questa lotta?

R: Come sai in quella zona sono già stati realizzati altri parchi di aerogeneratori, visto che l’Istmo di Tehuantepec ha un altissimo potenziale di produzione di energia eolica (è stato rilevato fra “le risorse eoliche più importanti a livello mondiale” dall’Associazione Messicana di Energia Eolica). Si parla di oltre 5000 MW nello stato di Oaxaca, su 20000 MW di potenziale produzione in tutto il Messico. Anteriormente si erano già sviluppate resistenze sul territorio, ma quando Mareña Renovables ha deciso di costruirne uno a San Dioniso del Mar è stata la prima volta che si è riusciti davvero ad organizzare una lotta efficace. Si è cominciato con l’Assemblea delle Comunità dell’Istmo di Tehuantepec in difesa di terra e territorio appoggiata da alcune organizzazioni solidali, poi con il tempo quell’assemblea e quelle delle varie comunità hanno scelto di autorappresentarsi, senza aspettare che qualcuno parli al posto loro.

 

Un’altra cosa interessante è che questo megaprogetto, che comprometterebbe diverse comunità, ha portato ad allearsi anche comunità indigene storicamente nemiche fra loro, come quella zapoteca e quella ikoot. Oggi lottano insieme in maniera solidale per difendere il proprio territorio. Ma così come la lotta ha creato alleanze, ha creato anche profonde spaccature all’interno delle comunità: come sempre accade le aziende utilizzano il denaro per comprare le persone, ad esempio i presidenti municipali, che a loro volta convincono alcune fazioni a sostenere il progetto, così cominciano gli scontri e la comunità si disgrega.

 

Molte volte abbiamo chiesto ad abitanti delle comunità della zona che cosa pensano dello “sviluppo”, e la loro risposta è stata spesso: “quello che ‘loro’ considerano sviluppo per noi non lo è, noi intendiamo in maniera diversa ciò che sarebbe sviluppo per noi.” Un abitante di San Mateo mi ha detto che nella sua comunità se un pescatore ha una barca e un’altro no, vanno insieme a pescare e il prodotto della pesca si divide al 50%; se fosse così anche con il progetto eolico sarebbe diverso, ma non lo è: il guadagno che rimane agli abitanti di San Dioniso del Mar è del 1,6% circa, il resto va all’azienda.

 

D: E’ ricorrente il fatto che le percentuali di guadagno che le imprese lasciano agli abitanti dei territori sfruttati siano sempre irrisorie, come avviene per le megaminiere in America Latina e per le altre grandi opere, nonostante le promesse di ricchezza e posti di lavoro. Hai parlato del concetto di “sviluppo” che mi pare molto interessante, in Europa ad esempio siamo abituati a considerare le energie cosiddette “verdi” come quella eolica come energie “pulite”, dunque ecosostenibili. Considerando l’impatto ambientale dei parchi già costruiti nell’Istmo di Tehuantepec è evidente invece che non è così. Inoltre il documentario spiega molto bene la questione dei “buoni di carbonio”1. Puoi raccontarci meglio come funzionano?

R: Mareña Renovables si dedica alla produzione di “energia pulita” per poi rivenderla a grandi industrie contaminanti in qualsiasi parte del mondo – come Heineken, Coca Cola, etc. – che inquinano oltre la soglia consentita e che quindi dovrebbero pagare più tasse per questo. Comprare buoni di carbonio, o buoni di energia verde, significa investire in progetti di produzione di energia “pulita”, e di fatto per le industrie significa poter inquinare di più senza venire tassati per questo. E’ una follia che dimostra quanto l’energia “verde” non serva a nulla: si aumenta l’inquinamento e allo stesso tempo si apre un nuovo mercato. Sarebbe interessante anche investigare sulle aziende che producono energia “pulita” in Europa.

 

Qui a Oaxaca sono nate forme di organizzazione e resistenza che stanno realmente ostacolando la realizzazione di questi mega-progetti: oltre alla storia di San Dioniso del Mar che raccontiamo nel documentario, a Juchitán (la città più vicina a San Dionisio) gli abitanti si sono organizzati nell’assemblea della comunità juchiteca per impedire la realizzazione di un altro megaprogetto eolico, dell’azienda Gas Natural Fenosa. Con barricate che durano dal 25 febbraio la cosiddetta “settima sezione” sta bloccando il passaggio dei mezzi dell’azienda al luogo di costruzione, Playa Vicente. Stanno affrontando una repressione molto dura, sia con tentativi di sgombero massivi delle barricate da parte della polizia, sia con minacce di morte ai/lle militanti e a giornalisti; a marzo è stata attaccata anche la loro radio comunitaria, Radio Totopo, in cui sono entrati e hanno rubato tutte le attrezzature.

 

Per reprimere queste resistenze lo stato cerca di non intervenire utilizzando pubblicamente le sue forze ufficiali, perché in qualche modo vedrebbe messa a rischio la propria governabilità, dunque cerca canali alternativi per permettere l’implementazione di tali progetti. Si stanno creando i cosiddetti “gruppi di scontro”, per far sì che la violenza si sviluppi creando una micro guerra civile in seno alla popolazione, fra i membri della comunità. Anche la disgregazione del tessuto sociale è molto importante per governare e imporre progetti dall’alto.

 

D: Avete riscontrato anche l’utilizzo di gruppi paramilitari per aprire il passo alle grandi compagnie che investono sul territorio?

R: Non abbiamo riscontrato propriamente la presenza di paramilitari; si parla più che altro di gruppi di “matones” assoldati per minacciare chi si oppone al progetto. Il modus operandi delle compagnie è quello di comprare alcuni membri della comunità, ad esempio i rappresentanti politici, perché si schierino a favore dei progetti e garantiscano – non importa come – che non ci siano problemi per portare avanti i lavori. Sono loro che contrattano gruppi armati per spezzare la resistenza delle comunità e generare paura.

 

D: Com’è la situazione delle lotte in queste comunità ora?

R: L’assemblea della comunità di Juchitán continua a resistere, resistono i blocchi e le barricate nonostante la repressione violentissima non accenni a diminuire. A San Dioniso del Mar la situazione al momento è più tranquilla; gli abitanti della comunità si stanno concentrando sulla propria lotta, ed è interessante notare come recentemente abbiano espresso la totale perdita di fiducia nel governo, ben consci che fatto che non sta nella scelta di un rappresentante al governo la soluzione ai propri problemi – neanche quando il candidato elettorale si proclama “per un governo del cambio”. Ultimamente tutti i comunicati sono anche diretti alle compagne e compagni zapatisti, e anche questo è un segnale politico importante. Torna anche la questione del rispetto degli Accordi di San Andrés, come rivendicazione dei diritti delle popolazioni indigene e della loro autodeterminazione.

 

3. Intervista a un compagno del Collettivo Autonomo Magonista di Città del Messico.

D: Come si caratterizza la lotta in difesa di terra e territorio da parte di un collettivo urbano come il vostro?

R: Si tratta di una lotta per la vita e per la dignità, per la giustizia delle comunità (indigene) rispetto alla difesa non solo di ciò che appartiene a loro, ma anche di ciò che mantiene in vita tutta la popolazione messicana. Ricordo che 10 anni fa, in un incontro molto importante qua a Oaxaca nella zona mazateca, un contadino denunciò il tentativo di alcune imprese transnazionali di sottrarre una gran parte di terreno alla sua comunità per fare spazio alla costruzione di una megaminiera. Il compagno sottolineava il fatto che tutta la popolazione messicana dovrebbe difendere ciò che è suo, perché questa sottrazione di terre e risorse avrebbe compromesso non solo le società indigene e contadine, ma indirettamente tutti e tutte gli/le abitanti del paese. Noi crediamo che queste queste lotte ci riguardino, e che la nostra lotta sia complementare alle lotte delle comunità indigene. Come collettivo urbano intendiamo la lotta in difesa di terra e territorio come una lotta contro l’agire delle compagnie transnazionali che vorrebbero privatizzare tutto ciò che ci circonda, nella sottrazione di terre e di risorse che riguarda tutt*, perché tutto è collegato.

 

D: E’ vero ciò che stavi dicendo, il fatto che la difesa di beni comuni – come sono la terra, il territorio e le risorse naturali – debba essere parte di un sentire e di un agire collettivo che si estende al di là delle comunità geograficamente circoscritte, che vivono in prima persona espropriazione e sfruttamento della terra. In questa prospettiva, come possono declinarsi in un contesto metropolitano come quello di Città del Messico pratiche relative al concetto di buen vivir?

E’ molto difficile declinarle in un contesto metropolitano come il nostro, perché parliamo di una città in cui vivono circa 25 milioni di persone in cui regna una complessità culturale molto articolata. Forse circa 10 anni fa potevamo intendere il “buen vivir” nel senso di una minore disoccupazione, di salari migliori, etc; oggi però viviamo un contesto piuttosto atroce, in cui la città e tutta la sua periferia si trova a fare i conti con elementi che non avevamo preso in considerazione anni fa: parlo ad esempio della violenza e della questione sicurezza. La gente è abituata a percepire immagini di corpi torturati, stuprati, mutilati e ammazzati come parte della vita quotidiana, perciò è estremamente difficile declinare il concetto di buen vivir in un contesto dove abbiamo povertà, disoccupazione, corruzione a tutti i livelli che sembrano schiacciare ogni possibilità di eticità. Sembra quasi che la scommessa di ogni giorno non stia più nel procurarsi il pane, ma che stia nel sopravvivere e arrivare a domani in un contesto così precarizzato. Direi che potremmo articolare quest’idea del buen vivir alla maniera di Eduardo Galeano, contestualizzandola e assumendola come un’utopia o un possibile orizzonte, come “l’entusiasmo e la volontà per continuare a camminare”. Seppure all’interno di una metropoli così complessa come la nostra, e di un paese così impregnato di sangue – ultimamente alcuni studi hanno parlato di cifre superiori alle morti nelle guerre in Iraq o in Afghanistan. Per elaborare a partire dalla collettività urbana quest’idea del buen vivir, inoltre, partirei dal patrimonio di rapporti che abbiamo stabilito con gli altri collettivi e organizzazioni sociali al fianco delle quali lottiamo, sia in città che nelle zone rurali.

 

D: Ti pare che nel contesto metropolitano di Città del Messico ci sia coscienza di questa condivisione delle lotte, di un sentire comune che unisce le problematiche delle comunità indigene alla metropoli, da parte dei movimenti sociali e del resto della società?

R: Vorrei usare un esempio per rispondere a questa domanda: l’1 dicembre dell’anno scorso (elezioni del presidente Enrique Peña Nieto, ndr) abbiamo visto a Città del Messico migliaia e migliaia di persone, da ragazzini di 15 anni in prima linea a donne anziane di 80 anni che rompevano le pietre per passarle a chi le tirava per strada contro la polizia. Io vedo una società, soprattutto nel centro della repubblica, che si sente vulnerabile; è una società che quasi non percepisce più la differenza fra un movimento #YoSoy132 o un Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, e che in ogni caso avverte la necessità di trasformare le proprie condizioni di vita a partire dal locale. I media in seguito a quella manifestazione hanno scatenato una caccia alle streghe puntando il dito contro quei collettivi che il governo aveva indicato come responsabili dei fatti, noi compresi; da parte nostra abbiamo sottolineato in conferenza stampa la mancata capacità del governo di leggere e comprendere gli avvenimenti dell’1 dicembre.

 

Quello che sta avvenendo soprattutto nella nostra zona è che le persone, accompagnate anche dal lavoro dei movimenti sociali, sta realizzando che non esiste alcuna possibilità di cambio mediante la via elettorale – e questo per noi è molto importante, perché da circa 15 anni lavoriamo sostenendo che l’alternativa per cambiare le nostre condizioni di vita non è l’urna; lo sono invece la strada, la collettivizzazione, etc. Io considero che, se non esiste una “coscienza assoluta”, esiste però qualcosa che gli zapatisti chiamano “la degna rabbia”, la determinazione, il coraggio di dire “Ora basta”, che sono sempre più diffuse soprattutto nel nostro contesto. Oggi fra capitale e cintura periferica vivono circa 270 mila “né-né”, cioè persone che né lavorano né studiano, perché non sono riuscite ad accedere all’educazione superiore; sono giovani che rappresentano una vera e propria polveriera, gli stessi e le stesse che abbiamo visto in piazza l’1 dicembre tirando pietre. La zona della metropoli e della sua periferia oggi viene classificata al sesto posto per indice di povertà generale rispetto a quasi tutta l’America Latina. Ma nonostante la rabbia della gente e nonostante la presenza di innumerevoli organizzazioni politiche che lavorano sul territorio, c’è ancora una popolazione che non abbiamo raggiunto – è una parte di popolazione che, come alcuni dicono, a volte si fa comprare per 300 pesos per sopravvivere alla condizione di miseria quotidiana.

 

Ragionando in piccolo, ci sono casi di autorganizzazione dal basso in cui la gente si organizza in gruppi di sicurezza nei quartieri, per gestire autonomamente situazioni di criminalità al di là della polizia. Capita ad esempio che in casi di stupro o di sequestro vengano linciati i colpevoli, e in alcuni quartieri le persone escono in strada armati di pistole o coltelli per autodifendersi, perché non riconoscono l’autorità dello Stato. C’è dunque una coscienza e una tensione verso l’autonomia, ma da qui dovremo essere capaci di costruire un’alternativa organizzativa ampia per organizzare la rabbia.

 

[2-fine]

 

1I buoni di carbonio sono un’invenzione del mercato capitalista globale che permette alle grandi industrie di “compensare” le emissioni di CO che superino i livelli consentiti. Un’industria la cui contaminazione ecceda i livelli stabiliti può comprare buoni di carbonio investendo, ad esempio, in progetti di energia alternativa (come quella eolica) o in programmi nei paesi del sud del mondo vincolati alle politiche del clima, su cui altre aziende fanno business. Investendo in queste attività può continuare a produrre come prima, in pratica aumenta la sua capacità di continuare a inquinare. E’ lampante la contraddizione su cui il mercato del carbonio si basa: un meccanismo di speculazione finanziaria che non porta altro che un doppio beneficio alle imprese, che possono continuare ad inquinare traendo profitto anche da queste false soluzioni, senza alcun beneficio per l’ambiente.

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