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L’anomalia della guerra in Messico

Il 5 marzo il collettivo “Guerreros Buscadores de Jalisco” scopre qualcosa che innalza il livello della crudeltà del potere in Messico: un campo di sterminio del Cartel Jalisco Nueva Generación, uno dei cartelli più feroci del Paese.

da Nodo Solidale

I dati della fabbrica del terrore

In un ranch di Teuchitlán, nella campagna a un’ora dalla metropoli di Guadalajara (e a mezz’ora da una caserma militare), dietro un portone come altri milioni in Messico, vengono scovati – da un collettivo di familiari di “desaparecidos” e non dalle autorità competenti, come nella maggioranza schiacciante dei casi – tre forni crematori con ammucchiati frammenti umani e circa 400 paia di scarpe, centinaia di altri oggetti personali come braccialetti, orecchini, cappellini, zaini, quaderni con lunghissime liste di nomi, che proiettano la dimensione dell’orrore su centinaia, forse migliaia, di persone uccise con rigore scientifico in questo campo di sterminio contemporaneo. La vista della montagna di scarpe delle persone scomparse è un pugno al cuore per tutti coloro che, per associazione fotografica, volano con la mente ai peggiori massacri realizzati dalle dittature nazi-fasciste.

Ma Jalisco conta 186 siti di sepoltura clandestina processati dalle autorità, sebbene il ranch Izaguirre non figuri in questa mappa. Tlajomulco de Zúñiga è il comune con il maggior numero di fosse clandestine, per un totale di 75. Guadalajara la ricca, bella, ripulita e turistica capitale dello Stato è costellata di storie di desaparecidos e violenza, alcuni monumenti sono stati deturpati e trasformati in memoria viva con centinaia di foto e striscioni con i volti di persone sparite. Una realtà agghiacciante che va avanti da anni.

Sono più di quindici anni infatti che, come collettivo, ci siamo uniti a quella parte della società civile organizzata messicana che denuncia questa guerra negata, sporca, manipolata o romanticizzata nelle serie televise dedicate ai grandi capi del Narco. Una guerra del tutto capitalista, volta ad accumulare quantità assurde di denaro trafficando merci e corpi. Corpi picchiati, violentati, sfruttati fino all’ultima goccia, torturati e poi fatti a pezzi, sciolti nell’acido, bruciati, evaporati e dispersi nel nulla dell’oblio. Sono giovani uomini attratti da offerte di lavoro ingannevoli, bambini spariti in un angolo qualsiasi di una città, ragazzi reclutati con l’inganno. Sono moltissime donne: bambine, giovani, adulte, intrappolate in circuiti di tratta, abusi e torture inimmaginabili. E’ la fabbrica del terrore, la necro-produttività capitalista. Parliamo di 123.808 persone “desaparecidas”, dati del Registro Nacional de Personas Desaparecidas y No localizadas (RNPDN) aggiornati al 13 marzo 2025. Numeri che, addirittura, superano di gran lunga le cifre già spaventose dello sterminio e della sparizione forzata realizzati durante le dittature in Cile e Argentina. Ma in Messico la maggioranza delle vittime non è militante política, è gente comune e questo riduce di molto la risonanza di questo terrificante crimine, come analizzeremo più avanti. Più di 50.000 persone sono scomparse negli ultimi 6 anni, sotto il governo di centro-sinistra della pomposamente sedicente “4^ Trasformazione”, indicando matematicamente le responsabilità istituzionali di questa drammatica piaga sociale. A questi dati sommiamo gli omicidi realizzati nel paese dall’inizio della cosiddetta guerra al narco, ovvero da dicembre 2006: 532.609, dato aggiornato al 29 gennaio di quest’anno, secondo fonti ufficiali. Più di mezzo milione di vite stroncate, di cui almeno 250.000 durante gli ultimi sei anni, con i governi di centro-sinistra.

Sopravvivere alla “guerra di frammentazione territoriale”

Com’è possibile che tutto ciò passi in (quasi) completo silenzio?

L’elemento fondamentale dell’anomalia della guerra in Messico non risiede solo nell’alto indice di normalizzazione e negazione della stessa, di cui parleremo più avanti, ma soprattutto nella sua comprensione sociale, perché relegata ai margini della politica e delle definizioni classiche di guerra. “Ancora non piovono le bombe dal cielo”, ci diciamo a volte ironicamente, “non stiamo messi male” come in Palestina, in Siria, in Kurdistan, Sudan, in Ucrania. Eppure il numero dei morti è lo stesso o, in certi casi, superiore.
Questa infatti non è una guerra simmetrica, fra eserciti schierati o un’invasione dichiarata da una forza armata nemica; e neanche la tipica guerra contemporanea asimmetrica, che si combatte un po’ ovunque, con forze speciali dello Stato impegnate contro cellule del “nemico interno”. Il fronte messicano è caratterizzato invece da una moltiplicazione indiscriminata di attori armati e da un altissima intensità di fuoco, che frammentano il campo di battaglia in micro-conflitti molto violenti, sparsi e poco visibili che elevano brutalmente il tasso di mortalità fra la popolazione civile mentre l’attività economica, politica e sociale grosso modo va avanti, con black-out e intermittenze nelle gestione della vita pubblica locale. Definiamo quindi questa anomalia bellica come “guerra di frammentazione territoriale”. Del resto le aree più assiduamente colpite dalle offensive e contro-offensive dei vari gruppi armati (illegali o istituzionali), dai rastrellamenti, dalle sparizioni, dai reclutamenti forzati, sono i territori rurali o le periferie semi-rurali, come per esempio Teuchitlan, dove è “apparso” il centro di stermino e addestramento forzato nel ranch Izaguirre. In mezzo alle lande industriali, nei territori di frontiera, nel deserto, sulla costa, sulle montagne la gestione delle rotte, dei campi di coltivazione, del traffico di esseri umani è da decenni in mano a differenti gruppi di potere che si scannano su popolazioni di periferia, spesso indigeni e contadini, che non fanno notizia e, a volte, neanche fanno numero nelle statistiche. Quando la guerra fra i vari attori armati arriva nelle città si rende visibile, “registrabile”, fa scalpore ma spesso l’indignazione evapora nella paura per le rappresaglie e quando la violenza scema localmente in una geografia per intensificarsi in un altra.

Con lo sgretolamento dei grandi cartelli, più o meno stabili fino alla fine degli anni 90, e l’intromissione militare attiva dello Stato messicano come socio del Cartello di Sinaloa (2006) contro tutte le altre organizzazioni criminali, si è arrivati all’esplosiva creazione di centinaia di gruppi armati (240 secondo un’informativa della Secretaria de Gobernación) che a loro volta si diramano in cellule e sotto-gruppi locali, che gestiscono fisicamente in quartieri e villaggi la gestione delle attività illecite come il racket, la prostituzione, i sequestri, la fabbricazione e lo smistamento di armi e droga. La moltiplicazione degli attori armati ha aumentato considerabilemente la frammentazione del territorio, generando una balcanizzazione violenta del Paese, attraversato ampie aree “off limits” o con circolazione ristretta per coprifuoco. Queste numerose strutture/imprese criminali sono affiancate nel lavoro logistico e di controllo del flusso di merci/persone da tutte le forze armate e di sicurezza dello Stato, definite “corrotte” ma in realtà strutturalmente legate all’economia illegale, coinvolte a differenti livelli e divisi in differenti gruppi anche rivali e, quindi, anche in conflitto tra loro. Basta citare che nell’ultima “pulizia” ordinata quest’anno dall’attuale governatore del Chiapas Eduardo Ramirez, nell’affanno di recuperare un’immagine pubblica di decenza e con la necessità di riordinare il flusso di cocaina e migranti nella zona strategica della frontiera sud seguendo interessi di altri gruppi di potere, sono stati arrestati per mafia 270 poliziotti (e almeno tre sindaci) in cinque città differenti della regione, dimostrando implicitamente il livello di cooperazione fatto sistema tra Stato e crimine organizzato. Stato e Crimine che però non bisogna immaginare come due blocchi monolitici contrapposti, ma piuttosto dobbiamo abituarci a vedere e comprendere il panorama messicano come un grandissimo mercato, dove numerose agenzie, punti vendita e succursali, gruppi di pressione, giudici, polítici e burocrati insieme a molti attori armati, in divisa o meno, partecipano, si alleano e lottano a ritmi vertiginosi per assicurarsi una ghiotta percentuale nel controllo delle risorse del Paese (e, solo in parte, del fiume di cocaina che lo attraversa, su richiesta degli Stati Uniti d’America).

L’economia criminale come modo di produzione capitalista

La diffusione dell’economia criminale e della sua organizzazione è una ristrutturazione capitalista del dominio e saccheggio dei territori, un forma di accumulazione che in Messico si mostra con questa specificità che definiamo “guerra di frammentazione territoriale”. In America Latina lo Stato ha costantemente contribuito all’accumulazione (originaria e successiva) di Capitale attraverso le forze armate, con l’aggressione diretta contro chi impediva il saccheggio, spesso i popoli indigeni, gli operai e i contadini. Le classi subalterne nei secoli hanno sviluppato numerose e svariate forme di resistenza, anche armate, aprendo fino a pochi decenni fa un periodo feroce, ma anche formidabile, di lotta guerrigliera contro il potere statale, l’oligarchia e le grandi imprese. In Messico sono numerosissimi i casi di organizzazione della lotta armata, eredi dell’Indipendenza prima e della Rivoluzione poi, entrambe iniziate e portate a termine soprattutto dai contadini, dagli indigeni e successivamente dagli operai. Dopo l’insurrezione zapatista del 1994 e l’ampio consenso globale ottenuto da essa, per il governo messicano reprimere la resistenza popolare con le forze armate ha avuto, e continua ad avere, un costo politico molto alto (ricordiamo per esempio il caso di Ayotzinapa), ragion per cui l’uso delle forze dei sicari come outsorcing della repressione è diventato negli anni un vero e proprio dispositivo per raggiungere dei territori strategici, spopolarli attraverso la politica del terrore implementata dai gruppi criminali, riordinarli secondo la logica economica specifica (impiantare una miniera, un consorzio turistico, un porto, una diga o semplicemente ri-organizzare la forza lavoro e le risorse a favore del gruppo “vincente”). Si è passati dall’uso storico e secolare di mercenari al soldo dello Stato alla creazione di numerose imprese criminali regionali e locali che, indipendenti ma socie dello Stato, gestiscono, controllano e terrorizzano la popolazione per profitto proprio e con finalità condivise con chi governano le istituzioni: l’arricchimento illimitato. La repressione quindi non è più solo contro i guerriglieri e gli attivisti, ma è una forma di governance – flessibile, elastica ma spietata – su tutta la popolazione e sui territori su cui questa vive, lavora e sogna.

Questo dispositivo infernale, oltre a perpetuare la necessità capitalista di cosificazione e valorizazzione di ogni elemento, di ogni territorio e di ogni essere umano, ricopre un ruolo strategico importante nella guerra ideologica: quello di spoliticizzare la lotta di classe, la resistenza contro il saccheggio di ogni spazio vivibile.

L’uso del crimine organizzato, comunemente detto “narco”, come braccio armato del capitalismo permette collocare le vittime nel terreno fangoso del dubbio: l’hanno ammazato perchè lottava o perché magari aveva qualche intrallazzo che non si sapeva? Chi è stato realmente? Non ha la stessa ripercussione nell’opinione pubblica un omicidio realizzato dalla polizia o dall’esercito in uno scontro politico (una manifestazione o in combattimento guerrigliero) che un omicidio, con gli stessi fini, realizzato da sicari legati a un gruppo criminale, durante la “normalità” della vita quotidiana. O a volte neanche la “dignità” terribile dell’omicidio ma la sparizione forzata nel nulla, dove la vittima è inghiottita nel buio da un carnefice invisibile. In questa maniera si perdono più facilmente i connotati di un delitto politico, si “normalizza” l’aggressione facendola scivolare nell’oceano anonimo dei “delitti comuni”, non degni d’attenzione. Allo stesso tempo un omicidio chiaramente politico – così drammaticamente ricorrente nella lunga storia della lotta di classe – scatena effetti e reazioni con responsabilità politiche dirette: “è stato lo Stato!” E la gestione dello Stato, per quanto feroce, può essere messa in discussione, diviene “naturalmente” l’obbiettivo della rabbia popolare, così come storicamente i movimenti sociali hanno denunciato e combattuto la violenza dell’Esercito e della polizia, come bracci armati del potere e in qualche modo “traditori”, come lo Stato, del patto sociale con il popolo, che li mantiene. Quando però la fonte della violenza è un gruppo di imprenditori feroci, senza divisa, senza regole d’ingaggio, senza un’etica e un patto sociale a cui sottostare: come ci si ribella? Contro chi e come si dirige la rabbia sociale? È difficile, nonostante alcune eroiche eccezioni, manifestare, organizzarsi e difendersi contro un nemico senza regole, penetrato nel tessuto sociale e camaleontico, come la mafia.

Domande scomode

Spesso in Italia, tra un’iniziativa di contro-informazione e l’altra, abbiamo ascoltato domande dubbiose: “Ma c’è davvero la guerra in Chiapas? Ma è così proprio in tutto in Messico?” aggiunto magari da un “E’ che io ci sono andato in vacanza e mi sembrava abbastanza tranquillo…”

C’è una tendenza diffusa a minimizzare la portata dell’orrore, della gestione metodica (da campo di sterminio, appunto), istituzionale, sociale e politica del “fenomeno narco”. Da un lato la superficialità dell’analisi del potere, riprodotta dai media mainstream, che al massimo sottolinea solo gli aspetti “folckoristici”, aneddotici e incluso “brillanti” (tipo il Chapo Guzman che apparve nella lista di milionari di Forbes) di molteplici “casi isolati”; e questa è quella che più diffusamente giunge in Europa, una scelta narrativa del potere per distrarre l’attenzione sulle specificità sistemiche del “problema”. Dall’altro lato c’è la normalizzazione che la stessa società fa (che facciamo anche noi che ne denunciamo la barbarie) per sopravvivere: si esce di casa, si va al lavoro o al supermercato, d’un tratto degli spari e… si aspetta, in un riparo improvvisato, che finisca la sparatoria e si riprende poi il tran-tran. O arriva un messaggio della figlia del vicino “scomparsa”, lo si legge con un sospiro, si diffonde nelle chat e si torna alle occupazioni quotidiane, magari sussurrando una preghiera e sperando sommessamente che non tocchi mai a una figlia propria, a un parente, a un amico del cuore. In Messico apparentemente la vita scorre regolare, i bambini vanno a scuola, ogni tanto le chiudono per qualche sparatoria, ma i bambini sanno – come in caso di terremoto – che si devono accovacciare sotto i tavoli o sdraiarsi al suolo, appunto, perché la balacera è vissuta come un’altra catastrofe naturale qualsiasi, interiorizzata e affrontata come tale. Tra la banalizzazione dei media e l’assuefazione alla violenza come istinto di massa di sopravvivenza si getta la polvere (dei corpi carbonizzati) sotto il tappeto della normalità. E così, nonostante certi momenti di indignazione, ribellione e forte protesta popolare (come le mobilitazioni del 2011 del Movimento per la Giustizia con Dignità, quelle del 2014/2015 per i 43 di Ayotzinapa, la creazione di gruppi di “autodifesa” soprattutto nei territori indigeni), siamo giunti a mezzo milione di persone assassinate, oltre 120.000 desaparecidos e alla scoperta dei centri di sterminio in questa grande fossa comune chiamata Messico.

La gravità dei crimini riscontrabili nel ranch di Teuchitlán, perquisito dalle forze dell’ordine nel 2017 e poi nel settembre del 2024 che “non avevano notato la presenza di forni e altri dettagli”, mette a nudo nuovamente la rete di complicità fitte fra il crimine e lo Stato messicano. La gestione di un centro di addestramento ed eliminazione fisica dei corpi a questo livello può funzionare solo d’accordo con il silenzio – e possibilmente l’appoggio diretto – delle istituzioni politiche e di procurazione della giustizia. Un genocidio, un crimine di lesa umanità veniva perpetrato alle porte dalla seconda città più importante del Messico, dove la gente veniva adescata nelle stazioni dei pullman, portata lì, vessata fisicamente e sessualmente, istigata a uccidere e – chi sopravviveva all’inferno – obbligata a farsi sicario, trasformarsi in macchina di morte per la produzione e l’accumulazione di ricchezza del CJNG. Tutte le altre persone torturate atrocemente e poi bruciate, spazzate via come immondizia. Fumo.

Le domande che ne seguono sono terribili: quanti altri centri di sterminio simili stanno funzionando e sono tollerati in altri posti del Messico? Fino a quando volteremo lo sguardo altrove, permettendo alle imprese, ai governi e al loro braccio armato di disporre così atrocemente dei nostri corpi, del nostro futuro? Fino a quando accetteremo di vivere con la paura e il terrore nell’anima?

E per chi vive dall’altra parte dell’oceano: Fino a quando le serie sul narco e il turismo inconsapevole frivolizzeranno le nostre conversazioni sul Messico?

Fino a quando penseremo che quelle “due strisce” date il sabato sera non ci fanno complici del lato più feroce del capitalismo?

Fino a quando resteremo indifferenti?

Fino a quando ci assolveremo?

Nodo Solidale

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