Albania: tra servitù, silenzio e sussulti di dignità
Riceviamo e pubblichiamo da un lettore questo aggiornamento sulla situazione politica in Albania, in viaggio tra la corruzione sistemica a livello istituzionale e imprenditoriale, subordinazione geopolitica, governo delle migrazioni e nuove lotte in difesa dei territori e delle fasce piu’ deboli della popolazione. Buona lettura.
E ancora in Albania, paese in cui le prospettive per il futuro sono ancora più buie della notte. Dai rapporti di potere opachi e sempre più vincolati alle necessità dell’oligarchia locale, si sta diffondendo un nuovo sentimento di umana coscienza di se stessi e dei propri, sebbene elementari e indispensabili, diritti. Non si può di certo dire che la rivoluzione sia dietro l’angolo, ma che in un paese in cui da quasi 30 anni lo spazio politico del dibattito poteva riguardare solo l’integrazione euro-atlantica e qualunque iniziativa politica poteva essere inquadrata solo se conforme a questo orientamento, è sicuramente un segnale incoraggiante.
Badate bene: fare delle letture politiche di natura differente, o peggio ancora di classe, fino a qualche anno fa’ poteva significare l’esclusione da qualsiasi canale di comunicazione. Oppure, scendendo più in basso, tra i proletari, anche solo proporre una pausa sigaretta in più, difendere un proprio collega dall’arroganza padronale o entrare in contrasto con il proprio caporale o con qualche collega un po’ leccaculo poteva significare il licenziamento sistematico, lo scherno o stigmatizzazione da parte della famiglia o del villaggio. Uno stigma e una condanna che, sommata alla miseria e alla frustrazione, in molti casi poteva (e può) risolversi solo tramite l’emigrazione.
L’Albania è il paese che alcuni giornalisti, con fare arrogante e facilone, definiscono il 51esimo stato d’America. Che definizione ridicola per un paese di cui la stragrande maggioranza degli abitanti l’America può permettersi di vederla solo al cinema. Ma la menzogna che sia Rama, che Berisha sono riusciti a costruire in questi anni di servilismo piatto e di devastazione neolibertisa è riuscita a creare pure spacciare per buona questa illusione. La menzogna per cui sarebbe bastato qualche dritta da parte di qualche consulente economico della banca mondiale, più qualche privatizzazione per diventare come l’America nel giro di un decennio. Un “Grande balzo in avanti”, di cinese memoria, ma verso il dirupo e la guerra civile.
Fino al 1998 il ministero dell’Economia aveva assunto la denominazione di “Ministero dell’economia e delle privatizzazioni”. Cattiva idea. Ci volle una guerra civile nel 1997 e il naufragio della Kater i Rades perchè qualcuno cominciasse a ripensare le conseguenze estreme del neoliberismo, almeno in apparenza.
Ma in Albania l’unica cosa importante è dare ragione a chi all’estero firma gli assegni per i fondi di sviluppo, oppure a chi può timbrare il permesso di soggiorno per i milioni di albanesi all’estero. Il dibattito politico in Albania, come anche in altri paesi balcanici (sebbene altrove in forma minore), è ancorato sulla facilitazione dell’emigrazione e il miglioramento dei rapporti politici con gli stati di provenienza dei migranti subordina tutto. E chissenefrega se questo significa umiliare il proprio popolo davanti al mondo, come quando durante una visita di Matteo Renzi, Edi Rama, tra lo sguardo stupito del suo stesso ospite affermò, con grande e rudimentale cortigianeria che “in Albania gli investimenti sono sicuri e che non ci sarebbe stato nessun sindacato ad ostacolare possibili investimenti”. Chissenefrega se questo significa distruggere il patrimonio naturalistico e storico del paese, come nel caso di Tirana, dove Stefano Boeri, amico e vecchia conoscenza di Edi Rama, oltre che fratello del più ben noto Tito Boeri, come tanti altri ha preso parte al progetto di cementificazione che ha sfigurato buona parte del volto cittadino. Per non parlare dell’inutile By Pass che presto ferirà il colle principale dell’antica e storica città di Argirocastro, città natale di Enver Hoxha e Ismail Kadarè.
Ma questo è solo un dettaglio nell’insieme di quel disegno schizofrenico che sta deturpando la morfologia dell’Albania. Per comprenderlo meglio bisogna farsi largo nella storia recente e nei legami economici e strategici che hanno interessato l’Albania di questi ultimi decenni.
Un dato indiscusso, imprescindibile da qualunque discorso politico, è la promessa da mantenere agli alleati occidentali (e alla Turchia) di garantire geograficamente l’influenza della Nato e allontanare quella della Russia e dei suoi alleati storici (Serbia e Montenegro, anche se questi ultimo solo nella propaganda). Promessa che gli albanesi stanno scoprendo essere più importante per loro che per i loro alleati. Qualcosa, in questo pericoloso giochetto della “geopolitica” balcanica, non sta funzionando.
Il “Non” della Francia di Macron all’avviamento per i negoziati d’ingresso nell’UE di Albania e Macedonia ha comincianto, lentamente, a riaccendere un sentimento di sfiducia e di disillusione sopito che gli albanesi hanno sempre provato nei confronti di buona parte del mondo, dell’Europa e occidente inclusi. Quel sentimento la cui deriva più estrema è stata il duro regime di autisolamento e bunkerizzazione decennale imposto dal regime di Enver Hoxha, che, con il sostegno sincero di buona parte degli albanesi -sia fuori che dentro l’Albania- ha subordinato gli interessi di carattere socio-economico alle rivendicazioni territoriali (sebbene mai dirette) del Kosovo e degli altri territori a maggioranza albanese della Jugoslavia, costringendo di fatto il paese, sprovvisto di qualunque appoggio internazionale sia ad’Est che ad Ovest, all’isolamento.
Un rifiuto che da un lato potrebbe essere da ispirazione alle fantasie e alle magre aspirazioni dei nostalgici del regime precedente, oppure, molto più prosaicamente, che potrebbe estendere l’influenza del partito democratico di Lulzim Basha, ancora abilmente manovrato dalla sinistra figura di Sali Berisha, il colpevole della strage di stato del 21 gennaio 2011. Colui che, riassumendo in breve, in cambio della promessa del bombardamento della NATO in Jugoslavia nel ’99, progettò, con il supporto della CIA, un tentato colpo di stato e una guerra civile del 1997 che come scopo, presumibilmente, avrebbe dovuto rendere completamente inservibile l’arsenale e la capacità dell’esercito albanese di allora, onde evitare cosí un’entrata diretta dell’Albania in guerra con la Serbia e il Montenegro e l’allargamento della crisi del Kosovo anche nei territori a maggioranza albanese di Montenegro e Macedonia.
Un’abile gesuita Berisha, uno che pur di mantenere intatta la propria influenza e di arrichirsi non non si è fatto scrupoli nemmeno nel vendere le risorse di carburante dell’esercito, smembrato nel 97, alla Serbia di Milosevic durante l’embargo impostole dagli stati NATO. E in tempi più recenti, a prendere fondi russi nell’intenzione di fomentare le proteste contro il governo, come dimostrato anche dal BIRN e forse, come conseguenza più estrema, addirittura una nuova guerra civile. Una guerra, quella del 1997 costata seimila morti, la completa distruzione dello stato minimo e l’inizio dell’esodo di massa.
Il fatto che questo rifiuto – figlio della stessa logica fascista e razzista per cui centinaia di uomini e donne annegano ogni anno nel tentativo di attraversare il canale di Sicilia- sia avvenuto nei confronti di un paese che da sempre ha avuto come punto cardinale la propria attività e partecipazione in senso strategico e militare al “blocco occidentale” dovrebbe essere da lezione agli napoleoni nostrani esperti della geostrategia mondiale e medaglie d’oro alle olimpiadi del Risiko.
TREMA LA TERRA, IL POTERE TRA LE MACERIE
Ed è venuto il terremoto del 2 dicembre 2019 a ricordarci quanto fragili siano le fondamenta su cui è stata costruita la democrazia albanese. Il governo parla di tragedia, l’opposizione cerca di fare man bassa sulle banali strumentalizzazioni politiche e accuse reciproche. Ma è veramente una tragedia quando Tirana solo nel 2018 sono state rilasciate 388 concessioni edilizie (l’80 per cento in più dell’anno precedente) e quest’anno (stima incompleta) 277? Tirana detiene il triste primato di capitale più grigia dei Balcani. Uno degli ultimi spazi verdi, il parco del lago artificiale, è stato concesso in edificazione nel 2016, in barba ai cittadini che si erano opposti ai quali Edi Rama e il suo caudatario Erion Veliaj hanno riservato le cariche e la repressione.
Le contromisure fino ad adesso si sono limitate all’evacuazione. Nessuno, nemmeno dall’opposizione (figuriamoci, dovrebbero assumersi delle grosse responsabilità), si è degnato di criticare la politica edificazione selvaggia che ha segnato la Tirana degli ultimi decenni. Edi Rama intanto continua con le sue spacconate, stavolta dirette anche alle vittime del terremoto che si sono ribellate alla sua passerella elettorale e alla sua commiserazione da due lek. Resterà da vedere nei prossimi anni quanta merda e quante sozzerie emergeranno dai progetti per la ricostruzione a dall’assegnazione degli appalti per la ricostruzione. Gli oligarchi nel frattempo già si sfregano le mani e preparano le mazzette. Una storia già vista, come anche in Abruzzo, in Emilia e ad’Amatrice. Intanto Edi Rama, in preda ad una delle sue solite visioni deliranti, si è già lasciato andare nel dire che affiderà i lavori di ricostruzione a degli specialisti provenienti dalla diaspora, a riprova di quanto sia importante continuare ad alimentarne il mito e la realtà.
La politica locale si deve occupare solo di fornire i mezzi per mandarvi fuori dai coglioni. Come sempre. Ma ancora, il governo risponde con la criminalizzazione anche di coloro che manifestano la loro preoccupazione. È il caso di una cittadina di Durazzo che aveva espresso preoccupazione per il danneggiamento di un impianto di depurazione nei dintorni del porto, che sarebbe stata seguita da una presunta leggera perdita. La cittadina in questione è stata arrestata il giorno successivo per aver espresso su Facebook la propria preoccupazione e accusata di procurato allarme. Ma non è l’unico caso, questi ultimi tempi molti giornalisti che si sono opposti al governo e che si sono permessi di levare critiche nei confronti delle carenze del soccorso hanno subito minacce e in alcuni casi ritorsioni. Ci sono stati addirittura casi di minaccia a giornalisti stranieri.
L’informazione resta profondamente legata agli interessi dell’oligarchia o del governo, come nel caso dell’oligarca Samir Mane, di cui parleremo a breve.
SCIOPERO ALLA MINIERA DI BULQIZA
Che qualcosa stesse per cambiare lo si era già intuito dalle manifestazioni studentesche partite da Tirana lo scorso anno. Sembrava incredibile che un qualche movimento, almeno in partenza e per buona parte della sua esistenza, si fosse svincolato dal controllo dell’opposizione. Sembrava essere impossibile che, in un paese così corrotto, in cui si pensava inimmaginabile un presenza di piazza non riconducibile ai partiti dell’opposizione potesse prendere forma un’opposizione del genere e che questa riuscisse, per buona parte della sua esistenza a respingere le avance della destra. In Albania basta qualche decina di euro per portare una persona in piazza, ma questa volta chi c’ha provato ha dovuto fare i conti con il rifiuto e lo sdegno di una buona parte della piazza. O almeno fino a febbraio, quando le proteste erano ancora guidate dagli studenti. Poi l’opposizione in piazza c’è arrivata lo stesso, ma non grazie agli studenti.
Ma qualcuno non ha voluto dimenticare la lezione di quegli studenti e ad averla fatto propria sono stati i minatori di Bulqiza. In questa città dell’Albania centrale ci sono tra i più ricchi giacimenti di cromo dei Balcani. Bulqiza è anche detta, dai suoi abitanti “la città della morte”, perchè tra incidenti in miniera (ci sono periodi in cui si arriva a registrare quasi un morto a settimana) e malattie legate all’estrazione mineraria, sono una minoranza gli abitanti di Bulqiza (in gran parte impegnati nelle attività di scavo) a poter vantare una buona longevità. A fine novembre era stato fondato un sindacato di base autonomo: il Sindacato dei Minatori Uniti di Bulqiza. Qualche cittadino all’inizio ironizzava su come la parola “sindacato” qua in’Albania sia considerata come una parola straniera e il concetto qualcosa di incomprensibile ai molti, e a buon ragione lo diceva se prendeva in considerazione solo la storia dei sindacati gialli esistiti fino ad allora. Tanto che ci fossero o no era come se non esistessero, che farsene allora di una parola in più nel vocabolario, esistono già i gruppi di pressione, le associazioni, i partiti politici e le loro clientele.
A Bulqiza, era il Partito Socialista a stabilire quando bisognasse scendere in piazza e quando e come i sindacati dovessero agire, e questo quasi sempre in concomitanza con le scadenze elettorali. Qualcosa però è andato storto: dopo una sorprendente contestazione nei confronti della passerella propagandistica di un leader sindacale del partito socialista, ha preso forma il nuovo sindacato dei Minatori Uniti che si è assunto la responsabilità della contestazione e ha lanciato nuove rivendicazione contro il corporativismo dilagante e le condizioni di lavoro da antico Egitto. I padroni chiaramente non sono rimasti a guardare e, in fretta e furia, dopo solo cinque giorni dalla fondazione del sindacato, hanno dato il benservito ad Elon Debreshi, il fondatore del nuovo sindacato. La motivazione? “Trasgressione nei confronti delle norme che regolano la disciplina lavorativa”. A quanto pare il provvedimento sarebbe stato preso in relazione ad un fatto di scarsa importanza avvenuto molti mesi prima. Fatto di cui però sono ricordati solo quando Elon è stato eletto segretario del sindacato. Nei giorni successivi si sono aggiunti altri licenziamenti di compagni del sindacato e sono cominciate le minacce telefoniche, come le procedure penali che hanno coinvolto altri tre compagni oltre ad Elon: Beqir Duric, Behar Gjimi e Neki Lica. La minacce e i provvedimenti, che ricordiamo essere fuori legge dal momento che il diritto di attività sindacale è sancito costituzionalmente, hanno però avuto come effetto quello di favorire l’ingrandimento della mobilitazione.
IL PASCIÀ SAMIR MANE
Samir Mane non è padrone solo dell’Albchrome, l’azienda che possiede e gestisce le miniera di Bulqiza. Samir Mane è forse la persona più potente ed influente di tutto il paese. Samir Mane è l’oligarca numero 1, quello che ha la prima e l’ultima parola su quale direzione debba assumere l’economia albanese. Già proprietario dell’EuroMax, prima catena di supermercati albanesi, ora rappresentante della filiala albanese del gruppo di supermecati SPAR e presidente del CEO della holding “Balfin Group” che possiede l’Albchrome, la Banca di Tirana, lo Skopje city Mall, la QTU e il TEG (i più grandi supermercati d’Albania), buona parte delle imprese edili di Tirana e addirittura una porzione di spiaggia sull’Adriatico in cui avrebbe fatto costruire diversi resort ultra lussuosi. Samir Mane siede nei consigli d’amministrazione di parte delle compagnie più importanti dell’Europa sud-orientale. I suo contatti si estendono dall’Albania alla Macedonia, passando per il Kosovo e poi in Serbia e Montenegro.
Com’è possibile che uno che si occupava nel 1993 di contrabbando di aspirapolveri dall’Austria sia riuscito a crearsi un successo così grande? Come e che ruolo devono aver avuto le grandi privatizzazioni degli anni ’90 nella sua ascesa? Purtroppo a causa della totale assenza di un vero giornalismo d’inchiesta durante quegli anni che potesse documentare i suoi trascorsi, non si saprà mai chi abbia dovuto ringraziare Samir Pascià per poter essere diventato quasi più potente di Enver Hoxha. Possiamo intuire come abbia fatto però, e niente meglio dei volti cupi e delle mani callose dei minatori di Bulqiza può spiegarcelo. I salari dei minatori sono fermi dal 2011, scatti inclusi (che in’Albania come per il sindacato restano un vocabolo straniero), i profitti di Samir Pascià sono cresciuti vertiginosamente mentre i suoi operai si sono impoveriti sempre di più, strozzati dal caro-prezzi e dall’inflazione. Alcuni di questi, pur di guadagnare qualche spicciolino in più, arrivano perfino a sacrificare le proprie vacanze per andare in Grecia a raccogliere le olive e poi tornare in miniera.
Ma per i giornalisti albanesi Pascià Samir resta un personaggio ineffabile. Tutti sanno chi è, qualcuno sa anche come ha fatto, ma nessun osa pronunciare il suo nome invano o per accusarlo pubblicamente. L’immagine pubblica di Samir Pascià è cosi protetta che qualunque sia la direzione in cui operi resta sempre punto cardinale del sistema Albania e in genere delle società balcaniche post comuniste. Delle quali lui, nel suo parvenutismo è il rappresentante più indegno. Un’uomo così arrogante che quando va al mare e deve attraversare una duna di sabbia, chiede ai suoi uomini di spalarla.
Samir Mane è uno schiavista, è un manipolatore, è un bugiardo, un criminale e forse anche un mafioso. Ha costruito un castello dei sogni e l’ha promesso ad un intero popolo che poi con l’inganno ha fatto rinchiudere in una miniera. Aiutateci a distruggere il suo castello dei sogni.
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