Asia: instantanee da un continente in tensione
La situazione più dura e foriera di possibili sconvolgimenti nel quadrante è sicuramente lo scontro tra Cina e Giappone: scontro che si innesta, a livello tattico, su quella che è la battaglia per il possesso delle isole Senkaku/Diayou e delle loro risorse energetiche, ma che guarda a livello strategico alla competizione sull’Asia-Pacifico. E proprio per questo suscita le attenzioni degli Stati Uniti, che cercano infatti di chiudere il più possibile scenari di incertezza in Medio Oriente (vedi recente accordo con Iran e pressing di Kerry su Israele/Palestina) per poi potersi muovere alla volta delle partite che li attendono nel Pacifico.
Le schermaglie si sono intensificate recentemente, con la Cina che ha creato una zona di controllo aerospaziale sulle isole contestate, rivendicandone le sovranità. A questa mossa il Giappone ha risposto con il non-riconoscimento del provvedimento e allo stesso tempo, in maniera simbolica ma non troppo, con la mossa del premier Abe di andare a visitare il mausoleo di Yasukuni dove sono tumulati i corpi di decine di criminali di guerra giapponesi del XX secolo.
Una mossa provocatoria che però è di fatto una strizzata d’occhio di Abe alla sua base elettorale di riferimento, affinchè questa possa appoggiarne i suoi piani di uscita dalla Costituzione post Guerra Mondiale che vieta la ricostituzione di un esercito giapponese di offesa. Una mossa mirata, e appoggiata dagli USA, per poter fare del Giappone un competitor anche sul piano militare della Cina, di fatto diventando un proxy degli USA nell’Asia-Pacifico.
Nello scenario appena descritto è importante anche il ruolo che sta giocando il Vietnam, anch’esso intenzionato ad ottenere la sua quota della torta e che proprio per questo motivo, inadatto a competere militarmente con la Cina, sta cercando tramite la vendita di alcuni suoi avamposti (come basi di estrazione di petrolio off-shore) nella zona a potenze come l’India, di internazionalizzare il conflitto, rendendolo cosi però ancora più problematico data la proliferazione di attori e quindi interessi in contraddizione.
Ma se forti sono le tensioni a livello interstatale, non meno importanti sono che si stanno sviluppando tra governanti e governati in tutta l’area. A partire dalla Corea del Sud, dove all’indignazione popolare per la visita di Abe al mausoleo di cui sopra, la paura per l’aggressività cinese e la mai sopita minaccia nord-coreana, si è aggiunto a sconvolgere il quadro politico lo sciopero di più di tre settimane contro la privatizzazione delle ferrovie voluto dal governo chiamato dalla centrale sindacale Kctu. Sciopero che ha portato in piazza fino 100.000 persone il 28 dicembre scorso, a chiedere non solo lo stop alla privatizzazione, ma anche le dimissioni del governo di Park Guen Hye, figlia di un ex dittatore sudcoreano (Park Chung Hee) e chiamata già “La Thatcher di Seul” per la sua propensione alla privatizzazione selvaggia e al disprezzo della volontà popolare.
Anche in Malesia si sono svolte diverse mobilitazioni, con la popolazione che è scesa in piazza contro gli aumenti dei prezzi delle materie prime, sollecitata dall’azione della piattaforma “Studenti contro il Caro-vita” nata nel mondo della formazione locale: al grido di “Turun!” (Via!) l’aumento del costo della vita è stato direttamente collegato al malgoverno del paese e alle politiche di austerity che il governo di Kuala Lumpur sta portando avanti negli ultimi mesi.
Più di venti morti si sono registrati invece in Bangladesh, già scosso da mesi e mesi di lotta sul salario degli operai e delle operaie che lavorano nelle fabbriche del tessile, che ha visto un nuovo innalzamento della tensione politica durante le recenti giornate di campagna elettorale. Il Bangladesh è uno stato che ha visto dal 1971 più di 20 colpi di Stato succedersi al suo interno, e che ha appena assistito ad un appuntamento elettorale contestatissimo, con il paese diviso da uno scontro politico tra l’Awami League filo-indiano e il BNP filo-pakistano che ha disertato le urne, con il primo che ha fortemente represso il tentativo del secondo di boicottare le elezioni (ritenute dall’esito già scritto grazie all’uso di intimidazioni poliziesche a catena effettuate dall’AL negli scorsi mesi soprattutto nella capitale Dacca). Ne sono derivati giorni di violento scontro tra polizia e manifestanti vicini al BNP, che hanno portato a 24 morti.
La tensione politica è esplosa anche in questi giorni in Thailandia, con nuovi violenti scontri sotto il Parlamento. Scontri che hanno portato a diversi morti tra i manifestanti, che vogliono le dimissioni della premier Shinawatra e il rinvio delle elezioni di febbraio. Elezioni alle quali vorrebbero sostituire un periodo di transizione istituzionale, da realizzarsi attraverso la caduta del governo per mano dell’esercito, attore da sempre centrale in Thailandia, dove ha messo a segno 18 colpi di Stato negli ultimi 80 anni. Da anni la Thailandia, seconda potenza del sud-est asiatico, vive una polarizzazione politica fortissima tra i sostenitori e i detrattori della famiglia Shinawatra, con l’attuale premier (sorella del tycoon Thaksin già a sua volta presidente del paese) appoggiata dalla popolazione rurali e dalle fasce meno istruite del paese, e i manifestanti appoggiati principalmente dalle masse popolari urbane ma anche dalla borghesia filomonarchica. In attesa delle mosse dell’esercito, questi ultimi hanno annunciato l’intenzione di bloccare le attività del governo settimana prossima, a colpi di blocchi stradali e manifestazioni di piazza.
Anche in Cambogia manifestazioni, dove però si è registrata l’unione tra i lavoratori del settore tessile anche qui in lotta per aumenti salariali, e i manifestanti antigovernativi del principale partito d’opposizione. Le proteste hanno portato, dopo diverse giorni di duri blocchi della circolazione e della produzione, a una forte repressione del governo che ha lasciato quattro morti e diversi feriti dietro di sé. Il partito d’opposizione CNRP infatti ha appoggiato, dovendo adagiarsi sulla radicalità delle proteste, le richieste dei lavoratori di aumentare il salario minimo da 95 ad almeno 160 dollari, con il premier Hun Sen (rieletto di misura a luglio in un’elezione contestata per brogli) sordo invece nei confronti di questa prospettiva.
Il 25 dicembre scorso la polizia si è dovuta schierare proprio di fronte alla casa del presidente per evitare che venisse assaltata dalla folla, che i lavoratori entrassero ne e ha poi dovuto impedire diverse volte che la folla raggiungesse la Zona Economica Speciale di Phnom Penh dove gli scioperanti volevano entrare per comunicare ai lavoratori non ancora in mobilitazione le loro ragioni. Negli scorsi mesi gli scioperi selvaggi dei lavoratori del tessile, (che hanno avuto anche l’appoggio di Anonymous), hanno creato grandi danni alle aziende del settore, e di fatto all’economia cambogiana nella sua totalità. Un’economia in rapida crescita quella della Cambogia, dove si sono riprodotte quelle condizioni di lavoro schiavistico da fabbriche export-oriented che non sono norma solamente nel più famoso caso cinese.
La situazione politica è quindi in grande agitazione, in quello che è unanimemente riconosciuto uno degli scacchieri più importanti, sotto vari aspetti, nel definire i nuovi equilibri globali. Come Infoaut continueremo a seguire gli sconvolgimenti politici della regione, consci che sia lo scontro geopolitico, sia quello sulla gestione dei territori (quello della sostenibilità ambientale è un altro dei decisivi campi di battaglia in gioco nel prossimo futuro) sia quello, durissimo, tra capitale e lavoro che si verificano a quelle latitudini sono sempre più zeppi di ripercussioni anche nei nostri scenari.
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