Bronx, USA, Mondo. Relazione dell’incontro col Bronx Social Center
Riportiamo la relazione tenuta dal Bronx Social Center nei due incontri italiani svoltisi a Bologna e Firenze nelle scorse settimane, dove si spazia dalla storia di Black Lives Matter alle geografie urbane e sociali statunitensi, passando per una analisi del fenomeno-Trump a svariate riflessioni sulla cultura e sul contesto politico nord-americano.
Partiamo dalla nostra provenienza: facciamo parte del Bronx Social Center, esperienza di lotta nel quartiere newyorchese del Bronx. Questa storia nasce grazie agli sforzi del gruppo Take Back the Bronx, nato a sua volta sull’onda lunga del movimento di Occupy Wall Street. Vorrei parlare oggi del momento politico statunitense, in particolare per quanto riguarda Black Lives Matter e l’elezione di Trump. L’inizio ufficiale di Black Lives Matter coincide con l’omicidio poliziesco di Trayvon Martin in Florida. Lui, come tanti altri caduti prima e dopo di lui, era solo un ragazzino nero di 17 anni che stava girando per strada, in città, dove era giunto per trovare la propria famiglia. Mentre usciva da un negozio dove aveva comprato un drink, viene fermato da un uomo del locale Neighborhood Watch. Questi sono gruppi di cittadini che lavorano in tandem con la polizia nella difesa e nella messa in sicurezza dei quartieri, operando soprattutto nelle gated communities, ovvero in quelle aree di città dove la popolazione di middle e upper class, spaventata da tutto e tutti, si rinchiude in sé stessa. Sono grandi fan della polizia e girano armati per i quartieri, come la legislazione americana rende possibile. Ad ogni modo l’uomo, nonostante avesse prima ricevuto il divieto della polizia ad intervenire (aveva chiamato il 911 per segnalare la presenza di Trayvon), ha ben pensato di affrontare il ragazzino e di sparargli. L’uomo in seguito non è stato né accusato né processato per alcunché rispetto a quanto fatto, e questo ha portato a proteste in molte città americane, New York compresa. Per quanto né il “brand” ne l’organizzazione vera e propria esistessero allora, questa vicenda è identificata come quella che fece decollare quello che divenne poi Black Lives Matter. Dopo le proteste, l’uomo viene sì accusato, per quanto di reati molto minori in termini di rilevanza penale, ma poi venne assolto scatenando una nuova ondata di proteste.
La storia però va avanti. Nove mesi dopo un altro ragazzo nero minorenne, sempre in Florida, viene ucciso da un uomo bianco che lo fredda a una pompa di benzina. Il motivo dell’attrito tra i due era la musica troppo alta del ragazzo in macchina, e la reazione dell’assassino è stata sparare sette colpi contro la macchina uccidendo il ragazzo. All’uomo viene dato l’ergastolo, ma rimane la sensazione diffusa della mancanza di ogni protezione per la popolazione nera. Un anno dopo, una donna a Detroit ebbe un incidente stradale: si salva e cerca aiuto bussando a una casa vicina. L’uomo che le apre vede che è nera e per reazione decide di spararle. Ancora, otto mesi dopo a NY, viene ucciso Eric Garner, questa volta da parte della polizia. Il ragazzo però stavolta aveva una telecamera in mano e durante la sua agonia, ripresa dalla sua telecamera, ha ripetuto undici volte “I can’t breathe!”, ovvero “Non riesco a respirare!”. L’assassino è stato accusato di omicidio, ma nulla si mosse in città. Ovviamente, il procedimento giudiziario procedette sin dall’inizio molto a rilento, i media si dimenticarono velocemente dei fatti, mentre solo alcuni rapper alzarono la voce, sottolineando come la reazione di New York fosse stata davvero debole, incapace di reagire all’ennesimo omicidio. Tre settimane dopo ci fu l’omicidio di Mike Brown a Ferguson. Questo ennesimo assassinio portò stavolta a una dura reazione, che coinvolse più di sessanta città in una dura escalation di radicalizzazione della protesta. Il movimento prese subito di mira le autostrade e le principali arterie delle città, bloccandole e innalzando fortemente la tensione nel paese. La tattica del blocco venne adottata anche a New York, con ponti e tunnel bloccati dai manifestanti provocando l’effettivo inceppamento della città, un qualcosa di piuttosto inedito.
La questione che allora ci ponevamo era: perché proprio a Ferguson si era creata la scintilla, e non in qualche grande città? Se si guarda ai dati demografici, forse si trova la risposta. A Ferguson la popolazione povera viene sempre più spinta in periferia; se negli anni 70 il novantanove per cento della popolazione era bianca, via via la proporzione si inverte fino a che nei primi Duemila la percentuale si ribalta per la prima volta e ai tempi dell’omicidio di Mike Brown la quota dei neri sul totale arriva al 64%. Il tasso di disoccupazione era del 13% a livello nazionale, ma il 25% della popolazione a Ferguson viveva sotto la soglia di povertà. Di questo 25%, il 44% era ben sotto la soglia di povertà, a livelli di indigenza quasi estremi. Nel 2012 ogni quartiere di Ferguson aveva un tasso di povertà ben più alto rispetto alla media nazionale. La popolazione suburbana, su scala nazionale, vedeva circa il 20% della sua popolazione essere in stato di povertà. Insomma, queste statistiche fanno capire la profonda divisione tra mondo urbano e mondo rurale negli Stati Uniti, cosi come la grande divisione tra aree costiere del paese e tutto il resto del paese. Questa fotografia è decisiva per capire l’elezione di Trump. Tornando a Ferguson, questo è uno dei maggiori sobborghi neri dell’area suburbana di St.Louis, la cui popolazione arriva per la maggiore parte dalle migrazioni da un altra città dell’area suburbana di St.Louis a maggioranza nera, Kinloch. Kinloch è sempre stata una città segregata, tra il nord per i bianchi e il sud per i neri. A metà degli anni Trenta ci fu addirittura un referendum dove la parte bianca votò per separarsi legalmente dalla parte nera, a causa della volontà delle istituzioni di eliminare la segregazione razziale nelle scuole che impediva a bianchi e neri di andare nelle stesse classi. Fino agli anni Ottanta, la città di Kinloch rimase quindi completamente abitata da neri. In quel periodo, le autorità decisero di creare un aeroporto nelle aree popolate dai neri, espellendo da Kinloch circa il 75% della sua popolazione. I neri si diressero in massa verso Ferguson, che divenne progressivamente sempre più black nel frattempo che si verificava un profondo fenomeno di “white flight” (un processo di fuga di massa della popolazione bianca dai centri cittadini via via che questi diventano sempre più popolati da neri, ndt). Il centro di Ferguson divenne così in percentuale sempre più abitato dalla popolazione nera, dato che i bianchi fuggivano verso le zone più ricche e benestanti, cosi come le industrie, aumentando il tasso di povertà del centro cittadino.
Sono dinamiche come queste che, in uno sguardo generale, hanno fatto aumentare la povertà nelle aree suburbane americane. Dopo la grande migrazione dall’Europa agli Usa di fine Ottocento infatti, la più grande migrazione che ha coinvolto gli Usa è stata quella dei neri nei centri urbani, da cui parallelamente si è sviluppata la dinamica dei “white flight”. Negli anni Settanta soprattutto, circa 6 milioni di neri andarono a vivere nelle aree urbane principali del paese, impoverendone profondamente alcune aree dato che i bianchi ricchi fuggivano. Sono le stesse aree che poi dai primi anni Duemila divennero oggetto di recupero e di meccanismi di gentrification, con i bianchi che ritornarono nelle città approfittando dei prezzi bassi e invertendo la dinamica del “white flight”. Ora sono i neri che ritornano nei sobborghi mentre i bianchi si riprendono il centro. Si assiste ad un cambio di popolazione, che si può vedere per esempio in aree come quella della Rust Belt, in città come Chicago. Non a caso, è proprio in questa zona che si è avuto il maggior numero di supporter elettorali di Trump.
Sarebbe facile dire che chi ha votato Trump è automaticamente un razzista, per averne tollerato la retorica. Molti ovviamente lo sono, gli USA sono un paese profondamente razzista, ma crediammo ci sia una vera ragione economica dietro il successo di Trump. Se guardate ai luoghi deindustrializzati della Rust Belt, c’è una perdita enorme di posti di lavoro, cosi come accade anche in Virginia in merito ad esempio all’industria del carbone, che ha supportato Trump. In queste aree, cosi come nelle aree rurali, il diffondersi del neoliberismo ha distrutto il poco di welfare state esistente. Non che a NY non ci sia povertà, ma essendo il centro finanziario del paese esistono dei livelli di sostegno, anche portati da ong, che non ci sono altrove, dove la situazione è davvero problematica. Bisogna quindi smettere di farsi un’idea dell’America solo in relazione alla costa est e alle sue città, ma bisogna guardare al resto del paese, alle situazioni di forte povertà e tensioni sociali come quella di Ferguson. E’ per questa ragione che l’esplosione del 2014 è accaduta a Ferguson, e non in altre parti del paese.
C’è da ricordare che una parte dell’elettorato di Trump nelle precedenti elezioni aveva votato per Obama, e questo rende la percezione della frattura che si è acuita verso l’establishment liberale in questi anni. Si può sostenere quindi che ci sia stato un generale impoverimento che ha caratterizzato il campo dell’opinione pubblica tale da portare all’inizio della campagna elettorale a venire attratti da Trump o Sanders – candidato populista di sinistra dei Dem – in un processo progressivo di polarizzazione. Guardando alle agende politiche sostenute dalle presidenze da Reagan a Obama, si può dire che tutte hanno perseguito lo stesso tipo di agenda neoliberale. Hanno spalleggiato tutti Wall Street, hanno dato impulso alla shock economy, credendo alla teoria economica del trickle-down (effetto sgocciolamento), portando a riforme che vediamo come non abbiano funzionato.
In qualche modo la vittoria di Trump è sicuramente contro i demeriti del Partito Democratico, a partire dalla scelta di Hillary Clinton come proprio candidato che non ha dato nessun segno di discontinuità rispetto al passato, rispetto ai vari Bush, Obama ecc, e in questo contesto molte persone hanno preferito in qualche modo optare per un cambiamento. E così, per quanto Sanders fosse un candidato di stampo neoliberale, è stato interessante che grazie a lui si sia cominciato a parlare a livello veramente ampio delle disuguaglianze economiche. Questo è il background con le ragioni primarie per le quali ha vinto Trump, in cui anche le persone storicamente di “sinistra” in America hanno totalmente ignorato la classe operaia di pelle bianca.
Appunto, come dicevo prima, è proprio questa grossa parte centrale degli Stati Uniti, che si ritrova senza lavoro, garanzie sociali e welfare-state, in cui i figli e le famiglie stanno peggio dei loro genitori, ad essere il grande rimosso della sinistra. In più, il discorso politico americano di sinistra ha dimenticato di parlare delle condizioni della classe negli ultimi decenni, ritenendo importante solo quello centrato sulla razza. Ora, penso che i settori sociali della classe bianca impoverita stiano guardando all’Alt-Right, l’estrema destra, perché sono gli unici che in qualche modo parlano a loro, altrimenti isolati e dimenticati. E credo che ciò sia in gran parte colpa della sinistra che in tutti gli Stati Uniti parla di “identity politics” (*https://plato.stanford.edu/entries/identity-politics/). Su questa c’è un grosso dibattito negli States che essenzialmente si centra sul fare una politica che pone in primo piano la questione di razza, genere e di affermazione della propria identità dimenticando il discorso di classe.
Immaginiamo di ritrovarci in questa situazione, da poveri, nelle aree meno urbanizzate del centro degli USA, senza alcun accesso a forme di welfare-state che invece esistono a Boston, NY e gli altri grandi agglomerati metropolitani, dove ha consenso la sinistra liberal che guarda con distacco le altre aree marginali. I liberal di sinistra credono nel fatto che, essendo certe persone di pelle bianca, siano già privilegiate rispetto ad altre fasce di popolazione; di conseguenza, è abbastanza normale il rifiuto degli operai “bianchi” verso un certo snobismo di sinistra.
C’è da considerare inoltre che storicamente la classe operaia bianca e quella nera sono sempre state distaccate; ciò in parte per colpa del razzismo implicito della classe operaia bianca dovuto a come è stata costruita la storia statunitense, ma soprattutto colpa della sinistra che non ha operato come avrebbe dovuto, cioè ricostruendo una politica di classe multirazziale all’interno degli Stati Uniti.
[DIBATTITO]
D: Domanda secca su Obama e la sua eredità politica. In che modo anche la disillusione dopo il suo mandato da parte dei neri e in generale delle “minoranze” che avevano avuto un ruolo determinante nella sua elezione ha condotto all’elezione di Trump?
Il mandato di Obama ha dimostrato quanto poco consistente siano le elezioni in termini di cambiamenti concreti. Nonostante ciò la comunità nera continua a sostenere Obama, seppure questo non abbia fatto nulla di ciò che gli era stato chiesto, come firmare leggi per aumentare il controllo sull’operato della polizia americana. Tutto ciò è comunque comprensibile, perché per la comunità votare un presidente dalla pelle nera ha rappresentato, almeno a livello simbolico, una rottura veramente significativa. C’è in qualche modo la convinzione negli States che il suo mandato sia stato sabotato perché di pelle nera, appunto. Un’altra convinzione è quella che Clinton abbia perso in quanto negli States ci sia un sentimento patriarcale e anti-femminista fortissimo, il che non è vero: il sentimento partriarcale c’è, ma Clinton è stata rifiutata in quanto vista come un’espressione diretta delle volontà di Washington e di Wall Street. Sono convinta che se Sanders fosse stata un donna avrebbe vinto. Sono convinta anche che la Clinton sia stata frenata per la sua storia “di palazzo”; in tutto ciò, la comunità nera ha votato in massa per lei. C’è questo modo di dire che quando Bill Clinton era presidente negli anni ’90, era definito il primo presidente nero degli stati Uniti, questo perché era originario di una famiglia del Sud e suonava il sassofono (strumento originale del repertorio culturale black). Anche per questo motivo la comunità nera ha votato Hillary Clinton in massa, perché legata alla visione del marito. L’identity-politics genera anche queste anomalie.
Nel frattempo, si può dire che la Clinton sia stata votata in quanto donna da segmenti dell’elettorato femminile di pelle bianca: si parla di “femminismo mainstream” ovviamente. La stessa Clinton per le elezioni ha utilizzato nei suoi discorsi la terminologia propria dell’identity-politics, per cui una donna ricca, bianca, sempre ai livelli alti della politica, e che ha bombardato mezzo mondo, si poteva invece permettere nel suo discorso pubblico di usare la retorica dei privilegi; in questo senso, l’identity-politics crea una scala di valori per la quale appunto, il bianco è privilegiato rispetto al nero, i maschi rispetto alle donne, elidendo qualsiasi considerazione in termini di classe, come detto poc’anzi.
La maggior parte delle persone pensa che Trump abbia vinto più che altro perché la candidatura di Hillary Clinton è stata considerata irricevibile. Non c’è stato il caso, come per Bush negli anni 2000 in Florida, un discorso legato a brogli elettorali.
La popolazione media non è – son convinta – consapevole di quanto stia accadendo realmente rispetto alla questione del conflitto con la Corea del Nord. Più che altro c’è una componente non maggioritaria, ma significativa, che sta guardando a una possibile guerra civile interna più che a una escalation esterna. E’ una possibilità a cui ad ora non crediamo. Non abbiamo mai avuto effettivamente esperienze di guerra interna, non ci sono mai stati bombardamenti e distruzioni nel nostro territorio; ne deriva che in realtà la guerra sia vista come qualcosa di lontano, che non tocca le persone e che non le riguarda direttamente. Non a caso ho letto di recente un articolo sul “New York” che dice che le persone non capiscono quanto questa escalation con il Nord Corea stia producendo un clima di guerra.
Domanda: Tu hai parlato di rapporto tra bianchi e neri. Cosa pensi, cosa senti rispetto al rapporto che c’è oggi tra giovani ragazzi neri e giovani ragazzi bianchi? Stanno sviluppando un senso comune, stanno combattendo, quali sono le caratteristiche della nuova generazione, dei giovani?
Risposta: Se guardate a cosa sta accadendo negli USA con l’alt-right come ad esempio a Berkeley in California con la loro marcia nel campus universitario, abbiamo visto giovani uomini bianchi armati di torce e che intonavano slogan nazisti: penso che ciò stia davvero esprimendo il divario negli Stati Uniti, e che si stia espandendo. Non vedo la capacità dei giovani bianchi e neri di unirsi – perché lo ribadisco, non abbiamo avuto storicamente politiche di classe forti. Dovete anche considerare che gli Stati Uniti sono una società altamente segregata e lo sono stati scientemente. Anche in città come New York, che sono molto diversificate, c’è segregazione. Ci sono quartieri in cui vive esclusivamente ogni etnia, ogni gruppo. In tal modo non si integrano, e i giovani ragazzi neri e bianchi non hanno nemmeno l’opportunità di incontrarsi.
Una differenza che ho notato tra qui [in Europa], almeno nel Regno Unito, e là: ho trovato che negli Stati Uniti anche i bianchi poveri e le persone povere di colore non vivono negli stessi quartieri. Si, le abitazioni dei bianchi sono più ubicate nelle aree rurali o appena fuori dalle città e le abitazioni dei neri e degli immigrati si trovano più all’interno delle città. Ma ciò che ritengo essere più interessante di questo momento di suburbanizzazione della povertà, di gentrification, è che le persone stiano venendo spinte fuori dai centri urbani e non abbiano altra scelta che lasciare le aree urbane, come ad esempio a New York. Ci sono interi quartieri che sono stati depopolati. Quindi, alcune persone di questi quartieri si stanno muovendo verso altre aree di New York non ancora gentrificate – ma alcuni di loro stanno anche lasciando del tutto New York, dirigendosi verso queste aree rurali al di fuori
della città, e nelle aree suburbane [popolate dai bianchi]. Perciò è la prima volta che stiamo assistendo a questo tipo di “integrazione dei poveri”.
D: Che differenze ci sono tra il vostro ed il nostro modo di agire nel sociale [per quanto avete potuto vedere]?
R: Per cominciare, non ci sono molti centri sociali negli USA, ed a New York in particolare. Penso che in tutta la città ve ne siano forse tre che siano in qualche modo caratterizzati politicamente. Molti spazi di comunità sono gestiti dallo stato o da associazioni no profit, quindi non sono spazi realmente politici, sono più orientati ai servizi sociali. Noi siamo l’unico centro sociale nel Bronx, ed il Bronx è enorme. E’ un quartiere davvero grande e molto popolato, un milione e mezzo di persone! Ma è molto difficile coinvolgere le persone. Quindi ci sono altre persone che si identificano nella sinistra che vengono agli eventi e partecipano, ma è complicato aggregare la gente del nostro quartiere. Non ne so molto riguardo a come si diano gli spazi politici e la politica qui, ma immagino che [negli Stati Uniti] vi sia un’idea molto romantica degli spazi politici nel sud Europa perché storicamente pensiamo al movimento anarchico in Spagna o a quello autonomo in Italia o anche in Grecia…abbiamo quest’idea che interi quartieri siano comunisti, e che vi siano comunisti che dilaghino ovunque! Ma non so se effettivamente sia così (ride). Negli Stati Uniti percepiamo a sprazzi cosa stia accadendo in altri posti, così penso che molti di noi percepiscano un’Europa romanticizzata. E ci diciamo tra noi: “Che bello sarebbe avere qui un movimento come ne hanno in Europa!” Ma non sappiamo se avete effettivamente il movimento che noi pensiamo abbiate!
D: Di recente vi è stata negli USA un’ondata di distruzione di monumenti politicamente motivata, come quelle del Generale Lee (legato al sud segregazionista) e di Cristoforo Colombo (figura avversata da alcune minoranze per il ruolo ed il portato coloniale che ha assunto la sua figura) – una pratica originatasi negli atenei del Sudafrica in protesta contro l’innalzamento delle tasse universitarie ed il passato coloniale incarnato da Cecil Rhodes. Si può collegare questo processo al post-Black Lives Matter? E’ diretto politicamente da alcune parti del movimento (in termini di proposta come pratica) o si è dato in forma spontanea? Come e in che momento si è dato?
T: Si, questo fenomeno è stato effettivamente diretto da gruppi politicizzati, nei campus ed al di fuori di essi. Non so se sia qualcosa di “ufficialmente” organico al Black Lives Matter, ma conosco personalmente dei soggetti che hanno preso parte alla distruzione delle statue.
D: Quindi è più una conseguenza di Black Lives Matter, qualcosa che le persone hanno visto fare in altre parti del mondo o un approccio verso una memoria storica da rovesciare?
T: Non so se tante persone concepiscano di essere parte di una memoria storica, anche se questo concetto esiste negli Stati Uniti. Penso che faccia parte di questo contesto di decolonizzazione: negli USA, appena prima del movimento Occupy ma davvero intensificandosi durante esso, c’era un sotto-movimento che parlava appunto di decolonizzazione. Durante Occupy ha preso davvero piede l’idea di rottura con la cultura mainstream dell’America bianca. Penso che la distruzione delle statue
provenga da quell’idea, dal rifiuto delle idee americane bianche ed eurocentriche, dalle nozioni WASP [maschio bianco, anglosassone e protestante] ed eurocentriche di cosa significhi essere americano, di quale storia importi. Insomma di qualcosa più concentrato sull’aspetto culturale, e penso che sia da ricercare lì la genesi [di questa pratica]. Anche perché, e qui se ne sa molto poco, tutte le festività nazionali americane hanno uno sfondo estremamente legato alla storia della colonizzazione. Non solo a Colombo, ma anche ad esempio nella tradizione del Giorno del Ringraziamento – in cui in tutte le cucine americane si cucinano i tacchini, e che nasce dal dono da parte della popolazione indigena di questi animali ai primi coloni olandesi che stavano morendo di fame.
D: Trovo molto interessante la linea di continuità tra il vostro centro sociale, con il movimento Occupy. Puoi dire qualcosa in più rispetto alle pratiche ed al tipo di lavoro che effettuate lì? Ci puoi anche dire qualcosa su come dal Bronx, quartiere povero del nord di New York, sia stato percepito Occupy Wall Street, un movimento sviluppatosi nel cuore finanziario a sud di Manhattan – e agito inizialmente dalla popolazione bianca e studentesca?
R: Inizierò con una rapida panoramica su quanto facciamo all’interno del centro sociale. Abbiamo iniziato circa tre anni fa, così siamo piuttosto recenti. All’interno teniamo varie attività politiche come incontri, dibattiti e gruppi di lettura. Abbiamo un gruppo di lettura su un libro chiamato “Black Against Empire” che ripercorre la storia del Black Panther Party. Utilizziamo lo spazio anche per il nostro lavoro politico nella comunità, proprio ora stiamo portando avanti una grande lotta contro la gentrificazione nel Bronx. Il Bronx è l’ultima roccaforte di New York che rimane ancora da gentrificare. E quindi stiamo provando ad organizzarci nella comunità e a fare ciò che possiamo almeno per mitigarne l’impatto. Quindi possiamo usare lo spazio per assemblee di comunità per quella ed altre istanze; ad esempio c’è un gruppo a New York che si organizza per il suo lavoro di solidarietà ai detenuti, ed anche loro utilizzano lo spazio. Abbiamo anche un programma di arti
marziali, collaboriamo con due istruttori di arti marziali che conosciamo nel quartiere. Vengono ad insegnarle lì, e le frequentano una serie di ragazzi del palazzo dove si trova il centro sociale – e le persone del quartiere più in genere. Penso sia probabilmente la nostra attività di maggiore successo perché siamo stati capaci di aggregare gente – quando abbiamo aperto lo spazio volevamo che fosse uno spazio politico ma anche uno dove i giovani del Bronx potessero andare, perché nel nostro quartiere non esisteva un posto del genere. Questo è quanto facciamo, per larga parte, nel centro sociale.
In termini di quanto siamo stati coinvolti in Occupy e di come lo vedevamo: inizialmente non volevo occupare ed ero molto critica nei loro confronti. Molte delle mie critiche avevano senso perché riflettevano la mia posizione politica di allora: quando ci sono andata per la prima volta dicevo, “qui ci sono solo un sacco di bianchi, perché sono qui?” Ma ora, guardandomi alle spalle, penso ci siano state delle cose importanti che ne sono scaturite. Una di queste è che, per la prima volta da tanto tempo, c’era un movimento negli Stati Uniti che puntava il dito sulle diseguaglianze economiche. Tuttavia era chiaro che fosse una sorta di movimento della classe media bianca che per la prima volta
in vita propria sperimentava un qualche tipo di diseguaglianza economica. Quindi tante persone del Bronx hanno pensato: “abbiamo già provato queste cose, non sono nulla di nuovo per noi” – e che stesse in quel momento divenendo un movimento perché capitava a quel tipo di persone. Perciò avevamo una relazione di antagonismo con il movimento. Quando Occupy è dilagato e si è diffuso nei diversi quartieri al di fuori di Manhattan è nato Occupy the Bronx. Chiunque nel quartiere fosse di qualsiasi tipo di tendenza politica [progressista], dai liberal alle persone della sinistra più estremista, sono venute alle assemblee di Occupy the Bronx. E’ iniziato come luogo di incontro tra persone che avessero idee politiche simili, e che fino ad allora erano rimasti isolate le une dalle altre – come dei lunatici che si affannavano con le proprie idee senza che venissero condivise da altri. Occupy ci ha dato uno spazio in grado di generare connessioni, e per quello penso che sia stato importante.E in termini di gruppi che hanno fatto parte di Occupy the Bronx, ad un certo punto abbiamo rotto con esso. Una parte delle motivazioni è che c’erano lì molte persone che volevano lavorare assieme alla polizia e noi non eravamo d’accordo. Coloro che volevano lavorare con la polizia ripercorrevano quanto fatto anche da Occupy a Manhattan, a New York City: permettere alla polizia di affiancare i cortei, o dire loro “siete da questa parte, siete il 99%”. Così abbiamo dovuto rompere con loro perché chiaramente non capivano cosa significasse vivere in un posto come il Bronx, in cui la polizia è dappertutto e tu vieni ucciso, arrestato, pestato – cose che nel quartiere si vedono quotidianamente – ed abbiamo preso il nome di Take Back the Bronx, perché siamo già occupati! Dalla polizia, da chi vuole fare profitti, dagli assistenti sociali, da chi ci opprime ogni giorno, quindi dobbiamo riprenderci il quartiere. Quindi mantengo le critiche che avevo anche allora rispetto ad Occupy, ma va ad esso dato atto che ha consentito a tanti giovani di avvicinarsi alla politica. E penso che per questo motivo Occupy sia stato molto importante. Quindi io mantengo ancora una parte delle critiche a Occupy che avevo allora, ma guardandolo oggi retrospettivamente devo anche dire che è stato un qualcosa che ha consentito a molti giovani di venire coinvolti, per la prima volta, in una qualche forma di attività politica. E da questo punto di vista è stato importante.
D: Vorrei chiedere la tua opinione sul movimento #metoo. La mia idea, ma magari mi sbaglio, è che sia un movimento molto legato alle donne bianche, ma magari mi sbaglio… Quindi volevo chiederti come è stato visto dal Bronx, e in generale nelle fasce meno ricche della società.
R: La prima volta che ne ho sentito parlare ho pensato: “Ok, sono le ricche celebrità che raccontano le molestie che hanno subito, e le pongono come eventi singoli da loro subiti, e all’interno del loro specifico settore”. Quindi, che ne è di tutto il resto della società? Non so come sia qui, ma negli Stati Uniti, se sei una donna, vieni molestata spesso quando sei per strada, o sul posto di lavoro. Ecco, non so come sia possibile tradurre l’istanza del #metoo a tutto il resto della società. E poi a me non piacciono i movimenti con l’hastag. Tutta questa cosa dei social media… metti un # e poi? Magari è solo perché sto diventando vecchia, ma appunto non credo in queste cose per cui tu un secondo metti un ‘mi piace’ e ti senti a posto con la coscienza.
D: Io però credo che questo movimento del #metoo appartenga a un’ondata molto più grande, quella contro la violenza sulle donne (e mi riferisco in particolare al Messico e all’Argentina, a Ni una menos). Per me è interessante che sia Black lives matter che Ni una menos siano entrambi movimenti che se prima potevano essere incanalati nell’antirazzismo e nell’antisessismo, come politiche identitarie, sono invece partiti entrambi da uno stesso slogan: “Ci stanno ammazzando”. Penso sia interessante che abbiano entrambi pratiche che non posizionano un’identità prima, per poi richiedere protezione, ma partono proprio dalla mancanza di protezione.
R: Penso che i movimenti delle donne argentine e messicane siano stati molto interessanti, ma non lo connetterei con il #metoo statunitense, che rimane per lo più un movimento delle celebrità. C’è, o meglio c’è stato, un movimento di giovani donne negli Stati Uniti, Hollaback!, che si mobilitava contro le molestie per strada e in generale nella società. E credo che quello fosse molto più simile a quanto accaduto in Messico e Argentina. Ma proprio perché era nato dal basso e costruito da giovani donne, non ha ricevuto l’attenzione e il clamore del #metoo. Ovviamente le molestie e lo stupro son un qualcosa di davvero importante di cui parlare, ma credo non bisognerebbe limitarsi a quello.
D: Volevo chiedere, per la vostra specifica esperienza ma anche rispetto ai movimenti che state attraversando, qual è il legame tra i movimenti attuali e la memoria storica dei movimenti statunitensi. Vista da qui, sembra ci sia una grossa sconnessione, pare non ci sia nessuna memoria.
R: Credo che all’interno di grandi movimenti come BLM ci sia stato un tentativo, una ricerca di una memoria storica. Per esempio qualche mese fa sono stata a una conferenza a Philadelphia, organizzata da diversi gruppi coinvolti in BLM, chiamata ‘The Black Radical Tradition’, quindi era proprio sulla storia dei movimenti, delle Black Panthers, e c’erano molte persone degli anni Sessanta, come ad esempio Angela Davis. Mi era molto piaciuto il suo discorso, sul fatto che il nazionalismo nero non è mai stato davvero produttivo per il movimento nero, che bisognerebbe lasciarselo alle spalle. E che se vogliamo andare avanti dobbiamo pensare alla formazione di interconnessioni con le altre comunità. Davis ha parlato a favore dell’internazionalismo, e del fatto che tutti nel mondo guardano alle lotte dei neri negli Stati Uniti, che hanno fornito un esempio importante. Se si guardano video e documenti delle Pantere nei Sessanta, ovviamente la razza era al centro del loro discorso, ma si parlava anche della necessità di trovare forme di connessione con la classe operaia bianca. Sfortunatamente, questo aspetto si è assolutamente perso. Anche all’interno dell’università, ci sono molti professori neri che dicono che il marxismo è un qualcosa da rigettare, molti dicono che il marxismo sia un’ideologia bianca. Ma io non sono d’accordo, perché i movimenti neri più forti, nel passato, sono stati proprio quelli marxisti, e quel pensiero è utile anche oggi per capire come viene costruito il tessuto sociale. Per me i picchi di conflitto più alti nella storia nord-americana sono stati quelli legati al Black Power, ma questa memoria si è oggi persa sia a causa del continuo rafforzarsi dell’Alt Right, ma anche dal fatto che il movimento degli anni Sessanta è stato violentemente schiacciato, eliminando così la possibilità di costruire una politica di classe multirazziale negli USA. Dopo di allora inoltre c’è stato infatti continuo aumento dell’incarcerazione di massa, una razzializzazione della povertà e un aumento del razzismo istituzionale… Una serie di politiche pensate come risposta a quel movimento, che hanno anche minato la possibilità di costruire una connessione tra allora e l’oggi. Quindi alla fine no, purtroppo non vedo connessioni tra quel movimento e quelli di oggi. Poi certo, ci sono tentativi di confrontarsi con la memoria storica, ma va anche considerato che nella società statunitense c’è una forte tendenza anti-intellettuale: “Non vogliamo leggere, non vogliamo fare ricerca sul passato, sappiamo già quel che ci basta”. Anche l’università è responsabile di questo. Lì ti viene detto che l’unica cosa che conta è la tua propria esperienza, la quale può spiegare tutto. Ormai c’è una sparizione della storia, del suo studio, del fare ricerca, di cercare di comprendere da dove arrivano i fenomeni. Si pensa davvero sia possibile comprendere tutto a partire dalla propria esperienza. Ed è anche su questo che si basa l’identity politics. Le università hanno molto contribuito a spingerla, creando questa strana cosa della gerarchia delle forme di oppressione. Inoltre va detto che la società americana è estremamente centrata su se stessa, si crede che tutto ciò che accade altrove non abbia nessuna importanza, né interesse. Quando ero al college e anche nei primi anni di università, anche io ero legata all’idea dell’identity politics. Sapevo di essere povera, di essere inserita in complesse reti di relazioni… Ma se me l’aveste chiesto, vi avrei detto che il punto era sola la razza, il mio essere nera, che era quello a spiegare tutto. Non credevo per nulla alla possibilità di sviluppare forme di solidarietà con altre composizioni di classe. Oggi la vedo molto diversamente… Penso anzi che proprio qui risieda uno degli elementi di blocco per i movimenti americani. Ancora una volta, l’internazionalismo e l’idea di una politica di classe multirazziale è un qualcosa che è andato assolutamente perso degli anni Sessanta.
D: Volevo chiederti qualcosa rispetto alle attuali tendenze culturali giovanili, in particolar modo cosa ne pensi della musica trap.
R: È un fenomeno che sta emergendo molto. Io personalmente la odio, non mi piacciono i suoi beat e penso non c’entri nulla con l’hip hop. Tuttavia, se la guardiamo da un punto di vista più generale, potrei dire che ci sono sostanzialmente due posizioni in proposito. C’è chi dice che non sia un genere con un messaggio abbastanza politico, e chi invece cerca di guardare a che tipo di politicità emerga dalla trap. Io non apprezzo la ‘musica politica’, credo che la musica debba in primo luogo far star bene, far divertire. Ma appunto la mia critica alla trap è sul piano esclusivamente musicale, credo sia terribile. Ma non credo quindi che si possa criticare la trap per l’assenza di un messaggio politico. Alla fine anche l’hip hop non è nato per promuovere un messaggio immediatamente politico. Ma è nato in una forma intrinsecamente politica, è venuto fuori dai ghetti, in un momento in cui lì non si stava muovendo nulla. È un genere che parla della vita delle persone, e proprio in questo risiede la sua politicità, nell’essere un linguaggio per esprimere una forma di vita. Forse è così anche per la trap…
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