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Di nuovo sui fatti di Traiano

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La tesi è condivisibile, ma secondo me va contestualizzata e integrata. Che il Sistema, la criminalità economica organizzata, preferisca la cogestione e il compromesso allo scontro con gli apparati dello Stato è sicuro. Del resto fin dall’800 una caratteristica degli apparati statuali nel sud è stata quella di sussumere i poteri informali per rimediare all’inefficenza degli apparati statuali (e a volte anche di sussumere le forme e le pratiche sociali dell’informale all’interno delle forme della governance, cosa che di conseguenza richiede sempre di contestualizzare il concetto di “illegalità di massa” nel processo di soggettivazione sociale in cui di volta in volta si inserisce).

Però non sono certo onnipotenti. Se i camorristi o i narcos potessero garantire da soli e sempre l’ordine pubblico nei quartieri popolari, non si spiegherebbero i veri e propri riot che ci sono stati ad esempio contro le megadiscariche e gli inceneritori anche in territori dove esistono clan radicati e aggressivi, come Pianura, Acerra, la stessa Terzigno, Chiaiano. Rivolte che quasi sempre contrastavano l’interesse primario della camorra non solo per l’effetto di militarizzare a oltranza il territorio, ma anche per il coinvolgimento diretto dei clan nell’affare delle discariche. In molti di questi casi il Sistema è stato costretto ad abbozzare, aspettare e lasciar fare alla repressione statale o adeguarsi e riposizionare i propri interessi (vedi oggi la possibilità di infiltrare i finanziamenti per le bonifiche). Perciò ci sono secondo me altri elementi di contesto che vanno inserirti per cercare una spiegazione del contenimento della rabbia sociale. A partire da quel che abbiamo visto in questi giorni al rione Traiano.

Anzitutto la composizione sociale che si è mobilitata. Sabato in piazza, a parte un circuito di compagni, c’erano, in massa, gli ultimi . Neppure i penultimi e i terz’ultimi… Un paio di migliaia di giovani e giovanissimi sottoproletari del quartiere e un pò di compagni di scuola, con i parenti di Davide e qualche altro adulto del rione.
Una manifestazione abbastanza isolata sia dal punto di vista della composizione sociale che della rappresentanza ( nell’immediato non ci ha messo la faccia nemmeno un consigliere di municipalità, un prete, un associazione, una sigla sindacale qualunque…).

La chimica sociale che ha innescato, dato forza e legittimato socialmente le rivolte antidiscarica era indiscutibilmente più complessa, saldando la rabbia sociale degli ultimi a un discorso pubblico forte e a un coinvolgimento sociale molto più largo che aveva svariate forme di organizzazione/autorganizzazione.

Eppure per quanto riguarda il rione Traiano non stiamo parlando di un ghetto isolato della periferia, Traiano è un rione socialmente chiuso ma urbanisticamente abbastanza centrale, a poche centinaia di metri dal più importante polo universitario cittadino. Un rione che fino alla metà degli ani ’80 vedeva importanti presidi anche della sinistra radicale.

Questo isolamento nasce perciò, secondo me, dalla potenza di due discorsi:
da un lato l’egemonia del discorso securitario, delle politiche della paura che in generale è uno straordinario scudo difensivo per le violenze commesse in divisa (e del resto quante rivolte ricordiamo per i tanti omicidi commessi dalle forze dell’ordine in questi anni in Italia!?). Dall’altro la potenza degli stereotipi, i processi culturali di razzializzazione del sottoproletariato urbano meridionale che agiscono non solo nell’opinone pubblica del nord, ma anche nei corpi sociali della città e perfino in chi ne è oggetto. Nella narrazione largamente egemone sui mass media e non solo, Davide è una vittima del ghetto, del contesto “incivile” di cui farebbe parte, in ultima istanza vittima anche di se stesso. Mezza italia oggi conosce i microclan che si contendono “Traiano di sotto e Traiano di sopra”, presume di conoscere vita morte e miracoli di Davide e degli altri che erano con lui sul motorino, e perfino della famiglia di Davide fino alla terza generazione, mentre niente si conosce, neppure l’identità, dell’uomo in divisa che l’ha realmente ammazzato (e uno degli elementi di rivendicazione di Ferguson è stata proprio l’identità degli assassini). Come se fosse il coprotagonista “accidentale” di un dramma già scritto. Una percezione amplificata dalla torsione “gomorrista” della cultura antimafia, con tutto il suo portato antropologico ed essenzialista che però piuttosto che attribuire a un libro interessante e ad una buona crime-story mi pare addebitabile al contesto culturale in cui sono state calate e in cui hanno finito per giocare un certo ruolo.

Così per tornare alle scene del rione Traiano nemmeno il Sistema ha usato metodi arroganti per arginare la rabbia sociale (cosa che potrebbe avvenire quando i residui di insubordinazione sociale diverranno numericamente esigui) ma si è ipocritamente servito degli stessi dispositivi di autocontenimento culturale che in maniera più convinta ha adottato anche la parrocchia e perfino qualche insegnante di scuola. “Dobbiamo dimostrare che siamo civili, altrimenti diranno che avevano ragione i carabinieri”, sottintendendo l’immagine di feccia urbana cui gli abitanti dei rioni più popolari si sentono incatenati. Erano questi gli inviti che venivano rivolti alle anime più infuocate e sconvolte dall’accaduto, spesso giovanissimi amici della vittima. Una sorta di moral suasion che però non so quanto avrebbe funzionato se l’iniziale corteo di duemila persone, che sembrava attraversato da autentiche scariche elettriche di rabbia fluida e disordinata, fosse arrivato compatto alla caserma dei carabinieri a cui si dirigeva con passo di carica, invece di essere scompaginato dal diluvio.

Sono questi dispositivi del razzismo e della subalternità sociale ad avvicinare, molto più del topos della rivolta, questa vicenda al parallelo suggestivo con Ferguson. Con la differenza, come ha rilevato Bascetta, che qui non c’è un processo di soggettivazione sociale e di conflitto come c’è a Ferguson intorno alla linea del colore che sappia rompere questi meccanismi sociali e culturali di contenimento.. Non c’è un’elaborazione del razzismo e della razzializzazione dei meridionali come si è strutturata nella costruzione materiale di questo paese, anche se qualcosa negli ultimi anni riemerge sui social network, negli stili degli ambienti ultras, nella ricerca di collettivi ed esperienze di base.

Tornando all’isolamento sociale del corteo di sabato non potevano romperlo da soli neppure i compagni presenti, trattandosi per altro di uno dei rioni in cui c’è meno presenza (e anzi questo dramma è stata occasione di recupero di relazioni sociali)
Volevo rimarcare questi aspetti perchè credo ne vengano delle indicazioni su come lavorare, sia rispetto alla necessità di creare dei riferimenti autorganizzati nel quartiere, sia rispetto al contrasto di certe retoriche oggi egemoni a Napoli e in Italia.

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Non è un paese per poveri: #DavideBifolco e il #Razzismo di classe in #Italia

Partiamo dall’inizio, per chiarire le cose: noi, come tanti altri, nel Rione Traiano sabato 6 settembre c’eravamo.

 

In realtà eravamo lì già il giorno prima, quando ci ha travolto la notizia che un carabiniere avesse ucciso un ragazzino di 16 anni.

Scusateci, ma non siamo proprio capaci di guardare quello che accade attorno   a noi senza averne conoscenza diretta e abbiamo sentito dal primo momento il bisogno di stare accanto alla famiglia di #Davide che perdeva un figlio e un fratello per mano di “un uomo dello stato” proprio in quel quartiere già devastato dall’abbandono e dalla criminalità organizzata.

 

 

 

Abbiamo voluto esserci per loro e per Davide: troppo giovane per poter portare sulle spalle anche le responsabilità della sua stessa morte. Una responsabilità che dal giorno dopo, con lurida freddezza, hanno provato ad addossargli carabinieri, poliziotti, istituzioni, intellettuali progressisti e quel gigantesco ventre molle razzista e classista che abita questo paese.

Abbiamo fatto una scelta di parte, quella che ci è sempre appartenuta: affiancarci agli ultimi di questa società e di questa città, coloro che non riescono ad arrivare a fine mese, che vivono di piccoli lavoretti a nero, che sopravvivono nel centro e nelle periferie senza aver mai conosciuto nessuna forma di welfare; chi vive in questi quartieri dormitorio e campa di lavori sottopagati in altre parti della città, o a quelli che vivono di illegalità perché di possibilità di scelta non ne hanno mai avute, a quelli che la gente chiama “La Camorra” ma che della Camorra sono le prime vittime, manovalanza di un mercato del lavoro criminale spietato quasi come quello legale, ma decisamente più accessibile.

Ci siamo stupiti che grande parte della città non ci fosse, mentre la ritrovavamo sui social media, comodamente seduta dietro le proprie scrivanie, a pontificare su quello che non ha mai visto e a pensare di poter dare lezioni di vita.

 

Abbiamo creduto che un evento tragico come quello della notte del 5 settembre avesse la forza di scuotere anche le coscienze più perbeniste.

Anche la razzistissima America ha avuto un briciolo di comprensione per la rabbia di Ferguson, mentre l’Italia razzista e bigotta, e pezzi consistenti della classe dirigente di questa città, hanno guardato l’ennesimo spettacolo da “gomorra”, non riuscendo a “perdonare” a Davide Bifolco, napoletano, di essere morto ammazzato per mano di un carabiniere.

Quel ventre molle, razzista e classista, è il terreno fertile di un’opinione pubblica e il mercato di una stampa che dal giorno dopo ha scelto di ignorare i fatti accaduti nel corso di quella notte (e confermati dalle testimonianze dei giorni seguenti) per darsi a un’imbarazzante litania sociologica sulle “colpe” di Davide, dei suoi amici, del suo quartiere e della sua città.

Di certo ci aspettavamo le cazzate del Salvini e del Saviano di turno, e le evocazioni legalitarie del fascista più inappropriato e odioso della situazione: a questo giro il premio l’ha vinto Bobbio, ex sindaco di Castellamare di Stabia e membro del partito con il più alto tasso di collusione mafiosa della regione.

Quello che non ci aspettavamo, invece, è la foga di alcuni editoriali e di numerosi profili Facebook e Twitter che hanno messo in luce quanto questo paese e questa città covino un odio viscerale nei confronti dei poveri, degli ultimi della società, i fanoniani “dannati della terra” o una lombrosiana “razza maledetta”.

Scrive Paolo Macry sul Corriere della Sera dell’8 settembre: “A Napoli esistono i ghetti. Ciò che nella Parigi di Victor Hugo o nella Londra di Charles Dickens era il confine di classe e che nelle città americane è stato lungamente (e in parte è tuttora) il confine di razza, a Napoli è il confine della legalità. Scampia, Forcella, il Rione Berlingieri, il Rione Luzzatti, eccetera, costituiscono aree economicamente degradate e urbanisticamente fatiscenti, ma sono anche il luogo di una contrapposizione dei cittadini allo Stato che appare intensa, diffusa e, a quanto sembra, introiettata. È qui che si nascondono i latitanti, che la gente cerca di resistere con la forza agli arresti della polizia, che i conflitti tra interessi vengono risolti da una giustizia privata e cruenta e le guerre tra bande armate avvengono alla luce del sole. Mentre un miscuglio inestricabile di paura, collusione e omertà suggerisce il silenzio ai testimoni. Sono insomma ghetti perché riflettono un contesto infernale ma anche perché, in qualche modo, si sentono essi stessi ghetti. Ovvero territori separati dal resto del tessuto urbano, soggetti a codici speciali, abituati a proprie gerarchie di potere, fidelizzati con ricompense di varia natura dalle organizzazioni criminali”

Il “quartiere illegale” è l’espressione sublime della razzializzazione di questo popolo. È il ghetto all’italiana nel suo odiato, utile e imbarazzante Sud. È lo spazio dove esiste un peccato originale e oggettivo, per il quale non esiste sociologia che tenga.

È uno shock culturale e discorsivo che annienta tutte le altre categorie del discorso.

È (scusateci l’astrazione che abbandoniamo immediatamente) ciò che consente di superare, con un battito di ciglia, tutte le questioni di diritto che la storia di quella notte pone.

In primo luogo: il diritto di un carabiniere di sparare al petto un uomo. Ragazzino o non ragazzino, di spalle o di faccia, in fuga o inerte.

In secondo luogo: il diritto di un carabiniere di sparare al petto un ragazzino in fuga, senza alcun rischio di offesa. Che abbia ignorato o meno un posto di blocco con il suo motorino, che girasse da solo o evidentemente in barba al codice della strada (ma solo al codice della strada!!) a due, a tre, o quattro senza casco.

Questa discussione non esiste. Esistono invece tutte quegli argomenti che servono a giustificare l’omicidio di un ragazzino a opera di un carabiniere, che si esprimono nel trovarsi in un quartiere dormitorio con un alto tasso di criminalità organizzata, con altissima disoccupazione e dispersione scolastica, con servizi zero, prospettive nulle. Esiste, dunque, la colpa di essere povero.

In un quartiere ghetto, costruito, come tanti altri ghetti nostrani, da quello stesso Stato e dai poteri forti che evocano legalità mentre continuano ad affamare, avvelenare e impoverire le nostre terre. E mentre sparano, senza alcun diritto, rivendicano legalità.

Il giorno dopo raccontano al mondo il ghetto. Mentre continuano ad avvelenarlo di miseria, mentre continuano a intossicarlo di disoccupazione e dispersione scolastica. Domani sarà di nuovo il ghetto “dimenticato”, perché in questo paese non si vede luce in fondo al tunnel della disoccupazione e della precarietà, allo smantellamento della scuola e dei servizi.

Quello che vediamo davanti a noi è un razziale odio di classe da romanzo dell’800, ma terribilmente vivo nelle attuali testate nazionali e nell’opinione pubblica nostrana.

Un odio di classe necessario: l’odio figlio della paura che quella moltitudine di corpi esca dal corpo, rabbiosa, per rivendicare un briciolo di dignità. La paura che quella moltitudine fuoriesca dal ghetto.

La Napoli bene, che ha trascorso l’inverno a scimmiottare le frasi più cult di “gomorra”, ha tremato dinanzi all’ipotesi che quella gente arrivasse fuori alle proprie case, ha tremato all’idea che lo stato di cose presenti venisse messo in discussione.

Su queste paure, coscienti o meno, mette basi il falso assioma classista che vuole nella povertà e nell’illegalità la causa della prevaricazione e la nascita delle mafie. Lo stesso assioma che vuole tutti i poveri camorristi e, fuori dalla città, tutti i napoletani camorristi. Sulla base di questo assioma trova perfino giustificazione l’omicidio di un ragazzino di 16 anni per mano di un carabiniere.

Noi oggi non vogliamo raccontare la storia di quella notte, lo sta facendo benissimo la gente del rione Traiano che con forza dirompente esplode di narrazioni, testimonianze, video, interviste, che scende in piazza ogni giorno e parla linguaggi diversi. Che ha la forza di parlare con noi, reagendo anche alle svariate operazioni delle grandi testate giornalistiche e dei miseri poliziotti di quartiere che dal primo giorno hanno avuto l’ansia di raccontarci in piazza come corpo estraneo, “portatori d’odio”, violenti e pericolosi, che dal primo giorno si sono occupati di diffamare la nostra solidarietà.

Testate e poliziotti che non aspettano altro che completare l’assioma povertà=illegalità=camorra mettendoci dentro anche coloro che come noi dal primo giorno hanno scelto di non abbandonare Davide e i suoi amici (un primo imbarazzante comico assaggio sul Corriere del Mezzogiorno del 10 settembre traccia con aria massonica trame di connessione tra antagonisti e dei virgolettati “amici di Davide”, inserendo con un colpo di magia tra le prime quindici parole anche i mitici “black block”).

Testate e poliziotti che non aspettano altro che creare altri ghetti nel ghetto, per rimettere ogni cosa al suo posto e tornare a dialogare serenamente con i galoppini delle piazze di spaccio della zona, quelli che portano valanghe di voti ai politici di turno a ogni appuntamento elettorale.

Questo ve lo possiamo raccontare: in piazza, sabato, c’erano loro a mantenere calma la manifestazione.

Per nostra fortuna erano la minoranza di un quartiere vivo e solidale che piangeva, urlava, cantava e pregava. Gente semplice.

Noi stiamo con queste persone, voi scegliete da che parte stare.

Il silenzio, sicuramente,  sarebbe più dignitoso.

Noi vogliamo ringraziare questi ragazzi perché è solo grazie alla loro scelta di stare in piazza ogni giorno da sabato che forse la ricerca di verità e giustizia non sarà vana.

E vogliamo ringraziare l’associazione ACAD che ha tempestivamente offerto supporto legale, gestendo anche in parte efficientemente la comunicazione nei giorni successivi.

A tutti i perbenisti da tastiera facciamo l’invito a un po’ di silenzio e ad una rapida ricerca su Google per scoprire che la metà delle proprie convinzioni è falsa. Se proprio non ci riescono, gliene forniamo qualcuna.

1) “A Napoli si scende in piazza solo quando un carabiniere ammazza un ragazzo e mai quando uccide la camorra!”

  • Falso. A Napoli si scende in piazza sempre contro gli abusi dell”una e dell’altra faccia del capitalismo, basta guardare la fiaccolata dopo la morte di Pasquale Romano (novembre 2013), vittima innocente di una guerra di camorra.

2) “Dopo la morte di Davide Bifolco sono state incendiate 6 auto della polizia.”

  • Falso. La questura stessa in un comunicato ufficiale smentisce la notizia.

3) “Bisogna tutelare la privacy del carabiniere e non diffondere le sue generalità per la presunzione d’innocenza.”

Noi chiediamo a gran voce che le generalità del carabiniere siano diffuse perché siamo convinti che questo sia un atto di tutela nei confronti dell’intera cittadinanza. Vogliamo essere sicuri che sia lui e solo lui a pagare per ciò che ha fatto, senza la possibilità di insabbiare e depistare le indagini o inquinare le prove come già è stato fatto sul luogo del delitto. Vogliamo che sia lui a non tornare mai più al suo posto di lavoro, per la tutela dell’intera comunità, pretendiamo le sue generalità per una questione di trasparenze e tutela dal basso della cittadinanza. Al contrario, dettagli della vita della famiglia di Davide sono stati passati al setaccio dai giornali per costruire l’immagine di un ragazzo-delinquente.

4) Per quale motivo nessun giornale ha posto l’attenzione sul fatto che l’indagine sia stata affidata agli stessi carabinieri, dunque colleghi dell’omicida? Non sarebbe stato un gesto di buon senso e di trasparenza affidarle a un altro organo dello Stato?

5) “Il colpo che ha ucciso Davide è accidentale”

– Da quando in Italia esiste la legge Reale, 1975, sono più di 1000 i casi di morti “accidentali”, grazie all’art. 14 che recita: “estendendo la previsione normativa dell’art. 53 c.p., consente alle forze dell’ordine di usare legittimamente le armi non solo in presenza di violenza o di resistenza, ma comunque quando si tratti di «impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona”. Gli agenti colpevoli di omicidio l’hanno sempre fatta franca. È arrivato il momento di abolire questa infame legge che tutela gli omicidi di Stato.

6) “ Il carabiniere che ha ucciso Davide Bifolco NON È sottoposto a custodia cautelare”

– Questo risulta davvero incomprensibile, visto che è stato già appurato che l’agente dell’Arma abbia di proposito inquinato la scena del delitto e le relative prove, spostando il cadavere e nascondendo il bossolo. Cosa fa credere al PM che non possa farlo di nuovo? Questa eventualità è resa possibile dal fatto che sono gli stessi appartenenti all’Arma a condurre le indagini sul caso.

7) “Se vai a 3 sul motorino senza casco e assicurazione sei colpevole quanto il carabiniere”.

– Sembra assurdo, ma va ricordato a tutti i paladini della giustizia che le mancate osservanze del codice della strada prevedono una sanzione amministrativa che, per quanto cruenta, non ha ancora raggiunto la pena di morte. La Corte di Cassazione, inoltre, ha in passato definito l’infrazione di un posto di blocco non un reato penale. L’omicidio in Italia prevede una pena non inferiore ai 21 anni di reclusione.

8 ) “Il carabiniere era sotto pressione, succede quando si fa servizio in quartieri difficili”

– Falso! Se il carabiniere subisce cosi tanto la pressione può scegliere tranquillamente un altro mestiere: viviamo tutti i giorni di stenti e lavori precari e non per questo ammazziamo la gente. Ripetiamo, inoltre e fuor di retorica, che nei quartieri difficili le forze dell’ordine hanno dei rapporti di convivenza, politici ed economici, con la criminalità organizzata che permette loro di stare tranquilli. La maggior parte delle caserme o dei commissariati della periferia sorgono nei pressi di piazze di spaccio (vedi Secondigliano, Scampia, o lo stesso Rione Traiano) e non ci sembra che vengano assaltate quotidianamente.

9 )“I cortei sono gestiti dalla camorra, come durante l’emergenza rifiuti”

– Niente di più falso! Basterebbe farsi un giro e non fermarsi alle apparenze, per capire che i primi a non volere troppa visibilità e caos nelle strade sono gli stessi appartenenti alle organizzazioni criminali. La stessa magistratura ha poi confermato negli anni che l’interesse dei clan è sempre stato rivolto al ciclo dei rifiuti, legale e illegale, e che esistevano delle connessioni tra i capitali che provenivano dai clan e la costruzione delle discariche e degli inceneritori. Ne deriva che la Camorra e lo Stato si sono alleate contro i cittadini perché il ciclo dei rifiuti fosse quello progettato dalle istituzioni. (Ancora oggi un nuovo ciclo virtuoso dei rifiuti in Campania non si vede. Impianti di riciclaggio e compostaggio non vengono costruiti!)

10) “Il carabiniere non aveva altra scelta, era una situazione difficile e doveva impugnare la pistola per sicurezza”

– Quello che è imperdonabile all’infame che ha ucciso Davide Bifolco è proprio questo: sorvolando sull’inusuale accanimento con il quale di principio si è appassionato all’inseguimento di questi pericolosi criminali, la gazzella dei carabinieri aveva già speronato e fatto cadere i tre ragazzi, i carabinieri avevano ormai il motorino e sarebbero potuti risalire al proprietario; avevano inoltre tratto in arresto già uno dei tre. Esistevano insomma tutti gli elementi per risalire agli altri due presenti sul mezzo (non vi raccontiamo quali strumenti vengono quotidianamente utilizzati nelle caserme napoletane per portare a buon fine gli interrogatori!): non c’era nessun motivo per sparare, non c’era nessun motivo per togliere gli anni migliori a un ragazzino innocente.

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