Comunismo e Islam politico
Da tempo la “questione Islam” si è posta come aspetto non secondario dentro le metropoli imperialiste europee. Sia gli immigrati provenienti dai paesi di religione islamica sia, ed è un aspetto intorno al quale occorre ragionare, gli immigrati di seconda e terza generazione hanno trovato nell’Islam una serie di risposte, per quanto alienate, a domande alle quali, obiettivamente, nessuno sembra essere stato in grado di rispondere tanto meno le organizzazioni politiche legate al movimento operaio e proletario. Ciò è facilmente riscontrabile in un paese come la Francia dove, come la rivolta del 2005 è lì a testimoniare, le tensioni sociali hanno raggiunto momenti di notevole intensità. In quel contesto, mentre l’insieme delle forze di sinistra guardava pressoché attonita, smarrita e soprattutto da lontano quanto accadeva in banlieue i movimenti che si richiamavano all’Islam politico e militante conquistavano postazioni di forza e di prestigio all’interno di queste sterminate aree metropolitane dove gli effetti di quella che possiamo chiamare la globalizzazione in basso si fanno sentire in maniera tutt’altro che edulcorata.
L’islam delle nostre banlieues
Significativo inoltre come tra le masse di immigrati, il più delle volte, sia proprio il disincanto seguito all’approdo in Europa a permettere la riscoperta dell’! Islam come unica soluzione possibile alla loro condizione di m! asse senza volto. Una condizione che li ascrive in una condizione non distante da quella del “colonizzato”. Ma di quale Islam stiamo parlando? Questo è il punto. Perché popolazioni in fuga da guerre, miserie e oppressioni e alla ricerca di una qualche chance di vita, attratte da un immaginario occidentale fatto di consumi, garanzie e diritti repentinamente si trasformano in militanti islamici radicali? E ancora: perché giovani dalla pelle scura, cresciuti dentro le metropoli imperialiste, scoprono improvvisamente una qualche “vocazione” religiosa? Perché, ad esempio, ragazze palesemente indipendenti e autonome decidono di indossare un simbolo della sottomissione femminile quale il velo? Non occorrono intuizioni particolarmente geniali per capire che, in tutta la faccenda, vi è ben poco di culturale e/o religioso, come invece amano dire e scrivere i vari cani da guardia dell’imperialismo bensì molto di politico. Infatti, ed è questo il vero nodo della questione, l’Islam che ha fatto e fa presa è un Islam che coniuga la lotta contro l’imperialismo, e quindi non fa distinzione tra multinazionali occidentali e governi nazionali a queste asservite, al diritto a un’esistenza, per usare un lessico a noi facilmente comprensibile, garantita da un efficace ed efficiente sistema di Welfare. Un Islam, quindi, militante e politico che fa della rimessa in circolo della memoria delle lotte anticoloniali, declinate in senso panislamista e in alcuni casi panarabista, la propria idea – forza. Liberazione dal giogo imperialista e organizzazione politica e sociale organizzata sotto la guida dei principi di giustizia sociale della teoria politica dell’Islam sono le coordinate entro le quali l’Islam politico e militante cattura quote importanti di popolazione ma non solo. Dentro questi movimenti sono confluiti, altro aspetto ch! e dovrebbe obbligarci a riflettere seriamente, militanti arabi e africani con un passato in organizzazioni maoiste o marxiste – leniniste. Non è certo un caso che, avendo a mente lo scenario europeo, siano organizzazioni quali Hamas e Hezbollah a diventare il punto di riferimento delle nuove leve islamiche e tutto ciò non certo in virtù della religiosità di tali movimenti ma per la loro obiettiva capacità di offrire, ancorché in maniera non risolutiva e momentanea, risposte politiche, sociali e militari ai bisogni di masse perennemente sotto assedio. Un Islam in grado, quindi, di offrire risposte politiche ai bisogni politici delle masse.
L’economicismo non aiuta ad avere una visione dei problemi dall’alto
La miglior riprova di quanto l’Islam sia in grado di organizzare sul piano politico soprattutto le masse arabe e africane lo si è potuto facilmente constatare in occasione delle manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese in seguito all’attacco imperialista subito da Gaza. Un movimento che ha attraversato l’Europa lasciando di stucco, in primis, le forze di sinistra. Come un sol uomo una forza organizzata e disciplinata si è riversata per le strade delle città europee. Queste masse che i nostri mondi, per lo più, considerano alla stregua di vite di scarto, di eccedenza e amano ascrivere alla dimensione dei miserabili, quindi obiettivamente incapaci di assumere, anche solo di sfuggita, la dimensione del politico, alla prova dei fatti si mostrano di ben altra fattezza. Le masse hanno fame e sete di politica. L’Islam politico e militante soddisfa questi bisogni complessivi delle masse mentre noi, in linea di massima, reiterando un vecchio assioma menscevico consideriamo l’orizzonte delle masse limitato alla pura e semplice soddisfazione dei bisogni primari, la variante economicista nel mondo attuale, delegando al mondo dell’intellighenzia la soddisfazione dei bisogni complessivi. Il “banale” segreto dell’Islam politico e militante è dare una soluzione ai bisogni politici delle masse rendendole protagoniste e offrendo loro l’opzione del tempo storico in contrapposizione al tempo del presente che si manifesta come il tempo dell’oppressione, dello sfruttamento e della subordinazione. L’Islam politico e militante si afferma, per quanto nella nostra visione di popoli colonizzatori possa sembrare a dir poco strano, non perché calibra in basso il suo intervento ma ponendolo in alto. Mentre affronta, e risolve, i problemi del riso e del sale ascrive il destino delle masse dentro una Weltanschaung in cui queste diventano protagoniste. Se, realisticamente, questa è la cornice della situazione alcune non secondarie considerazione occorre trarle. La stragrande maggioranza di queste masse è composta da operai, proletari, piccoli commercianti oltre a una certa quota di semi ed extralegali o, più grave; esattamente, da settori che, sulla base delle opportunità di impiego che trovano, attraversano in continuazione la condizione operaia e quella dell’extralegale. Un fenomeno che, in fondo, ha fatto da cornice a tutte le storie dell’immigrazione. La determinazione che, in non pochi casi, caratterizza questi settori di classe dovrebbe essere sufficientemente nota. Se, solo per fare un esempio, pensiamo agli incredibili cicli di lotte che sono stati messi in atto dentro i CPT prima e i CIE dopo ne abbiamo un quadro più che esaustivo. Allo stesso modo, sempre per rimanere nel campo degli esempi, le lotte che si sono sviluppate a e in seguito a Rosarno sono non poco indicative. Registrare ciò, in fondo, è semplice. Più difficile è trarne una “linea di condotta” in grado di emanciparsi dal codismo e/o dall’assistenzialismo. Le lotte hanno una legge pressoché costante: da un lato permettono alle masse di fare un’esperienza diretta, attraverso la quale si sedimentano maggiori livelli di consapevolezza e coscienza collettiva; dall’altro selezionano spontaneamente un personale di avanguardia che, dentro quel contesto particolare, matura l’esigenza di andare oltre la dimensione particolare e ha fame di una visione complessiva delle cose. In ogni lotta, quindi, si produce una richiesta di politica. Ogni lotta, in potenza, offre l’opportunità di costruire quadri politici. Questo il nodo da affrontare e su questo terreno, mi sembra, si scontano non pochi ritardi dell’organizzazione comunista.
Contendere l’egemonia all’islam politico
Chiunque abbia avuto a che fare con i mondi dell’immigrazione a dominanza mussulmana avrà notato con facilità come i nomi di Marx, Engels, Lenin, Mao, Fanon e lo stesso Malcom X risultino dei perfetti sconosciuti. L’azzeramento della memoria, o la sua distorsione, non è un fenomeno che ha caratterizzato solo i nostri mondi ma, pur con toni diversi, è facilmente riscontrabile in ogni contesto. La battaglia che l’imperialismo ha portato avanti, e occorre riconoscerlo in maniera vittoriosa, contro il marxismo, e nella quale ha utilizzato anche l’Islam, è stata condotta sul piano internazionale. Tuttavia l’imperialismo può vincere una battaglia ma non la guerra perché, per farlo, dovrebbe eliminare le contraddizioni oggettive che il modo di produzione capitalista non può far altro che produrre e riprodurre in continuazione. In altre parole dovrebbe eliminare se stesso. I conflitti oggettivi, in assenza di quadri comunisti in grado di indirizzarli su un terreno di classe, finiscono così per essere incanalati nelle uniche forme che le masse hanno sottomano. L’Islam politico ne rappresenta un’eccellente concretizzazione. Dobbiamo per questo rassegnarci a consegnare e delegare la lotta all’imperialismo nelle mani di questi movimenti? No. Decisamente no! Contendere all’Islam l’egemonia su queste masse proletarie e popolari non solo è doveroso ma possibile poiché, nella migliore delle ipotesi, l’interclassismo che lo caratterizza non è in grado di risolvere e affrontare alla radice le contraddizioni di classe che oggettivamente il modo di produzione capitalista genera in continuazione e così come sbattezzare il calendario cristiano per farlo repubblicano, cambiare san Bartolomeo in san Robespierre non cambia né la pioggia né il bel tempo, allo stesso tempo islamizzare il capitalismo non cambia la condizione operaia e proletaria. L’Islam, o chi per lui, non può risolvere i problemi delle masse perché, alla fine, il suo programma politico è un programma di collaborazione di classe tenuto insieme dal collante religioso e per questo non può risolvere i problemi delle masse. Su questo piano l’Islam politico è una maionese che rischia in ogni momento di impazzire perché deve continuamente tenere conto di forze e interessi oggettivi contrastanti che, alla lunga, non possono essere continuamente mediati dalla preghiera. Ma queste contraddizioni, anche se e quando dovessero manifestarsi, non conducono meccanicamente le masse verso il marxismo e l’organizzazione di classe.
Reintrodurre il marxismo dentro queste aree
Più realisticamente, in assenza di un punto di riferimento in grado di trasformare queste contraddizioni in progettualità politica su basi di classe, sarà facile assistere a rivolte e ribellioni, dal sapore vagamente anarchico, o, ancor più facilmente, alla costituzione di sette religiose più “pure e radicali” dentro le quali finiranno con l’essere imprigionate gran parte delle risorse di classe momentaneamente fuoriuscite al controllo dei movimenti religiosi maggioritari e ufficiali. Solo la soggettività, ossia la forma partito, è in grado di svolgere questa funzione. Occorre pertanto mettere a regime una “politica di quadri” in grado di agire dent! ro questi territori e le sue contraddizioni. Occorre attivare degli strumenti attraverso i quali la formazione di questi quadri non rimanga al livello delle buone intenzioni. Occorre introdurre, o meglio reintrodurre, il marxismo dentro queste aree. Un’ipotesi, modesta e fattibile, potrebbe essere quella della costruzione di una “biblioteca dell’immigrazione” dove, accompagnate da sintetiche introduzioni, i testi marxisti, i classici ma anche quelli degli autori che hanno accompagnato i movimenti anticoloniali, ad esempio Fanon, diventano uno strumento attraverso il quale le avanguardie uscite dalle lotte iniziano a formarsi. Allo stesso tempo, però, occorre da parte dei militanti autoctoni una maggiore conoscenza delle specificità con le quali entrano in contatto poiché non vi è errore, grave e ingenuo al contempo, che quello di trasportare, per decreto, il particolare nel generale. Non a caso, Lenin, nel momento in cui mette in forma la struttura dell’Internazionale comunista si avvale del prezioso contributo dell’Ufficio centrale delle organizzazioni mussulmane del Partito Comunista (bolscevico) di Russia. Un insegnamento dal quale, ancora oggi, occorre trarne tutti gli insegnamenti del caso.
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