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Guerre, transizioni ecologiche ed estrattivismi: un’analisi critica del presente

Proponiamo una prima parte del dibattito dal titolo “Guerre, transizioni ecologiche ed estrattivismi: un’analisi critica del presente” che si è tenuto a settembre a Venaus in occasione del campeggio di Ecologia Politica Network.

Questi spunti di riflessione in merito alle prospettive che ci attendono, alla luce delle dinamiche territoriali e sociali in cui siamo coinvolti, vogliono essere un rilancio per l’iniziativa di presentazione del Manifesto di Confluenza al Campus Luigi Einaudi a Torino, organizzato da Ecologia Politica – Torino.

Gli scenari di conflitto attuale, come la guerra e il genocidio in Palestina, vengono costantemente affiancati da una propaganda sfrenata sulla sostenibilità e un futuro green, portando in sé i presupposti di una coesistenza che si fonda su un sistema economico ed ecologico che si dimostra sempre più distruttivo. Per approfondire questi temi, abbiamo invitato Dario Padovan, professore di Sociologia dell’Ambiente all’Università di Torino, che ci ha offerto una panoramica delle sfide principali che il movimento ecologista -e il quindi anche il network di ecologia politica- si trovano ad affrontare. Le prossime righe riporteranno il suo intervento, il quale ci pone davanti degli interessanti interrogativi e prospettive per l’anno appena cominciato.

Non è facile fare un’analisi di fase, sicuramente possiamo partire dal dirci che non siamo messi bene, anzi. Ma la situazione in cui ci troviamo può essere anche letta positivamente, può anche fornire delle spinte e degli slanci. Per i movimenti antagonisti questo periodo non può essere considerato straordinariamente interessante, ma può essere individuato come un periodo in cui attrezzarsi affrontare un futuro che non è dei migliori. Il fascismo avanza dappertutto -vedi le elezioni in Turingia-, la sinistra radicale sta passando a tematiche difficili da ipotizzare qualche anno fa – vedi la frattura del nuovo partito nato da Linke in Germania che ha preso il 15% di voti e che avanza posizioni anti-immigrati. È il momento di pensare a delle situazioni diverse dal passato che non sono ancora entrate in maniera radicale nell’immaginario di questo Paese, ci troviamo in situazioni complesse e delicate, ma anche conflittuali come quella in Francia in cui è ancora difficile immaginare il quadro politico che si delineerà, anche dal punto di vista dei movimenti. Negli altri Paesi europei la situazione non è di più facile comprensione: l’avanzamento delle destre è qualcosa di reale e serio, per non parlare dei conflitti che si sono innescati negli ultimi anni che stanno diventando una costante e in un certo verso anche un attrattore delle nostre idee di possibili analisi di fase. Per quanto si possa sperare la fine di un conflitto, questo rimane aperto.

Oggi alcuni scenari stanno cambiando molto rapidamente e di questi bisogna tenerne conto, io parlo di solito di minimalismo etnografico: quando si lotta oppure si fa ricerca, bisogna dialettizzare le situazioni minime, concrete, particolari e locali con le dinamiche globali che hanno un’influenza enorme. Un esempio sono le decisioni che prenderà l’Unione nel prossimo periodo, le quali avranno conseguenze straordinarie anche nei nostri territori, dove noi viviamo e concentriamo i nostri sforzi di miglioramento. Non è facile fare uno scenario, delinearlo e costruirlo. Parto da una riflessione: noi ci troviamo qua in nome dell’ecologia politica il che significa che l’ecologia è diventata un’occasione di mobilitazione, per cui per noi l’ecologia non è da considerare come meno importante di altri fattori, ma come occasione per cogliere le contraddizioni che emergono nel sistema globale e nei sistemi locali. L’ecologia è una grande opportunità anche se molti non lo credono. Riprendo una riflessione che aveva formulato Alessandro Pignocchi al Festival Altri mondi Altri modi: in Francia I compagni e le compagne che portano avanti delle lotte per la conservazione e la difesa delle terre, non parlano mai di ecologia, perchè il termine ecologia fa scappare le persone, mette in allarme, come se l’ecologia fosse qualcosa che non fa del bene, ma fa del male. Dobbiamo partire da questo presupposto: dal fatto che la gente normale, la gente comune, la gente che vive nelle montagne, nei territori che sono colpiti dalle catastrofi, dagli eventi meteorologici quando sente parlare di ambientalisti, li individua come i responsabili di quello che è capitato loro.

Il fatto che non viviamo in un periodo particolarmente attivo, non significa che non ci sia un processo di mobilitazione che si sta estendendo tramite traiettorie che non sono prevedibili.

Faccio un esempio sul quale tutti siamo coinvolti, soprattutto qua a Torino: il movimento per la difesa degli alberi. Nel ‘77, e in generale nei momenti dei movimenti più importanti e radicali di questo Paese, mai avremmo pensato che gli alberi e la loro difesa sarebbero diventati fonte di mobilitazione. Allora l’idea nostra era quella dell’assalto alla ricchezza, della distruzione della catena di comando quotidiana, del sabotaggio, quella del contropotere. Mai avremmo pensato che l’albero, i cespugli, il Meisino, la biodiversità, gli insetti, i merli, diventassero fonte di mobilitazione generale, perché questo è un movimento generale che sta attraversando tante città e soprattutto le città, più che i territori.

Gli scenari cambiano, per cui è difficile creare un mosaico definitivo con tutte le mobilitazioni che si stanno dando. Credo sia importante per cui riflettere sul metodo e fare un ragionamento che parta da quelli che sono gli hotspot e quindi sul come si utilizzano i punti caldi che si creano. Le dimensioni del conflitto possono guidare la nostra riflessione. Abbiamo sempre seguito un modello, una modalità o una metodologia nel ragionamento, abbiamo seguito le grandi teorie, fino in fondo, pensando in maniera deduttiva per raggiungere la dimensione particolare applicata. Direi di iniziare a fare al contrario e partire da un ragionamento sui conflitti, sulla dimensione che viviamo, sulle pratiche, sulle capacità che abbiamo di resistenza e di sabotaggio, di trasformazione, di riformismo radicale per poi risalire verso una teoria.

Penso che questa potrebbe essere una modalità con la quale ripensare il nostro modo di essere soggetti.

Una delle questioni che il movimento ecologista si sta ponendo è: quale è il soggetto ecologista che si mobilita? Quale soggetto ecologista si sta formando? Qual è la differenza tra la dimensione del soggetto ecologista e la classe ecologista? Qual è la potenzialità delle mobilitazioni che si stanno dando? Queste mobilitazioni possono portare al sintetizzarsi di un soggetto che dura nel tempo?

Facciamo un passo indietro. Cosa vuol dire essere soggettività? Cos’è un soggetto? Come lo possiamo definire, delineare e in relazione a quale strato sociale, a quale attività, a quale capacità di mobilitazione e a quale immaginario? Cos’è un soggetto che si crea in questo modo? Si tratta di un soggetto collettivo, composto da persone individuali, formato da individui, da soggetti umani singolari che si uniscono e che creano una dimensione collettiva sulla base di qualcosa che li unisce e li mette insieme.

Quindi, che cos’è quel fattore che mette insieme le persone? In passato c’era l’idea che la composizione di classe, compresa la soggettività che esprimeva, fosse collegata alla composizione tecnica del capitale cioè che vi fosse una relazione tra quello che si fa all’interno del processo produttivo del capitale e quella che è la soggettività che si esprime e quindi il lavoro nella fabbrica e di conseguenza la figura dell’operaio massa, con le sue avanguardie e le sue pratiche degli anni ‘60/’70.

Quando il lavoro esce dalle fabbriche e viene dislocato a livello globale, emerge un’altra categoria poi criticata e che può essere utile per una discussione: quella dell’operaio sociale ovvero l’operaio della riproduzione, l’operaio della fabbrica diffusa, come si diceva negli anni ‘70.

Di fronte a un processo che trasforma e che disloca la contraddizione tra lavoro e capitale, emerge anche un’altra contraddizione enormemente più ampia che è quella tra natura e capitale, sulla quale noi basiamo le mobilitazioni ecologiche. Quale tipo di soggetto si può generare all’interno di questa configurazione? Qual è il tipo di capitale che è all’opera all’interno del processo e delle strategie di distruzione della natura, di utilizzo dell’acqua, di piegamento dei territori verso il profitto, compreso il taglio degli alberi?

Si tratta di un problema di collocazione dentro una composizione tecnica del capitale, potremmo pensare in una maniera abbastanza idealista, che il capitale è in grado di estrarre profitto o valore da ogni tipo di attività che si tratti di un’attività produttiva o che si tratti di un’attività riproduttiva.

Il rapporto tra produzione e riproduzione è fondamentale e rimanda a quella che è la classica contraddizione tra produzione e consumo: consumare significa riprodurre. Produrre significa creare i beni per il consumo. Che relazione c’è tra produzione e consumo? Produzione significa creare opportunità affinché si riproducano le società che alimentano quello che potremmo chiamare il metabolismo socio ecologico. Ecco, questo è un altro termine che adesso proverò a spiegarvi. Dall’altro lato anche il consumo crea lo spazio per la produzione. Per cui la relazione tra produzione e consumo possiamo pensarla in termini di consumo produttivo e produzione consumatrice. Il processo di produzione è sempre processo di consumo, soprattutto di natura, ma anche di corpi, di forza lavoro, non solo di lavoro nella sua dimensione astratta, ma della forza lavoro dell’arbitrato, cioè della dimensione delle attività mentali, corporee ed energetiche che inseriamo nel processo di produzione. Di fronte a questa situazione possiamo pensare che vi sia una composizione tecnica del capitale che immediatamente sia in grado di dare spazio o di identificare il soggetto ecologico.

A questo punto, potremmo ragionare sul modo in cui le configurazioni di capitale si stanno delineando attraverso il concetto di metabolismo. Nei Quaderni della decrescita, è riportata una parte monografica dedicata alla relazione con il marxismo, Marx e il pensiero ecologico della decrescita, in cui emergere un concetto già proposto da John Benjamin, cioè il ricambio organico della natura. L’altro aspetto è quello della frattura metabolica, tipica del processo di produzione del capitale per cui un processo metabolico ovvero un processo di scambio costante di risorse, di attività, di conoscenze, di sentimenti tra società e natura,anche se natura è troppo generico come termine per cui parliamo di biosfera, di un processo di ricambio organico tra società e biosfera. Questo processo è trans storico, riguarda tutte le società, perché le società senza la biosfera non potrebbero vivere, quindi è un processo segnato da una storicità che è quella del capitale e della frattura che si crea a un certo punto quando il processo di ricambio tra società e natura si interrompe o viene sottoposto ad anomalie (anomalie rispetto a cosa?) La questione è interessante perché Marx scrive nel terzo volume del Capitale che c’è una frattura metabolica nel rapporto tra città e campagna. Il ricambio organico, tipico per esempio delle città medievali dove quelle che erano le risorse della campagna entravano in città e i rifiuti ritornavano nella campagna sotto forma di risorse per l’agricoltura da riutilizzare, a un certo punto si interrompe e quello che viene espulso dalla città non viene più riutilizzato, la conseguenza è un consumo indiscriminato e non più riproducibile di risorse dalla biosfera. Decifrare questa idea di Marx, che non sviluppa ampiamente nei suoi scritti, è stata la sfida che ha dato vita al dibattito sui concetti di stock, di metabolic depth intesta come una prospettiva di ricongiunzione tra il pensiero di Marx e il pensiero ecologico. La quantità di materiali tra libri, articoli, varie produzioni scientifiche, è straordinaria.

Il tema metabolico è interessante perché è anche uno strumento, una metodologia di contabilità, un indicatore di cosa va bene o va male nel rapporto tra la società e la natura. Il problema è la definizione di una soglia, e il processo di frattura, parliamo di frattura rispetto a cosa? Rispetto a quale capacità riproduttiva? La questione che si apre è dinamica: non sappiamo quali sono i limiti, al di là dei planetary boundaries, che ci vengono dati, per cui ci sono 15 settori che stanno andando oltre una certa soglia, vuol dire che stiamo consumando più di quanto possa essere riprodotto. Questi limiti riguardano il ciclo dell’azoto, il tema dell’acqua, la biodiversità e via dicendo, quello che non sappiamo, però, è dove inizia il processo di collasso.

Veramente la natura non è più in grado di fornirci quelle che sono le risorse che ci servono per la riproduzione della società nel suo complesso, compreso quello che è il sistema fondamentale di riproduzione di questa società che è il capitale? Ora, il problema principale è che non si riprodurrebbe quel tipo di società che ha l’obiettivo di generare la riproduzione del capitale, in un processo autopoietico e autorinforzante, costante, dinamico e circolare, perché il vero problema è che il capitale che non si ferma mai. La circolarità del capitale, la sua proiezione, forma una spirale crescente che porta alla situazione in virtù della quale abbiamo un momento di frattura che ha fornito ai movimenti i dati e la consapevolezza entro i quali muoversi.

Noi sappiamo che l’acqua può mancare, che i cambiamenti climatici sono reali, ma non molti ammettono che sia una conseguenza delle attività umane.

Abbiamo una base di partenza di dati, perché il metabolismo è diventato anche una metodologia di contabilità dove si analizzano i flussi metabolici attraverso differenti metodologie, compresa l’impronta ecologica che misura quanta biodiversità e biocapacità noi consumiamo rispetto a quelle che sono le capacità riproduttive dei sistemi ecologici.

Abbiamo diversi modelli per studiare il metabolismo, ma non sappiamo ancora dove arriverà il momento della rottura, il momento della catastrofe, il momento del collasso, del rallentamento. Anche a livello scientifico è impossibile avere un dato definitivo. Dove inizierà il vero collasso? Nondimeno credo che dovremmo partire da questo presupposto. La questione del metabolismo è importante: ci dà non soltanto un’indicazione su quello che sta avvenendo, ma ci dà anche il campo di battaglia.

Ora le lotte che vediamo, che si stanno dando e diffondendo, riguardano tutte i cicli metabolici.

Nonostante non sia caduta completamente in disgrazia la contraddizione capitale-lavoro, la contraddizione capitale-natura sta emergendo come quella sostitutiva del lavoro: non lo copre, non lo esclude, ma lo ricompone, lo ricomprende in un’altra dimensione che è quella del lavoro metabolico. Qui si apre una discussione interessante. I momenti di degrado accelerato dei sistemi ecologici sono in grado di generare il soggetto ecologico, dove si forma un soggetto ecologico se non dentro la dimensione della crisi dove si manifestano delle potenzialità? Negli anni ‘70 vi era la crisi da processo di produzione, chiamato in maniera mitica fordismo, tuttavia non sono momenti solo di crisi, perché dalla reazione ad esse si genera cambiamento. Il modello di produzione dell’epoca è stato una conseguenza delle lotte che non erano ancora lotte per il comunismo, lo alludevano in parte, ma erano soprattutto lotte di riformismo radicale: la lotta per il salario, le lotte per i servizi, lotte per la casa, lotte per la scuola, lotte per la salute. Erano pezzi di un mosaico più grande che in qualche modo era in grado di disegnare una società del futuro che avevamo chiamato comunismo. Quello che si sta delineando adesso è qualcosa di più profondo, perché qui non è solamente in gioco quella che è la qualità riproduttiva di una classe, la classe del lavoro operaio, qui c’è di mezzo una è una contraddizione ben più profonda che riguarda l’intera popolazione mondiale. Una popolazione che sappiamo essere stratificata, per cui le conseguenze di questa crisi sono conseguenze diversificate e stratificate negli impatti. Dall’altro lato emerge come oggi il capitale debba fare i conti con i propri limiti, laddove diminuisce l’affettività naturale del capitale, come la chiamava Marx, che nel terzo libro del Capitale scrive15 pagine relative al problema delle materie prime e dove afferma che se diminuisce la fertilità del capitale cioè la produttività della natura, crescono i costi di estrazione, distribuzione, lavoro e lavorazione delle materie prime per cui si avranno delle conseguenze immediate sui tassi di profitto. Si possono quindi delineare quelli che Mauro Bonaiuti chiama rendimenti decrescenti o diminuzione della fertilità naturale del capitale: il capitale potrebbe trovarsi -a questo punto- in difficoltà e potrebbe mettere in campo delle contromisure abbastanza radicali. La riduzione del costo della forza lavoro -se ho una riduzione dei profitti devo ridurre i salari- sta già capitando in diversi paesi del mondo, in più l’aumento dei costi di riproduzione aumenta l’inflazione. Di fronte a questa scelta radicale, questo scenario radicale determinato dalla contraddizione tra natura e capitale, credo che si potrà giocare qualcosa di importante.

Il capitale non ha ancora colonizzato interamente il pianeta, è in buona parte colonizzato, ma la componente umana del pianeta non ne occupa l’intera superficie. Potremmo quindi dire che il capitale non è ancora un sistema totale organico, c’è qualcosa che sfugge ad esso, ci sono dei residui come noi. Noi siamo residui di questo processo di sussunzione totale del capitale, della società nel capitale, nonostante questo abbia già lavorato in profondità. Se pensiamo alla società della merce, al soggetto della merce, a come siamo legati al processo di ricambio organico della merce, basata sul denaro, allora capiamo come sia estremamente difficile pensare a un processo di emancipazione dai circuiti monetari e del denaro nella nostra società. Nondimeno penso che il capitale non abbia ancora la totalità del controllo e della colonizzazione delle menti, dei corpi, dei saperi, delle conoscenze, delle attività e della natura, ritengo che la natura non sia ancora sotto controllo totale del capitale. Ora, che cosa implica questo? Che l’idea e l’utopia del capitale, la comunità capitale, una comunità ricostruita attorno al fondamento della merce, possiamo ripensarla e creare una nuova forma di comunità, una comunità altrettanto universale, una comunità che si costruisce contro, in controtendenza e in alternativa alla comunità del capitale. Come metterlo in pratica? Vista la contraddizione dal quale nasce questo progetto di totalizzazione del capitale, quindi il fallimento nel sottoporre e interamente la natura (nella sua dimensione naturale e umana) al suo controllo, si potrebbe partire dal costituire una comunità-natura dove natura umana, natura non-umana provano a riconciliarsi. Ora, il processo di riconciliazione non significa ritornare a un passato mitico, abbiamo bisogno di pensare ad esempio a quanti alberi abbiamo bisogno? Ripensare al quanto? Abbiamo bisogno di pensare al cibo, a quanti ulivi abbiamo bisogno e che non possiamo permettere di sostituire con dei manghi, o da altre piante esotiche, che è quello che stanno facendo in Puglia, dove vengono tagliati gli olivi ammalati di Xylella e stanno piantando piante altre pensando di fare i soldi. Sono battaglie fondamentali, da riproporre e che ci pongono davanti al fondamento di un processo compositivo a livello di comunità, ovvero in un processo in cui i singoli si riscoprono all’interno di quello che definisco un comunismo ecologico. Questa idea del comunismo non è quello che ci dicono che è comunismo, quel comunismo che ha fatto mille disastri, ad esempio Mao e i cinesi negli anni ‘50 hanno sterminato i passeri perché si pensava riducessero la produzione di riso, di grano e di cereali per poi scoprire che non erano affatto correlati, imbarazzante. L’idea che ho io di comunismo è un’altra. Perché? Perché il comunismo sta insieme a comunità, ai commons e ne condivide l’alimentazione. Il comunismo di Maurray Bookchin ci rimanda a questo, un comunismo cumulativo (non poteva chiamarlo comunismo, lui era per un comunismo libertario, un comunismo anarchico), un comunismo ecologico. Dovremmo ripensare i nostri linguaggi, i nostri immaginari e le nostre pratiche, per orientarle verso un orizzonte che ci attrae. Chiudo con una piccola proposta metodologica. Negli anni ‘70 agivamo sulla base di un metodo, per campagne: concentravamo tutti gli sforzi e la forza che avevamo su uno o due obiettivi concreti e per un periodo lungo nel tempo ci progettavamo e ci impegnavamo a raggiungerli alcuni obiettivi. Abbiamo bisogno di rilanciare delle campagne: fare campagne sull’acqua, contro le dighe, contro il taglio degli alberi, per la difesa del verde, campagne per i trasporti. Abbiamo bisogno di ragionare su degli obiettivi concreti e le pratiche che li definiscono. Credo però che in primis dovremmo ragionare sull’uso della resistenza e della forza nei processi di di di resistenza: dobbiamo ritornare a essere più radicali, altrimenti non ce la faremo. Poniamoci il problema di concretizzare i metodi e le forme di lotta.

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