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Contro i test di valutazione scolastica – Un movimento in crescita negli Usa

 

E’ tendenza ormai consolidata in tutto l’Occidente la sostanziale convergenza delle politiche e dei riferimenti ideologici da parte dei partiti che fino a poco più di due decenni fa tendevano a posizionarsi lungo le linee parallele destra-sinistra. Da questo punto di vista in Italia l’esperienza di Renzi rappresenta probabilmente uno dei casi più avanzati di forze politiche che si propongono di rappresentare la Nazione in maniera indistinta proponendo un’orizzonte valoriale proposto come neutrale ed indistinto, fatto di merito, efficienza ecc… Ma al di là delle patine, c’è una cosa che, su scala molto più ampia che l’Italia, connette le forze politiche istituzionali: la posizione entro cui inseriscono Stato, Mercato, Società. Infatti, pur con tutte le ovvie critiche che si possono (devono!) muovere ai partiti del passato, è pur vero che essi incarnavano modelli differenti di visione politica, a seconda di come questi tre elementi venivano articolati o gerarchicamente posizionati. Oggi invece la materia plasmabile offerta dall’ideologia neoliberale uniforma le posizioni. Tuttavia, dentro una retorica che vorrebbe l’individuo come anteposto alla società (o addirittura l’inesistenza di quest’ultima, come affermava la Tatcher), e l’annullamento dello Stato quale blocco per l’espandersi delle libere forze del mercato, si cela in realtà dell’altro. Anche i più spinti fautori della dottrina neoliberale sanno bene infatti quanto sia necessario, per imporre la logica del mercato (ossia, detta banalmente, la possibilità per i ricchi di arricchirsi sempre più, come qualsiasi dato sulla crescente polarizzazione sociale mostra), un uso dello Stato per governare e disciplinare la società. E dunque come l’enfasi anti-statalista venga usata esclusivamente per tagliare welfare, ma non certo per annullare lo Stato stesso. Emblematica al riguardo è stata l’esperienza americana dell’amministrazione Bush. Laddove storicamente la destra americana si caratterizzava per una critica statale ed un’enfasi sulla spontaneità, sul privato, sul locale, la superpotenza Usa (ed il conseguente impegno globale) a guida neocon ha esteso e rafforzato le prerogative ed il potere del governo federale. Dunque, al di là delle giaculatorie sulla spontaneità delle forze di mercato, si è affermato sotterraneamente un approntamento di strumenti di governance adatti a plasmare l’intera società, soprattutto in funzione della politica estera. Certo, tanta acqua è scorsa sotto i ponti da allora, ma questa attitudine ad un utilizzo dello Stato quale regolatore sociale non è certo sfumata sotto Obama.

Una visuale ottimale per analizzare questa trasformazione è quello dell’istruzione. Questa infatti, più che altri aspetti, mette in luce questo passaggio. Storicamente è stata un terreno di scontro tra le retoriche repubblicane (che sostanzialmente sostengono che i figli debbano essere educati dalla famiglia secondo i suoi valori, mirando dunque all’istruzione privata quale unico sistema formativo) e quelle democratiche (che invece enfatizzano la funzione dell’istruzione pubblica quale elemento di innalzamento sociale complessivo). Tuttavia proprio sotto Bush, facendo ricorso a retoriche buoniste e vagamente egualitarie, è iniziata una rapida trasformazione nel sistema scolastico statunitense. Nel 2002 è infatti passata la legge No Child Left Behind, che ha posto le basi per un regime federale di accountability. Sostanzialmente lo stato “centrale” (federale) poneva una griglia standard di valutazione delle scuole sviluppata attraverso test degli studenti, in base alla quale venivano dirottati i fondi. Questa nuova logica è stata totalmente sposata da Obama, che nel 2009 ha lanciato la nuova politica col programma Race to the Top, la quale ha congiunto ai parametri di valutazione delle scuole forniti dai test introdotti precedentemente anche la valutazione dei professori. Questa giunzione ha ulteriormente innalzato la valutabilità delle scuole, e la tendenza alla chiusura di istituti scolastici iniziata con Bush si è impennata. Infatti questi sistemi di valutazione implicano che una scuola con risultati bassi nei test vada considerata (astraendo dal contesto in cui questa si trova) come fallimentare, e dunque da chiudere. Se dal 2003 migliaia di scuole hanno chiuso in tutto il paese, questo percorso continua e si accresce. Ad essere maggiormente colpite ultimamente sono state Chicago e Philadelphia, dove 49 e 22 scuole sono state chiuse l’anno scorso, rispettivamente, con l’ovvia conseguenza di massicci licenziamenti: 2100 a Chicago e ben 4000 a Philadelphia.

Le retoriche egualitarie che legittimano questi provvedimenti sono fortissime, tanto che il piano di Obama è stato sostenuto anche da fondi filantropici. Si vede come questo nuovo misto ideologico consenta di tagliare al massimo la spesa in welfare, proprio in nome dell’uguaglianza. Un altro discorso fondamentale per questo è una narrative anti-statalista, che attacca i sindacati scolastici dicendo che proteggono i professori fannulloni… In sostanza si è tematizzato che le failing school, o l’educazione pubblica broken, debbano portare lo Stato a chiudere le scuole con scarsi risultati e aprirne di nuove, licenziando gli insegnanti giudicati inefficienti. I risultati di queste politiche sono purtroppo facilmente immaginabili. Innanzitutto la prima ondata di chiusure di edifici scolastici ha colpito i quartieri più poveri, neri e latini, dove i bassi risultati nei test hanno prodotto una razzia di scuole, sostituite per lo più (e non in forma eguale) da istituti private-run publicy-funded, ossia gestiti da privati ma anche con fondi pubblici. Conseguentemente sempre meno scuole sono disponibili nei quartieri poveri, e come dice un’attivista contro il sistema dei test: “accountability has done nothing but disrupt neighborhoods”. Altra conseguenza è la veloce erosione delle materie non rientranti nei test (in particolare l’educazione musicale e le arti). Infatti gli insegnanti sono spinti a lavorare esclusivamente affinché gli alunni abbiano buoni punteggi ai test (ne va del loro stipendio…), e di conseguenza c’è anche da parte dei manager scolastici una forte pressione ad insegnare esclusivamente con questa finalità, portando a ritenere superflue altre conoscenze. Ma il problema si pone anche rispetto alle modalità stesse dell’insegnamento. I test che vengono sottoposti sono infatti, secondo molte critiche, elaborati senza tenere in considerazione le differenti fasi pedagogiche, impoverendo l’immaginazione, la creatività e l’apprendimento esperienziale. Altro effetto è una aumento vertiginoso delle pressioni sugli studenti a ridosso e durante i test, con forme d’ansia che spesso inducono alla medicalizzazione.
Dal 2010 è stato formulato il Common Core State Standards Initiative, i nuovi standard nazionali del programma Race to the Top, velocemente adottati da 45 stati. Il tutto senza una discussione pubblica riguardo alla formulazione dei test stessi, elaborati da una ristretta cerchia di 145 “saggi” di nomina governativa. Questo programma prevede che gli standardized test vengano applicati sin dal secondo livello scolastico, ossia per i bimbi di 7-8 anni [mentre prima era dal terzo. Negli Usa ci sono otto livelli, fino ai 14 anni, ai quali segue il collage fino ai 18 e quindi l’università]. Questa continua rincorsa alla standardizzazione e valutazione verso l’età infantile impone conseguentemente un livellamento di tutti gli stadi formativi. Anche le scuole materne, pur non dovendo sostenere test, tendono a preparare i bimbi verso questo orizzonte. Spesso infatti gli stessi genitori spingono in questa direzione, per paura che i figli non siano successivamente in grado di ottenere buoni punteggi e conseguentemente non possano in futuro accedere ai migliori livelli scolastici. Un attivista contro i test dice che “le classi per i bambini piccoli sono diventate vere e proprie fabbriche per apprendere gli standard”. Di conseguenza sin dall’età di due-tre anni i bimbi delle classi sociali medio-alte vengono mandati in istituti con rette stratosferiche (ad esempio a New York si parla di costi dai 25 ai 35 mila dollari l’anno, per bambini di quell’età…). Mentre per quelli (il 99% di occupy-memoria) che non si possono permettere ciò, inizia sin da piccolissimi il crescente divario selettivo che li accompagnerà tutta la vita.
Dal 2011 è cresciuto molto velocemente un movimento anti-test, che per numeri e diffusione si sta configurando come uno dei più significativi nella storia della scuola negli Usa. Si definiscono come Test Resistance Organization, e di base la pratica adottata è quella dello united opt-out, letteralmente un rinunciare, un chiamarsi fuori, che significa il non mandare i figli a scuola durante le giornate dei test. Ciò è quasi ovunque consentito legalmente (spetta ai genitori decidere), ma tuttavia non è una scelta semplice. Potrebbe infatti svantaggiare i bambini laddove in futuro volessero accedere alle migliori high school o alle borse di studio, i cui criteri di accesso sono entrambi basati sui risultati dei test.

Ci sono stati casi di successo eclatanti: nella scorsa primavera a Seattle una scuola ha chiuso nelle giornate dei test (che spesso durano per sei-otto giorno giorni). Nel New Jersey il governatore repubblicano ha concesso di fronte alle pressioni una moratoria di due anni. Le percentuali di assenza nelle giornate dei test hanno toccato punte di un terzo degli allievi in molte città dell’Est nell’ultima tornata. E di fronte alle parole di Joanne Weiss, capo del Department of Education di New York, il quale dice che “L’adozione degli standard comuni significa che gli imprenditori dell’educazione potranno godere di un mercato nazionale dove i prodotti migliori potranno essere taken to scale”, c’è stata una vivace protesta di moltissimi genitori e sindacati di insegnanti che lanciano una Spring of Education per boicottare i test che si svolgeranno nelle prossime settimane. E’ venuto dunque sviluppandosi un movimento critico e di resistenza forte e articolato, che comprende sindacati degli insegnanti, forme associative di genitori e modalità di mobilitazione non strutturate ma spesso molto incisive.
Questo movimento non è ovviamente scevro da contraddizioni. Alcuni lo accusano di essere poco agito dalle collettività più povere. Esso infatti vede mobilitata come parte importante quella che socialmente si potrebbe definire come bianca e stanziata nei suburb, con svariate assonanze ideologiche e biografiche col Tea Party. Questa componente attacca i test avendo in mente un’idea di scuola privata ed una delega totale alla famiglia rispetto all’educazione dei figli. Altre figure del movimento (che comunque comprende anche molti genitori provenienti da quartieri poveri) sono invece appartenenti a famiglie di medio-alta istruzione dei centri urbani. D’altro canto proprio questa eterogeneità di attori (connaturata ad un sistema come la scuola), sta imponendo una convergenza di soggettività molto differenti (che taglia trasversalmente le geografie urbane e di classe, cosa rara negli Usa) che può essere anche molto produttiva per mettere in discussione le rigide divisioni di questa società.
Ma la questione dei test e della scuola lascia aperta anche un’altra domanda che da troppo i movimenti tendono ad eludere, e che se oggi possono ricominciare a porsi non è certo per l’influenza di qualche intellettuale ma per dei crescenti effettivi coefficienti di forza sociale. Essa attiene al tema della riproduzione e dell’educazione primaria. E suona più o meno così: come riprodurre il sociale al di fuori e contro lo schema sociale attuale? Come pensare la crescita dei bambini senza rimanere incastrati nelle asfittiche logiche della delega al mostro della famiglia o al Leviatano statuale? Domande alle quali, per l’appunto, solo l’immaginazione politica sviluppantesi nella rottura e nei percorsi di lotta potrà rispondere…

 

nc

 

Per scrivere questo articolo ci si è basati su alcune discussioni, su questo articolo su un giornale di movimento newyorkese;

e su dati reperibili in siti contro i test come questi: ChangeTheStakes e TimeOutFromTesting

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