Il più bel sobborgo di Milano. Il laboratorio postcoloniale genovese
Contributo per il dibattito del convegno “Per una critica della città globalizzata” inviatoci da Emilio Quadrelli, che farà da discussant per la sessione di mercoledì 30 maggio alle 18 chiamata “Conflitti sociali nella città globalizzata. Il territorio e il politico oggi. Nodi e lineamenti di dibattito tra spazi occupati e inchiesta metropolitana”.
La zona abitata dai colonizzati non è complementare alla zona abitata dai coloni. Queste due zone si contrappongono, ma non al servizio di un’unità superiore. Rette da una logica puramente aristotelica, obbediscono al principio di esclusione reciproca: non c’è conciliazione possibile, uno dei due termini è di troppo. (F. Fanon, I dannati della terra)
“Genova diventerà il più bel sobborgo di Milano”. In questo modo il neo sindaco di Genova Marco Bucci chiosava, in maniera vincente e convincente, la sua campagna elettorale. Un programma che, ed è la prosaica realtà, non è né di destra, né di sinistra ma cristallizza al meglio il senso dei passaggi materiali in corso. Siamo ormai ben distanti dall’epopea del triangolo industriale e dalle sue storie. Da città operaia e portuale Genova si è trasformata, giorno dopo giorno, in città turistica. L’immaginario, insieme a gran parte dell’economia, della città non ha più nulla a che vedere con il porto e le storie dell’angiporto. Le ciurme dei marinai hanno ormai da tempo cessato di riversarsi tra i vicoli misteriosi della città vecchia. De Andrè non abita più qui. Non c’è più spazio per la sua poesia continuamente ispirata dai ritmi anomali del mondo informale del centro storico e dalle storie sbagliate dei suoi abitanti. Tutta quella storia particolare, propria della città, è andata evaporandosi. Genova si trasforma in città turistica e postcoloniale. Un gustoso balocco soprattutto per Milano, la metropoli postmoderna del capitale finanziario. Questo il dato bruto e reale con il quale è necessario fare i conti. Nulla è più come ieri e tirare a mezzo la storia che fu ha ben poco senso. La memoria di questa città non è stata azzerata da una qualche, per quanto dubbia, “operazione culturale” bensì dalle trasformazioni materiali che l’hanno attraversata. Se, in passato, Genova è stata un laboratorio politico e culturale non proprio secondario non da meno lo è oggi solo che, nel presente, questo laboratorio è quello della città postcoloniale non più quello della città operaia novecentesca. La ridefinizione e nuova strutturazione dello spazio urbano ne rappresenta un passaggio strategico.
Se c’è stata una città che, nel passato, ha al meglio sintetizzato l’esistenza delle “due città” questa è Genova. La città operaia e la città borghese si sono a lungo contrapposte in un conflitto dai toni particolarmente aspri. La storia di ieri ci racconta, e a ragione, di quartieri operai e popolari sostanzialmente fuori controllo dove solo un PCI e un sindacato obbligati a giocare in permanenza la carta della “doppiezza” riescono a stento a contenere una radicalità di classe sempre in procinto di rompere gli argini del “confronto democratico”. Non è un caso, forse, che sia proprio Genova e il suo retaggio partigiano a dare vita alla prima formazione guerrigliera del secondo dopoguerra e che quella formazione nasca proprio dentro il partito e il sindacato. Nel costituirsi di quella formazione c’è, per intero, la sintesi di un’esperienza storica che dalla vittoriosa insurrezione dell’aprile ’45 passando per le giornate del “luglio ‘60” saldandosi con le lotte del biennio rosso ’68 – ’69 rilancia a piene mani l’idea della rivoluzione interrotta. Una storia che si radicalizza, se possibile, ancor più negli anni ’70. Genova è la città del primo sequestro politico, “operazione Sossi”, del primo omicidio politico, “operazione Coco”, del primo omicidio anti PCI, “operazione Rossa”. La “colonna genovese” delle BR ha numeri da partito di massa. In tutto ciò vi è ben poco di apologetico ma la sobria esposizione di dati di fatto.
In quel contesto la dimensione dello spazio urbano, la sua organizzazione e fruizione erano l’esatta fotografia di quanto il conflitto politico metteva in scena. I quartieri operai e popolari si contrapponevano rigidamente alla città borghese. Un conflitto che attraversava per intero tutto lo spazio urbano cittadino. Di ciò ne erano una felice esemplificazione la “linea di condotta” delle gang di quartiere le quali organizzavano in continuazione scorribande dentro le zone rispettabili della città. A bordo della famigerata Lambretta con elaborazione Ancellotti, senza disprezzare l’utilizzo di Alfa Romeo rubate, le gang, alla stregua di nuovi barbari, portavano terrore e scompiglio nei quartieri e nei locali della “Genova bene”. I “teppisti” genovesi erano irriducibilmente ammantati da un “genetico” odio di classe. Da parte sua la “città legittima” non stava a guardare. Genova è stata la culla di tutti i progetti golpisti e reazionari. La sua borghesia, arroccata nei quartieri benestanti e benpensanti, facendo leva su un potere ecclesiastico particolarmente prono al clerico – fascismo, coltivava sogni revanscisti all’insegna di un cattolicesimo ultramontano profondamente tradizionalista e antisemita. Questa storia è il “mondo di ieri”.
In tutto ciò lo spazio urbano era conteso ma non separato. La linea di confine tra le “due città” era di natura politica e culturale il che non impediva e limitava la libera circolazione dei subalterni anzi, per quanto paradossale la cosa possa sembrare oggi, se un qualche limite di circolazione esisteva, non de iure ma de facto, lo era per le classi dominanti. I quartieri operai e soprattutto il centro storico erano luoghi tabù per la “città legittima”. Mentre i subalterni entravano con la forza nelle zone rispettabili, gli abitanti di queste si guardavano bene dall’abbandonare le loro zone residenziali. I rapporti di forza tra le classi, e solo questi, stabilivano chi e come poteva occupare uno spazio urbano ma nessun dispositivo giuridico e amministrativo poteva arrogarsi il diritto di stabilire chi poteva o meno abitarlo. La “costituzione materiale” stabiliva i criteri di legittimità e non legittimità. Città di classe, quindi, ma non di razza.
Il sentore di quanto la città fosse cambiata lo si è avuto nel 1993 quando l’insorgenza popolare non si connotò per la sua avversione verso la città borghese e i suoi apparati ma contro gli immigrati. Per alcuni giorni la “caccia al nero” diventò lo sport preferito degli abitanti indigeni della zona vecchia e di qualche altro quartiere periferico. A ragione si può considerare quell’episodio come il “fatto storico” che da il la al materializzarsi della città postcoloniale. Esattamente in quelle giornate si consuma l’epifania della Genova rossa e antifascista. Il mondo nuovo entra prepotentemente dentro la città. Nulla sarà più come prima. Tutto ciò coincide con quel processo di deindustrializzazione che modifica alla radice i connotati antropologici della città. Il resto è storia recente. Genova non è il porto, la cantieristica o l’acciaio ma l’Acquario, Palazzo Ducale, i Rolli e via dicendo. Non più ciurme di marinai in vena di sperperare i guadagni accumulati in mesi di navigazione tra i piaceri oscuri e indicibili dei vicoli ma torme di turisti in piena overdose di selfie che si riversano non come barbari bensì come selvaggi tra le vie della città. Su ciò si rimodella per intero tanto l’economia quanto lo spazio urbano della città. La città turistica, infatti, non può che presentare determinate caratteristiche. Deve essere socialmente omogenea, non conflittuale, accogliente e consumista. La città turistica deve mettere a valore, e al lavoro, il “desiderio di evasione”. Non può permettersi la benché minima contraddizione. In questo senso vanno osservati i provvedimenti di allontanamento dalle aree turistiche degli “indesiderabili”, migranti, poveri o, più semplicemente, persone impossibilitate a consumare. Sarebbe sbagliato, infatti, leggere questi provvedimenti in un’ottica repressiva poiché, a ben vedere, non di repressione si tratta bensì di produzione e consumo. A rimanere fuori da questo spazio urbano devono essere tutti coloro i quali non possono permettersi determinati standard di spesa.
Di ciò se ne ha una felice conferma osservando il modo in cui la neo giunta di centro destra ha affrontato la questione movida. Chi immaginava l’avvento di un’era all’insegna di un perbenismo da “noi i vittoriani” è rimasto profondamente deluso e sconcertato. Per molti versi la giunta fascio leghista si è dimostrata se non più liberal sicuramente più realistica della precedente. Questa, afflitta da un neppure malcelato scoutismo e cattocomunismo, ipotizzava un “divertimento giovanile” a base di tisane al mirtillo, trinciato forte e amori casti. Più pragmaticamente, la destra, sa che la movida è cocaina, alcol e, almeno in parte, anche consumo sessuale a pagamento ma sa anche che, i fruitori della movida, vogliono consumare i propri desideri senza intoppi di sorta. Gli intoppi sono gli indesiderabili che, puri corpi estranei, si aggirano tra le vie della movida. La loro presenza che oscilla tra il mesto e il minaccioso non può che disturbare la messa in scena del divertimento. Un divertimento il cui costo oscilla, mediamente, tra i cento e i duecento Euro a serata. E stiamo parlando della sua bassa soglia. La presenza di questi corpi disturba lo spettacolo, per questo devono essere rimossi. Esattamente qua nascono i processi di confinamento. Le zone turistiche e della movida sono così interdette a poveri e migranti. Questa la forma assunta dalla moderna “costituzione materiale”. Questa la messa in – forma della città postcoloniale.
Ma i confini della città postcoloniale sono rigidi? Assolutamente no. Al pari delle classiche città coloniali i confini della città postcoloniale sono assai porosi poiché devono consentire il passaggio della forza lavoro in pelle scura sulla cui fatica e sudore poggia gran parte del business turistico e dell’intrattenimento mondano. Gran parte dei lavoratori del settore turistico sono, infatti, stranieri. Il grande circo della movida e dell’intrattenimento turistico poggia quasi per intero sul lavoro di coloro i quali, fuori dal contesto lavorativo, sono ascritti al mondo degli indesiderabili e, in virtù di ciò, espulsi da questi ambiti urbani. Questi possono attraversare i limiti delle aree urbane per bene solo per infilarsi in qualche retrobottega dove consumare, per quattro spiccioli, interminabili giornate lavorative dopo di che, in tutta fretta, devono iniziare, il più delle volte in bicicletta, il ritorno agli ambiti periferici che li attendono. Come nel più classico dei mondi coloniali la città del colono vive del lavoro dei colonizzati. Un lavoro socialmente invisibile e privo di riconoscimento. Una condizione sostanzialmente coatta e servile. In tutto ciò un ruolo non secondario è dato dal lavoro di genere. Come nei mondi coloniali anche nella città postcoloniale le donne sono al fondo della scala. A Genova la loro presenza è particolarmente ampia. Città la cui popolazione è tra le più vecchie del Paese vede confinate, in veste di schiave domestiche, una quantità indefinibile di donne migranti. Queste, per non attraversare la città, non hanno avuto neppure bisogno di un decreto poiché la loro segregazione è implicita nel ruolo che sono chiamate a ricoprire. Operative, praticamente, h24 sono deprivate di una qualunque forma di individualità. Vere e proprie ombre, non poche volte maltrattate, sono prive di una vita propria poiché del tutto assoggettate dentro la dimensione della cura. A queste, ovviamente, si aggiungono le moltitudini di prostitute, di diverso livello, che contribuiscono a rendere sempre più esotico il panorama turistico e a movimentare le notti della movida. Infine, ma non per ultime, tutte quelle schiere di donne, spesso clandestine o sotto ricatto per il rinnovo del PDS, messe al lavoro in una delle tante ma invisibili “fabbriche del sudore” finalizzate alla produzione di capi di abbigliamento, pelletteria e alimentari. Questo ciò che, molto sinteticamente, il “laboratorio Genova” sta ponendo in atto.
In tutto ciò non è secondario osservare il veloce adeguamento del cosiddetto Terzo settore al contesto postcoloniale. Sorto come elemento costitutivo e costituente del “modello disciplinare” questi si sta rapidamente adeguando alla “società dei dispositivi”. Sono le cooperative del Terzo settore, infatti, che stanno gestendo in prima persona la messa al lavoro, coatto e servile, della razza al fine di rendere presentabili e appetibili gli spazi urbani destinati al business turistico e della movida. Pulizie delle strade, dei parchi, tinteggiatura dei muri “oltraggiati” da scritte sovversive e murales non asettici sono alcuni dei “lavori” che le cooperative attive nel “mondo dell’accoglienza” hanno preso in appalto dal Comune. Appalti sui generis poiché, i lavoratori, non scambiano tempo con denaro, non il salario ma una paternalistica ricompensa è prevista per lo svolgimento delle mansioni. Qua il dispositivo confinario declinato sulla “linea del colore” conosce una ulteriore accelerazione. Si tratta, infatti, della ascrizione del lavoro migrante dentro la dimensione del lavoro servile. Per quanto in maniera estremamente sintetica queste righe fotografano il presente di Genova. Un fatto sembra evidente: il “mondo di ieri” non c’è più. Ma, una volta lasciata da parte la pur comprensibile malinconia per il tempo che fu e la tristezza per il tempo presente, tutto ciò cosa ci racconta? Siamo forse giunti alla fine della storia? Nessun treno sarà più in grado di porsi contro la storia? Non necessariamente. Esattamente nel saper assumere questo scenario obiettivo si misura l’iniziativa di partito. Esattamente nel saper cogliere e organizzare le infinite contraddizioni della città postcoloniale si misura la capacità di stare sul filo del tempo. In tutto ciò almeno una certezza sappiamo di averla: il colonialismo (e il postcolonialismo) cedono solo con il coltello alla gola.
Emilio Quadrelli
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