La crisi climatica ha un’unica soluzione: uscire dal capitalismo
Ciò che spicca nelle elezioni degli ultimi decenni è l’assenza di reali alternative al sistema attuale. Partiti senza una vera visione politica di lungo periodo non sembrano contrapporsi per visioni globali divergenti ma per correttivi anodini di un sistema che non regge più ma che viene unanimemente condiviso. Le logiche di mercato, non contestate da alcuno dei partecipanti alle elezioni, non lasciano alcuno spazio di autonomia alla politica, chiamata a blindare e a rafforzare le dinamiche di competitività sfrenata tra individui, gruppi economici e stati. Questo vuoto della politica risulta ancora più evidente in quelle forze che per vocazione storica dovrebbero anelare a un cambiamento dei rapporti sociali, dei rapporti di classe si sarebbe detto un tempo, e quindi a una trasformazione radicale del sistema. Tale ruolo era ricoperto in passato dai partiti social-comunisti che avevano come aspirazione massima il superamento del capitalismo. Paradossalmente, oggi che il capitalismo presenta contraddizioni drammatiche e insanabili tale critica è quasi del tutto scomparsa se si eccettuano pochi cenacoli di intellettuali.
di Fabrizio Venafro da Volere la Luna
A dire il vero, l’obiettivo del superamento del sistema capitalista è venuto sbiadendo gradualmente già dagli anni seguenti il secondo dopoguerra. Il compromesso keynesiano aveva già conquistato la classe operaia con l’illusione che questa avrebbe potuto godere di una buona fetta della torta. In seguito, l’affermarsi della razionalità neoliberale ha dato il colpo di grazia all’attecchimento di un qualsiasi pensiero critico che mettesse in discussione i dogmi del libero mercato strutturato sulla competizione senza quartiere. Nel 1994, Marco Revelli scriveva Le due destre, in cui prendeva atto che nel panorama politico italiano non esisteva più la classica contrapposizione tra destra e sinistra. A fronteggiarsi si trovavano due destre: l’una tecnocratica ed elitaria (liberale), l’altra populista e plebiscitaria (fascistoide). Entrambe operavano da sponda istituzionale per gestire il passaggio alla società postmoderna nella quale una nuova ragione del mondo avrebbe soppiantato tutti gli schemi appartenenti alla società fordista e al compromesso tra capitale e lavoro.
Oggi, il capitalismo mostra il drammatico fallimento delle promesse di benessere e felicità diffusi. La disuguaglianza è aumentata a livelli mai registrati nella storia recente e meno recente. Sono aumentati anche i conflitti, nonostante la caduta del blocco sovietico; il venir meno della guerra fredda ha aperto la stura ai molti conflitti caldi e ha lasciato libera la bestia americana di azzannare chiunque fosse sospettato di minare ai suoi interessi, come prescriveva la dottrina Clinton. La povertà è aumentata anche negli stati a economia avanzata, grazie all’attacco al mondo del lavoro e alla scelta degli stati di abiurare al loro ruolo di garante del compromesso tra capitale e lavoro. Anzi è stata spianata la strada affinché il capitale fosse libero di esprimere tutta la propria aggressività. È aumentata anche la precarietà dei lavoratori che va di pari passo alla compressione del loro potere d’acquisto. La crisi climatica ha raggiunto un punto di non ritorno e gli eventi meteorologici avversi, quali siccità, inondazioni, uragani, si abbattono soprattutto su popolazioni e ceti già provati dai disagi creati dal capitale. Corollario di cambiamenti climatici e guerre sono le crescenti migrazioni tra gli stati, dovute al tentativo di fuggire da situazioni drammatiche nella speranza di trovare altrove un habitat più favorevole.
Nonostante il capitalismo ci abbia regalato un mondo peggiore, a livello globale, sembra che la sua egemonia non venga meno. Alla coscienza di alcuni che il modello non funziona più e produce solo disastri per le collettività, corrisponde l’assenza da parte dei più di una vera critica che ne metta in dubbio la funzionalità. Il panorama politico italiano, ma non solo, rispecchia tale contraddizione. Nessuno che si interroghi sul futuro dell’umanità rimanendo ancorati su fattori tecnici utili a dare risposte sul breve periodo. La politica è ridotta ad amministrazione, a tecnocrazia. Il programma massimo, coincidente con il proseguire di uno sviluppo capitalistico votato a un’accumulazione permanente e distruttiva, non viene messo in discussione. La stessa tecnocrazia serve a mascherare di neutralità e di ineluttabilità decisioni politiche prese a monte. Mentre la nave affonda, ci si preoccupa di drenare acqua con i secchi anziché tappare la falla.
Negli anni successivi al dopoguerra, nell’ambito della Scuola di Francoforte ci si interrogava su chi potesse essere il soggetto rivoluzionario, dato che la classe operaia era stata conquistata dalle sirene del capitale che aveva promesso una fetta più ampia della torta. Alcuni individuavano tale soggetto tra le frange più disagiate, tra il sottoproletariato, tra i nuovi immigrati ma tali previsioni si sono rivelavate errate. Soprattutto, la nuova razionalità neoliberale, con la frammentazione dei gruppi collettivi, il rifiuto dell’intermediazione e l’individualizzazione spinta, ha impedito la formazione di una coscienza critica analoga a quella formatasi nel movimento operaio otto-novecentesco. Negli ultimi decenni, non solo è mancata la domanda su chi potessero incarnare le contraddizioni del capitalismo e promuovere una rivoluzione antisistema, ma è mancata la stessa critica radicale al sistema, il desiderio di superare il capitalismo. L’omologazione è stata quasi totale.
Eppure, c’è una questione dirompente che riporta i nodi al pettine e aspetta solo qualcuno che ne comprenda la portata rivoluzionaria. La crisi ambientale è l’unica la cui faglia non può essere nascosta dal capitalismo. La voracità di quest’ultimo in nome di un’accumulazione fine a se stessa, la sua necessità a fagocitare le risorse naturali e a scaricare rifiuti e inquinamento nell’ambiente, la sua tendenza all’esternalizzazione dei costi che gli impedisce di valutarne l’impatto rappresentano tutti aspetti non emendabili. Intervenire su tali aspetti significherebbe mutare la natura stessa del capitalismo e quindi porsi in direzione di un suo superamento. Il capitalismo ha capito la gravità della situazione. Per questo ha promosso per decenni campagne di negazionismo per occultare i danni dovuti al modello di accumulazione. A ciò si deve il ritardo con il quale la comunità politica è arrivata a prendere in considerazione i moniti del mondo scientifico che anni addietro venivano considerati eccessivamente allarmistici.
Negli ultimi anni, un filone di studi efficacemente ripercorso da John Bellamy Forster (Ecologia, in M. Musto, Marx revival, 2019, Donzelli) ha evidenziato come Marx abbia denunciato la spoliazione della natura prima della nascita del pensiero ecologico borghese. Nei suoi scritti lo sfruttamento della natura e quello dell’uomo rappresentano le due facce della medaglia del capitalismo. Si pensi alle osservazioni su «come il capitalismo ha depredato la natura» e su «come ha spogliato gli esseri umani della loro essenza naturale-fisica (oltre che intellettuale), usandoli prematuramente per poi gettarli via, senza costi per il capitale». Inoltre sono descritte due concezioni della crisi ecologica pienamente attuali: crisi economiche causate dall’ambiente, dalla crescente scarsità di risorse naturali e dal crescente aumento dei costi dell’offerta; crisi ecologiche vere e proprie, le quali non sono contemplate dal capitalismo come costi in virtù delle sue capacità esternalizzanti. Oggi queste crisi sono evidenti più che mai e il cambiamento climatico, che ha indotto gli scienziati a parlare dell’avvento di una nuova era, l’Antropocene, sta mostrando come il capitalismo possa perpetuarsi solo a scapito dell’esistenza del genere umano. Ancora una volta distruzione della natura e dell’umanità vanno di pari passo. Quelle promesse di felicità e benessere che il capitale aveva fatto e con le quali aveva illuso anche i propri antagonisti si sono infrante sul muro di un sistema autoreferenziale. Nel quale il mezzo è diventato il fine e l’uomo, al pari della natura, è subordinato a produzione e consumo.
Se ci si ferma a riflettere sul futuro dell’umanità, si comprende come quelle fratture evidenziate sopra non potranno che aumentare a causa della crisi climatica. Per questa ragione, nulla più della crisi ecologica, nel XXI secolo, può assumere quella portata universale e rivoluzionaria che, nel XX secolo, si riteneva avesse la classe operaia, sola in grado di azione rivoluzionaria in quanto principale vittima dell’alienazione e della disumanizzazione del sistema. Tanto che oggi si comincia a parlare di un nascente proletariato ambientale come unico portatore di una carica rivoluzionaria allo stesso tempo ecologica e sociale. In fondo, i movimenti dei Fridays For Future sono la naturale evoluzione di quelli di Occupy Wall Street dato che entrambi hanno uno stesso nemico: quell’un per cento più ricco che alimenta un sistema di accumulazione che va a detrimento della stragrande maggioranza dell’umanità.
Se si auspicano soluzioni per la crisi ambientale, sarebbe miope cercarle all’interno di un sistema dominato dalla logica capitalista. Si possono individuare soluzioni anodine all’interno del sistema stesso, come il ricorso ad energie green ed ecosostenibili. Ma, in realtà, la contraddizione, con tutto il suo portato di catastrofe ecologica e umana, esploderà in modo deflagrante. L’emergenza richiede una critica radicale e un mutamento sistemico. Le teorie della decrescita, se semanticamente poco attraenti, colgono però il nocciolo del problema. Rappresentano quanto auspicato giusto cinquant’anni fa dagli scienziati che, incaricati dal Club di Roma, produssero quel pionieristico studio su I limiti dello sviluppo. La soluzione auspicata in quello studio era incompatibile con il capitalismo. Infatti, in luogo di una continua competizione volta a generare una distruzione (di ambiente e risorse naturali) creatrice (di merci inutili, rifiuti e inquinamento), si auspicava una collaborazione tra Nord e Sud del mondo con una riduzione del tenore consumista del primo e uno sviluppo rispettoso dell’ambiente del secondo grazie alle tecnologie offerte dai paesi ricchi. Ciò che deve essere abbandonato è il dogma produttivista con annesso mantra del Pil. Questo a sua volta basato sulla crescita della produzione e del consumo di merci non necessarie che drogano artificialmente l’economia producendo esternalità non più tollerabili. Di fatto si tratta di uscire dal capitalismo. Il che, come ha affermato Mélenchon, non è una posizione ideologica ma di necessità.
A cogliere il testimone della rivolta, come argomenta Forster, potranno essere le popolazioni del sud del mondo, più esposte alle contraddizioni del capitalismo. La stragrande maggioranza dell’umanità emarginata dagli interessi dominanti a fronte di un mondo sempre più disumanizzato potrà prendere coscienza della ineluttabilità di un mondo caratterizzato da uno sviluppo umano sostenibile. Allora si potrà prendere atto della necessità della traduzione della critica ecologica classica marxiana nella prassi rivoluzionaria contemporanea.
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