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La guerra fredda tra Iran e Arabia Saudita

 
di lorenzo carrieri

 

La situazione attuale del Medio Oriente si sta polarizzando intorno al confronto tra le due potenze principali dell’area, l’Arabia Saudita e l’Iran : le due potenze del Golfo Persico stanno combattendo ormai da tempo una guerra a bassa intensità per il dominio e il controllo dell’area medio orientale. Questo conflitto si combatte su più fronti, uno dei quali è ben rappresentato da quello siriano. Da una parte abbiamo il regime di Bashar al-assad, sostenuto dall’Iran e dall’Hezbollah libanese; dall’altra troviamo i cosiddetti “ribelli” del Free syrian army, un eterogeneo insieme di jihadisti provenienti un po’ da tutto il mondo, sostenuti dall’Occidente, dalle monarchie del golfo (sauditi in primis) e dalla Turchia (implicitamente anche da Israele).

(Una versione ridotta di questo contributo è stata pubblicata su Nena-News)


DUE POTENZE DIFFERENTI


Da una parte abbiamo l’Iran, stato erede dell’Impero Persiano, con una maggioranza sciita e una legittimazione popolare molto forte.

Avulso ai rapporti con l’occidente, che l’ha sempre considerato un cortile dove testare governi amici e metodi repressivi (rovesciamento del governo Mossadeq nel 1951 ad opera della CIA, instaurazione dinastia Pahlavi), la rivoluzione iraniana del 1979 ne ha fatto un paese sovrano nel senso proprio del termine.

L’Iran, a seguito della sua rivoluzione, diventa uno stato revisionista1, uno stato che contesta lo status quo e cerca di esportare la rivoluzione islamica al di fuori dei propri confini. La politica estera aggressiva lo porta allo scontro con l’Iraq (stato a maggioranza sciita governato da una minoranza sunnita da Saddam Hussein): tra il 1980 e 1988 la guerra devastante tra i due paesi porta con sé un milione di morti e fa pendere l’ago della bilancia verso una gestione del potere più pragmatica e poco propensa ad esportare la rivoluzione “islamica” all’estero.

La leadership iraniana ha preferito dunque, all’esportazione della rivoluzione, la costruzione di alleanze che ne garantissero un equilibrio di potenza coi vicini e un’influenza del cosiddetto arco sciita: ecco come spiegare l’alleanza con la Siria, potenza laica e socialista, con il baluardo della teocrazia islamica. Alleanza che fonda quell’asse della Resistenza che ne fa gli unici stati medio-orientali contrari all’egemonia americana sulla regione.

Allo stesso tempo però Teheran porta avanti politiche di balancing of threat e di contrasto contro quelle potenze islamiche filo-occidentali come l’Arabia Saudita: dalle controversie di stampo prettamente religioso all’interno dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica fino ad arrivare alla gestione della guerra in Siria sono moltissimi i punti di contrasto tra le Ryahad e Teheran.

La volontà della potenza iraniana di farsi interlocutrice dell’Occidente nella gestione della crisi siriana, con le aperture di Rohani, ha allontanato Teheran dalla politica estera aggressiva tipica dell’ultimo Ahmadinejad: ma dobbiamo considerare che determinati spazi di apertura nei confronti dell’Occidente siano da interpretare come il risultato di una politica estera più pragmatica pensata dalla guida suprema Ali Kahmenei volta ad aumentare il ruolo iraniano nell’area e il suo pivotal role nella gestione dei conflitti, non ultimo quello siriano.

 

Dall’altra parte c’è l’Arabia Saudita, stato che riesce (o prova) a conciliare puritanesimo islamista sunnita e alleanza con l’occidente.

Lo Stato saudita nacque grazie alla fusione di interessi tra principi tribali, i Saud, e ulema wahhabiti, con l’appoggio non indifferente delle potenze di Gran Bretagna prima, e Stati Uniti poi2. : essi si rendono coscienti del fatto che, per assicurare la stabilità del loro potere, seduti come sono su un isola di petrolio in un oceano di povertà, al centro di conflitti internazionali, con confini immensi e difficili da difendere, circondata da stati più popolosi e più poveri, necessitano di due cose: la legittimazione religiosa su cui poggia il loro trono e la benevolenza attiva della più grande potenza occidentale.

Nel periodo di massima espansione dell’ideologia panarabista essa si lega sempre più a doppio filo con la potenza a stelle e strisce. Ryahad diventa la testa di ponte dell’occidente in Medio oriente (insieme ad Israele è lo stato che spende di più nell’acquisto di armi dagli USA) sia come baluardo anticomunista attraverso il finanziamento di movimenti panislamici, sia nel ruolo di swing producer per calmierare i prezzi petroliferi, per moderare la politica araba filo-nasseriana e per riciclare i suoi petrodollari utilizzando istituzioni finanziare americane3.

Ecco dunque la special relationship tra Stati Uniti e Arabia Saudita, prima amici contro il panarabismo giacobino e il terzomondismo militante di Nasser and co poi uniti contro l’Unione sovietica atea e comunista, oggi insieme in Siria contro l’Iran.

 

Da una parte il principale alleato degli Stati Uniti nell’area, dall’altra il suo maggiore nemico: varie sono state le tappe della conflittualità tra questi attori, non ultima appunto la guerra in Siria.

C’è chi vede nel confronto Iran-Arabia Saudita uno scontro tra due differenti interpretazioni dell’Islam: uno puritano, sunnita, wahhabita, l’altro sciita, imamita, duodecimano. Due scuole di pensiero e di lettura della storia dell’Islam che rimandano ad un contenzioso millenario sulla successione del Profeta.

Le conflittualità tra queste due potenze si sono manifestate a seguito della rivoluzione iraniana del 1979: fino a quel momento, pur essendoci questioni ancestrali di inimicizia tra persiani (Iran) e arabi, l’Iran dello Shah e l’Arabia di Faysal avevano proseguito a braccetto nel contenimento dell’Iraq e del nasserismo panarabista, tutori della penetrazione americana nell’area.

 

La caduta dello shah di Persia e la sua sostituzione con un regime radicale sciita ha trasformato le relazioni di odio-amore in relazioni di vero e proprio odio tra i due paesi: la retorica dell’Ayatollah Khomeini contro il regime saudita denuncia l’ipocrisia dell’integralismo saudita, principale sostenitore dell’imperialismo americano nella regione.

Proprio durante gli anni ’80 le relazioni tra i due paesi toccano il fondo: continui gesti di ostilità reciproca accompagnano l’avvicinamento alla guerra Iran-Iraq quando una coalizione di stati arabi guidata dall’Arabia Saudita sostenne il presidente iracheno nella sua battaglia contro l’Iran rivoluzionario. Le monarchie conservatrici del golfo, con in testa i sauditi, temevano molto di più la diffusione della minaccia iraniana nei loro paesi, dove vi era un alta percentuale di sottoproletariato di fede sciita, rispetto alla potenza militare irachena.

Ma fu nel 1987, con il cosiddetto “incidente dell’Hajj”4, che i rapporti vennero interrotti del tutto: durante il pellegrinaggio alla città santa de La Mecca vi furono scontri tra le forze di sicurezza saudite e pellegrini iraniani che manifestavano contro gli Stati Uniti e l’eresia internazionale, 400 furono i morti, per la maggior parte iraniani.

Con la fine della prima guerra del golfo (Iran-Iraq) sembrò che i rapporti potessero distendersi, ma la vicenda Rushdie5 fece nuovamente degenerare le cose: il governo saudita interpretò infatti la fatwa emessa contro lo scrittore direttamente da Khomeini come un gesto di captatio benevolentiae del mondo islamico, a cui Ryahd rispose con una sua fatwa contro Rushdie.

Se l’invasione irachena del Kuwayt, così come la comune partecipazione all’OPEC (Organizzazione dei paesi produttori di petrolio) e all’OCI (organizzazione della cooperazione islamica), sembrò avvicinare le due potenze nella condanna dell’azione di forza di Saddam, rimangono punti di attrito molto forti.

 

continua…

Note

 

1Raymond Hinnebusch, 2003, “International politics of the Middle East”; Louise Fawcett, 2005, “International relations of the Middle East”

3Georges Corm, 2005, “Petrolio e rivoluzione. Il vicino d’Oriente negli anni d’oro”

5Nel 1988 lo scrittore indiano Salman Rushdie scrive “I versetti satanici”, un’opera considerata blasfema della figura del Profeta Maometto

POLITICA ESTERA

Innanzitutto il primo punto di scontro tra queste due potenze è dato dalle differenti determinanti della politica estera: se da una parte c’è una potenza che ha tutto l’interesse a mantenere la stabilità dell’area, soggetta all’egemonia americana, dall’altra se ne trova una revisionista, che fa del cambiamento dello status quo (a suo vantaggio) la guida della sua politica estera.

 

Gli attriti e le rivalità tra queste due potenze si stanno manifestando nella questione delle minoranze sciite nei paesi del golfo, uno su tutti il Bahrein, ma non solo: Ryahad vede queste rivolte come il tentativo di de-stabilizzare l’area da parte di Teheran per aumentare la sua influenza sui paesi del Golfo.

Anche all’interno della stessa Arabia Saudita la minoranza sciita, che rappresenta il 15% della popolazione, ha reclamato, e continua a farlo, la tutela dei diritti: vi sono state delle rivolte, soprattutto nella provincia orientale di Al-Sharqiyya, represse nel sangue dalla polizia saudita, che hanno reso ancora più tesi i rapporti tra i due stati6.

L’invio di truppe saudite a difesa della monarchia del Bahrein sotto l’egida del Consiglio per la Cooperazione del Golfo ha fatto storcere il naso all’Iran, che ne ha visto una mossa per sedare una rivolta guidata da sciiti in un paese dove il 70% degli abitanti professa questo credo: tuttavia non bisogna interpretare queste rivolte in chiave confessionale, contando che le domande portate avanti da queste ultime sono di carattere generalista e universalista, e non si rifanno a nessuna confessione religiosa (anche se all’interno di questi paesi la classe subalterna e sottoproletaria professa, per la maggior parte, il ramo sciita dell’islam).

Allo stesso tempo però l’importanza strategica del Bahrein per gli Stati Uniti d’America come quartier generale della quinta flotta e base operativa delle navi da guerra Usa ha dato adito a certi tipi di lettura della situazione.

Le parole d’ordine dunque della politica estera saudita, in comune con quella americana, sembrano essere il contenimento di quella rinascita sciita che si è avuta dopo la rivoluzione iraniana del 1979.

L’influenza iraniana si è scontrata con Ryahad anche a seguito della caduta di Saddam Hussein, in Iraq. L’Iran è stato in grado di sfruttare il periodo successivo all’invasione per costruire la sua influenza sia all’interno della popolazione civile, per il 60% sciita, sia attraverso la formazione di gruppi di resistenza armati, come l’Esercito del Mahdi: l’Arabia Saudita si è perciò rifiutata di perdonare e ridurre l’ingente prestito fornito a Saddam Hussein nella prima guerra del golfo dell’80 (quasi 30£ di dollari) per la troppa vicinanza del governo di Al Maliki con l’Iran, e, secondo alcuni cabli di Wikileaks, quest’ultimo ha accusato il regno saudita di fomentare conflitti settari e finanziare un esercito sunnita parallelo.

L’impegno iraniano nella modifica dello status quo si esercita dunque ad amplissimo raggio al di fuori dei propri confini, e, potremmo dire, anche al di fuori delle aree di influenza sciita: fino alla svolta qatariota di Hamas, l’organizzazione dei Fratelli Mussulmani era strettamente legata a Teheran e riceveva da quest’ultimo sostegno finanziario e militare e aveva come sua base operativa Damasco, dove era ospitato il suo capo militare Kahaled Meshal.

 

LA QUESTIONE ENERGETICA E NUCLEARE

Il secondo elemento caratterizzante le relazioni tra questi due paesi è dato dalla rilevanza della questione energetica e del nucleare7: la competizione tra queste due potenze si manifesta anche in campo economico-energetico, sia per quanto riguarda il ruolo all’interno dell’OPEC (Organizzazione dei paesi produttori di petrolio) sia per l’annosa questione del nucleare iraniano.

Sia Iran che Arabia Saudita, oltre che essere potenze con un peso politico specifico, sono potenze energetiche: i due paesi hanno una combinazione di petrolio e gas naturali da far invidia a molti, e l’Iran ha il vantaggio strategico di trovarsi tra il Mar Caspio e il Golfo Persico, così come di poter controllare lo stretto di Hormuz, dove passa il 40% del petrolio trasportato in tutto il mondo.

Lo scontro tra queste due potenze è vivamente sentito nell’ambito dell’OPEC, dove diverse strategie perseguite dai due paesi si trovano a fronteggiarsi: se da una parte Ryhad, che controlla un terzo delle esportazioni dell’Organizzazione, persegue una strategia di partnership con i paesi compratori (il suo famoso ruolo da swing producer e calmieratore dei prezzi) volta a facilitare l’afflusso dell’oro nero e alla salvaguardia della crescita economica mondiale, dall’altra Teheran tenta di far prevalere il proprio punto di vista di riduzione della quote di produzione, in maniera tale da da aumentare il prezzo del greggio, così da aumentare i propri introiti, anche per poter sostenere il tasso d’inflazione del 30% e il regime di sanzioni dell’ONU8.

Le sanzioni promosse da USA e (parzialmente) dall’UE nei confronti di Teheran (embargo del greggio iraniano, stop a transazioni finanziarie con la Banca Centrale Iraniana) hanno limitato la produzione di quest’ultimo e ostacolato gli investimenti diretti esteri, consegnando nelle mani dell’Arabia Saudita il vantaggio competitivo: essa controlla 538 miliardi di dollari di riserve estere contro le 105 dell’Iran, pur avendo una popolazione di un terzo delle dimensioni dell’Iran9.

Ryahad continua a usare la sua influenza sui mercati energetici per cercare di “domare” Teheran cercando di persuadere Cina e India nel diminuire il loro coinvolgimento nel settore energetico iraniano per diventare il fornitore favorito di queste potenze, con scarsi risultati.

Per Teheran il pericolo ultimo di tutto ciò è l’insolvenza: alcuni suggeriscono che andrebbe letta in questa maniera il tentativo di Reapprochment di Teheran nei confronti dell’Occidente, dopo gli anni di deficit di bilancio sotto il governo Ahmadinejad, stretto tra il regime delle sanzioni, l’esaurimento del fondo di stabilizzazione e l’inflazione galoppante.

 

L’altra questione centrale del confronto tra i due paesi riguarda il programma nucleare iraniano: Ryhad riconosce che, una volta ottenuta la tecnologia necessaria allo sviluppo, Teheran acquisirebbe un vantaggio strategico fondamentale.

La “cold war” tra il regno saudita e la teocrazia iraniana si è spostata sul piano della corsa al nucleare: gli stessi funzionari sauditi hanno minacciato di perseguire un programma atomico di natura civile, già concordato con Stati Uniti e altri paesi, in maniera da costruire 16 reattori nucleari nei prossimi due decenni; il governo saudita sostiene che in quanto firmatario del trattato di non proliferazione il suo programma nucleare sia per scopi pacifici. Teheran avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco, supportando pubblicamente il programma nucleare saudita, ma allo tesso tempo è cosciente che se la comunità internazionale si focalizzasse sulle sue attività nel campo del nucleare, Ryhad, con l’aiuto del Pakistan, potrebbe diventare una potenza nucleare a suo discapito.

Tra i 250 mila documenti de-secratati da Wikileaks viene citato il re saudita Abddullah ( così come l’ambasciatore saudita a Washington, Adel al Jubeir, il quale usa espressioni colorite come “cut off the head of the snake” per riferirsi a Teheran) per aver più volte esortato gli Stati Uniti ad attaccare l’Iran per mettere fine al suo programma di nucleare10: queste dichiarazioni dimostrano come siano in primis gli arabi, e in particolare le monarchie del Golfo, e non Israele, a temere che l’Iran si doti della tecnologia nucleare, che fungerebbe più da deterrente per intimidire i loro paesi e allargare l’area d’influenza iraniana piuttosto che da equilibrio di potenza nei confronti di Israele (e Stati Uniti).

continua…

Note

 

6F. Romano, F. De Nicolo, Arabia Saudita-Iran: tra rivalità regionale e tensione petrolifera in “Equilibri. A new perspective on global affairs”, maggio 2012

8N. Abibi, The economic legacy of Mahmoud Ahmadinejad in Middle East Brief

 

 

LA QUESTIONE SIRIANA

Bisogna leggere l’appoggio dei sauditi ai ribelli siriani come un tentativo di mantenere la stabilità regionale e per il contenimento dell’influenza iraniana nella regione: obiettivo principale di Ryahad è dunque installare un regime filo-saudita a Damasco, che vada a rompere quell’asse della resistenza composto da Iran e Siria (e Hezbollah in Libano).

Il comportamento double-faced di Ryahd nei confronti delle rivoluzioni arabe non può altrimenti essere compreso: se da una parte i sauditi forniscono il pieno sostegno ai ribelli siriani, attraverso l’invio di armi e combattenti (e la predicazione anti-sciita da parte degli ulema sauditi), dall’altra i monarchi del golfo condannano le primavere arabe in Tunisia e Egitto, e forniscono un prestito di 5 miliardi di $ all’indomani del colpo di stato militare al generale Al Sisi11.

La prospettiva saudita in Siria si è scontrata con quella qatariota (e turca): se da parte dell’emirato di Doha, principale finanziatore dei Fratelli Musulmani (repressi in Egitto col beneplacito dei sauditi), c’è un moderato appoggio al Consiglio Nazionale Siriano e alle forze più moderate, i sauditi, attraverso i loro contatti dei servizi segreti con i jihadisti, spingono per un radicale “regime change” finanziando il Fronte Al-Nusra e altri gruppi legati ad Al Qaeda (l’Alleanza Islamica, l’Esercito dell’Islam).

Il principale obiettivo dei sauditi rimane quello, attraverso una tattica di leading from behind dei gruppi jihadisti (grazie alla mediazione della losca figura del principe Bandar Bin Sultan), di cambiare i rapporti di forza sul campo, oggi favorevoli ad Assad, soprattutto dopo il mancato strike americano a Damasco e le aperture iraniane all’Occidente.

Allo stesso modo l’Arabia Saudita cova degli interessi interni nel mantenimento della situazione conflittuale in Siria. Il governo e le autorità di Ryahad guardano alla situazione siriana come una manna dal cielo che gli permette di distogliere l’attenzione dai gravi problemi interni del regno Saud (disoccupazione, corruzione, ondate repressive) e che funge da calamita per le migliaia di jihadisti presenti sul suo territorio.

 

L’Iran al contrario ha invece tutto l’interesse nel mantenere il regime esistente al potere: con esso Teheran forma il cosiddetto Asse della Resistenza. A prima vista non ci sono punti in comune tra queste due potenze: si tratta di un’alleanza tra un regime ufficialmente di ispirazione socialista e laico e uno apertamente teocratico, di una nazione con una maggioranza sunnita (80%) con una a maggioranza sciita, di un partito di ispirazione panarabista con una teocrazia panislamica; oltre al fatto che la Siria è un paese arabo, l’Iran persiano. Questa strana alleanza12 decolla dopo che il ramo alawita, di cui è appartenente il presidente Assad, viene riconosciuto come appartenente allo sciismo con una fatwa nel 1973 da parte dell’imam Mussa Sadr: ciò contribuisce a rinforzare la posizione interna di Hafez Al-Assad, minacciato da rivolte popolari dopo l’abrogazione dell’articolo costituzionale per cui il presidente doveva appartenere all’Islam13. Oltre a ciò l’Iran rivoluzionario si avvicina sempre di più alla Siria dopo l’interruzione dei rapporti con Israele e Stati Uniti: essi condividono la linea intransigente verso Israele e contro l’influenza americana nell’area. L’asse Siria-Iran si rinforza durante la prima guerra del Golfo, in cui Assad sostiene il regime degli Ayatollah contro il possibile rafforzamento iracheno, e dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982, in cui si dà un nuovo teatro di mutua cooperazione contro nemici comuni (contro Israele e gli Stati Uniti, la Siria, presente sul territorio libanese come Forza Araba di Dissuasione dal 1975, permette all’Iran di schierarsi nella valle della Bekaa dove contribuisce alla nascita di Hezbollah).

Anche la decisione di far intervenire a difesa del regime di Assad l’organizzazione politico-militare Hezbollah è dimostrazione dell’interesse iraniano nel mantenimento di Assad al potere: molte sono state le voci contrarie all’interno dello stesso movimento sciita libanese che si sono levate contro questa “intromissione” negli affari siriani14.

Ma il calcolo della leadership iraniana è giunto alla conclusione che, non potendo intervenire direttamente sul campo essa stessa con il suo esercito, doveva forzare Hezbollah a intervenire: intervento necessario pertumblr_inline_moaxerowl21qz4rgp non perdere le linee di rifornimento che passano per la Siria, vitali per il movimento, e contro l’infiltrazione jihadista all’interno del Libano stesso, con la conseguente esposizione del fragile equilibrio confessionale del paese dei cedri al conflitto con tutto quello che ne potrebbe derivare. Dunque l’intervento di Hezbollah è stato “giustificato” nelle parole del suo leader, Hassan Nasrallah, come parte di un piano volto a difendere in primis l’Asse della Resistenza messo in pericolo dal piano degli Stati Uniti e Jihadista di conquista della Siria e, in secondo luogo, l’integrità del Libano, minacciato dalle infiltrazione jihadiste nei suoi confini.

L’alleanza tra questi due paesi, Iran e Siria, è dunque strategicamente comprensibile nell’ottica del mantenimento dell’autonomia del sistema regionale medio-orientale contro i tentativi di egemonia americana sull’area: le ultime mosse di reapprochment della leadership iraniana sono da interpretare da una parte come un apertura nei confronti del discorso sul nucleare verso l’Occidente, ma, allo stesso tempo, come la ricerca di una soluzione politica e non militare alla situazione siriana, accordo che consideri l’Iran non come parte del problema ma come parte della soluzione, con un ruolo attivo nel bilanciamento dei poteri regionali.

Il riavvicinamento degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran potrebbe portare giovamento ai due attori. Il coinvolgimento di Teheran in chiave anti-talebana in Afghanistan e di supporto al governo iracheno sarebbero vitali per gli Stati Uniti, inoltre essi potrebbero alleggerire la pressione sullo Stretto di Hormuz, concentrandosi su altri scacchieri internazionali. Da parte iraniana il miglioramento delle relazioni potrebbe significare una serie di investimenti americani nelle infrastrutture e nelle tecnologie del paese, e, soprattutto, una fine del regime delle sanzioni che gravano sul paese con un’apertura nei confronti dell’uso civile del nucleare: ma tutto ciò a discapito dell’alleato saudita, a cui, questi ultimi sviluppi delle relazioni americo-iraniane, non piacciono proprio.

 

Note


12Goodarzi J., 2009, Syria and Iran. Diplomatic Alliance and Power Politics in the Middle East

 

13Raymond Hinnebusch, 2002, “Syria. Revolution from above”

14E. Picali, H. Varulkar, Lebanon openly enters fighting in Syria in The Middle East Media Research institute repreibile al sito http://www.memri.org/report/en/print7231.htm

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