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David Harvey: ‘La struttura della città è il prodotto della dinamica capitalista’

A 78 anni è una delle voci più influenti delle scienze sociali nel mondo. Attraverso la geografia, David Harvey ha dato nuova aria al pensiero marxista interpretando le disuguaglianze a partire da un approccio spaziale, mostrando come il capitalismo muove le sue pedine nella città e minaccia di renderla invivibile. Andrà a Valparaíso invitato al Festival Puerto Ideas, e da New York ha conversato con The Clinic su modelli urbani e modelli di rivoluzione: Avverte che “non si può cambiare la città senza forti movimenti sociali”.

Perché la geografia ha assunto un ruolo da protagonista nella critica al modello economico e sociale?

Il fatto è che oggigiorno molte città del mondo stanno sviluppando comunità isolate, limitando spazi e paesaggi in funzione delle classi sociali, con una violenza molto difficile da contrastare. Lo studio della produzione di spazi, allora, è un prisma di osservazione per intendere come si stiano segregando le classi sociali tra loro.

E perché la critica a questa segregazione urbana si trasforma in una critica al capitalismo come tale?

Perché la struttura della città è il prodotto della dinamica capitalista. Parte del problema proviene dall’accumulazione di capitale nelle città, che funzionano come fonti di produzione di denaro. Questa enorme accumulazione di capitale, siccome ha necessità di diventare redditizia, si riversa su investimenti per la produzione di spazi urbani, per la costruzione di condomini e di strutture su grande scala, che successivamente, a loro volta, si trasformano nella struttura di classi, nella forma che prendono le città. Costruire nella città è un affare molto redditizio, ma il tipo di costruzione più redditizia è destinata agli strati socioeconomici alti. Allora si costruiscono condomini esclusivi per la gente ricca, e simultaneamente si riducono gli investimenti in abitazioni accessibili alla popolazione povera.

E questa dinamica sta determinando i nostri modelli di convivenza?

Chiaro, per la forma che prende la segregazione spaziale. Per esempio, poco tempo fa sono stato a Guayaquil, Ecuador. Lì c’è una zona della città dove, ai lati di una grande strada principale, esistono solo comunità private. Non puoi uscire dalla strada principale per entrare in queste comunità senza un permesso dei residenti. Allora ti chiedi che tipo di mondo si costruisce lì, nel quale l’esperienza urbana delle persone rimane sequestrata dietro questi muri, ha un contatto quasi nullo con persone di altre classi sociali. Pertanto, è un fatto che la concentrazione di capitale si trasforma in una barriera per lo sviluppo urbano, come dire, si oppone a quello che dovrebbe essere una città. Non abbiamo bisogno di città che creino denaro, ma di città che siano buone per vivere. E questo obiettivo non è necessariamente compatibile con l’accumulazione di capitale.

La segregazione spaziale è una causa della povertà, o semplicemente una sua conseguenza?

Se guardi con cura, i quartieri segregati hanno di solito problemi di accesso alle scuole, i servizi sanitari sono pessimi, il sistema di raccolta dei rifiuti non funziona bene e la gente vive in un ambiente urbano disastroso; c’è molta disoccupazione e uno dei pochi modi di guadagnare denaro è di entrare nell’affare della droga. Allora ciò che avviene lì è che il modello di povertà si replica per la segregazione di questa comunità in una zona della città dove le opportunità per emergere sono molto ristrette, perché non ci sono adeguati servizi.

Questo approccio territoriale, apre al marxismo una nuova prospettiva di azione?

Il marxismo è una metodologia di studio con la quale si possono guardare i processi sociali, non è un’ideologia. E organizzare un nuovo approccio territoriale, per il marxismo è mostrare come la riproduzione delle classi sociali, della segregazione, della discriminazione etnica, facciano parte del modo in cui è organizzata la città. Come la vita quotidiana dei differenti gruppi di persone sta avvenendo in circostanze radicalmente differenti. Se mostri questo, stai dicendo che per sradicare le distinzioni di classe e superare la segregazione bisogna riorganizzare la città a partire da linee più democratiche.

E a partire da questa lettura marxista di ciò che è urbano, nell’attuale contesto come si definisce o si identifica il “proletariato”?

Tradizionalmente il proletariato si è organizzato nei quartieri di classe operaia e da lì ha creato reti politiche molto forti, perché ci sono forme di solidarietà che permettono di costruire delle basi per l’attività politica. Ma certamente questa organizzazione tradizionale si è trasformata per il cambiamento nella struttura del lavoro, che ha distrutto la nozione di ciò che è il proletariato. Oggi non è chiaro cosa significhi.

Come credi che abbia influito nelle condizioni di vita di questa classe operaia la costruzione di abitazioni sociali?

La tendenza alla costruzione di abitazioni sociali è diminuita.

In Cile si costruiscono su grande scala.

Sì, ma la definizione originale di “abitazione sociale” puntava all’integrazione delle classi. Alcune volte lo stato si è fatto carico di costruire abitazioni per la classe operaia integrate allo sviluppo urbano. Oggi queste persone sono state recluse e lasciate fuori dalle città, cosa che sta avvenendo in modo globale. Questo è una grave crisi sociale e basta. E che le società non stiano affrontando questo fenomeno, probabilmente si trasformerà in una grande fonte di scontento sociale.

Ma che deve fare lo stato, di fronte alla domanda di abitazioni da parte della popolazione, se costruire abitazioni sociali nella periferia è più economico e più rapido?

Per la gente è diventato estremamente difficile trovare affitti adeguati vicino ai posti di lavoro. Perché la classe sociale proprietaria dei terreni, i padroni delle immobiliari, sono portati a massimizzare la rendita, per cui i prezzi dentro le città sono andati crescendo e lì è impossibile introdurre abitazioni sociali, creandosi così nuovamente una struttura di segregazione sociale.

Immaginare nuove mappe

Nel tuo libro Il Diritto alla Città dici che il capitale ha tolto alla gente questo diritto. Ma le classi basse hanno avuto qualche volta questo “diritto alla città”?

Ci sono state epoche in cui hanno avuto più diritto alla città di ora. Stiamo vivendo ogni tipo di tumulti urbani causati dalla mancanza di questo diritto. In Brasile la gente è scesa nelle strade perché il denaro veniva usato per costruire stadi di calcio e non per l’educazione né per la salute, di cui hanno realmente la necessità. Lo stesso sta avvenendo in Turchia, sono movimenti delle città che esprimono la rabbia popolare e la frustrazione che produce la cattiva qualità della vita. E nella misura in cui i poteri politici continuano a non ascoltare queste richieste, continueremo a vedere tumulti e manifestazioni. Voi in Cile avete avuto recentemente una buona quota di proteste.

Ma, nei fatti, come si può ottenere una riorganizzazione del modello di città?

Non si può ottenere senza forti movimenti sociali, che puntino a smantellare il mondo che li circonda e a proporre una idea nuova, la costruzione di un mondo senza distinzioni di classe né discriminazioni razziali. Le città sono costruzioni umane, così come si propone una forma, se ne può proporre un’altra, il problema è che ci sono privilegi di classe che bloccano questi sforzi. È il modo con cui si organizza il potere del capitale, che ha tolto alle persone il loro diritto alla città. Ma mentre è più evidente questo fenomeno, più forti sono state le proteste e i tumulti, poiché diventa intollerabile.

Come intendi oggi la lotta delle classi?

Sappiamo che, globalmente, poche migliaia di persone controllano il mondo. Individui che sono in condizione di dettare norme ai governi, di possedere i mezzi di comunicazione e gli istituti finanziari. Questo porta ad una immensa concentrazione di potere di classe. Negli Stati Uniti esiste una specie di corruzione legale dei processi politici da parte del potere dei grandi capitali e abbiamo la necessità di scontrarci con questo, di lottare contro questo. Lottare contro il fatto che non ci sono limiti per i contributi alle campagne politiche, che permette a pochi individui, semplicemente per il loro denaro, di dettare non solo politiche locali ma a livello globale. Non possiamo intervenire in temi come il cambiamento climatico perché pochi individui non credono a questo o non gli interessa, e loro sono padroni di prendere decisioni nel Congresso.

E come viene attualizzato, attraverso questa analisi, il concetto di “rivoluzione”?

Credo che sarebbe un errore intendere una rivoluzione come un processo violento. Io preferisco intenderlo come un processo di trasformazione, basato su movimenti sociali orientati a riconfigurare la vita urbana. Nel passato ci sono stati movimenti con questo obiettivo. Negli anni 60 gli Stati Uniti vivevano una segregazione razziale molto intensa e ci fu un grande movimento per contrastarla, la maggioranza della gente fu d’accordo che bisognava fare qualcosa. E anche se continua ad esserci segregazione razziale, credo che i gruppi colpiti direbbero che stanno meglio ora che prima. Da questa prospettiva, ciò che effettivamente avvenne fu un rivoluzione urbana, un movimento attivo per i diritti civili che sfidò delle istituzioni che promuovevano la segregazione e che ottenne l’integrazione urbana di molte comunità afroamericane, tanto nella vita sociale come economica.

Non accade di solito che le proposte alternative di politica urbana partano da scenari troppo utopistici per cui nel dibattito pubblico non possono misurarsi?

Credo che un po’ di pensiero utopistico sia qualcosa di positivo. Dobbiamo poter immaginare come vedere un mondo migliore, a partire da lì si può partecipare ad attività politiche che perseguono questi ideali. D’altronde, che possiamo fare? Ci sediamo e diciamo che nulla è possibile, di fronte alla mancanza di immaginazione e di volontà politica. È sempre stata l’immaginazione lo strumento per modellare il mondo, per pensare nuove architetture, nuovi spazi. Un po’ di pensiero utopistico di questo tipo è inevitabile e molto sano.

Quali sono i tuoi pensieri utopistici?

Per esempio, mi piacerebbe vedere un mondo nel quale ci sia un sistema totale di riciclaggio urbano, di agricoltura urbana, che all’interno delle città ci siano rifornimenti di alimenti. Non sto dicendo che questo darà un soluzione a tutti i problemi, ma andrebbe molto al di là delle tecniche di riciclaggio organico. La creazione di piccoli settori di giardinaggio urbano sarebbe, senza dubbio, altamente produttiva per individui che hanno bisogno di rifornirsi di alimenti.

È in voga l’idea di produrre cambiamenti su scala locale, sono sufficienti, o un cambiamento reale si può ottenere solo cambiando tutta la struttura?

Credo che i cambiamenti politici debbano operare su una varietà di scale, non si possono ottenere cambiamenti solo dal locale. A noi geografi ci piace occuparci del concetto del “salto di scala” dei processi politici, che significa che devi muoverti da una visione locale ad una metropolitana, da una visione metropolitana ad una nazionale, e solo quando un processo politico avviene simultaneamente su distinte scale, possiamo sperare che le cose cambino. È un principio molto importante, perché molta gente di sinistra sta pensando che i cambiamenti locali siano l’unica cosa che interessa.

Che ti sembrano i “villaggi ecologici” che cercano di autogestire modelli di convivenza dove non funzionino le regole del capitalismo?

Si stanno facendo molti esperimenti di questo tipo, credo che tutti siano positivi e dovrebbero essere sperimentati. L’autogestione è qui un principio fondamentale, perché ci sono aspetti collettivi nel prendere le decisioni che possono permettere ad una popolazione di convivere in un ambiente decente. Ma torniamo al punto: come fare il salto di scala? Ci sono comunità capaci di riprodursi fuori dalla dinamica del capitalismo, ma come porti questo in una scala in cui, per esempio, tutta una città o paese possa fare lo stesso.

Credi che alla società manchi l’immaginazione?

Ci sono stati periodi storici in cui l’immaginazione è fiorita enormemente, ma credo che non siamo in una di queste epoche. Anzi, ho la sensazione che la gente non voglia pensare a cose diverse, poiché ritengono molto improbabile che avvengano. Non credono alla propria capacità di creare un futuro diverso, per questo in questo momento non esiste un’immagine di come si dovrebbe vedere una società buona e, pertanto, non si vedono nemmeno soluzioni reali per problemi come la segregazione.

Tu dici che questo cambiamento ha bisogno di forti movimento sociali. Oggi, che dovrebbero chiedere questi movimenti?

Questo lo deve decidere la gente. Nemmeno nei sogni cercherei di suggerire ai movimenti sociali cosa dovrebbero cercare di ottenere. Ma non credo che si tratti di “chiedere” nulla, ma di perseguire quello che gli spetta di diritto.

E al contrario, cosa può fare il potere politico, lo stato, per ascoltare questa richiesta e contrastare la dinamica del mercato?

Prima dovrebbe avvenire una redistribuzione del potere politico, economico e culturale, avendo come base l’idea dell’uguaglianza. La prova nei nostri tempi è che i governi dominati dagli interessi delle classi capitaliste reagiscono senza compassione e, spesso, ricorrono alla forza e alla militarizzazione, invece di cercare di aiutare a soddisfare le necessità della gente. Per questo credo che i movimenti sociali debbano, ad un certo punto, fare delle incursione nel controllo dell’apparato statale.

14/11/2014

Marxismo Crítico

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