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Città ribelli e resistenza urbana – Intervista a David Harvey – Parte II

Emanuele: Tu parli della distribuzione geografica delle crisi economiche. Più precisamente di come le crisi si diffondono da una parte all’altra del globo. Affermi che non ci si sarebbe dovuti sorprendere del collasso economico del 2008. Ad esempio oggi abbiamo crisi economiche nell’Eurozona e nel Nord America e tuttavia tu citi l’esplosione del PIL in Turchia in varie parti dell’Asia. Citi anche un paradosso: ad esempio riguardo alla Cina che, anche se ha attraversato un gigantesco processo di urbanizzazione negli ultimi vent’anni, quegli stessi progetti industriali che hanno generato enormi profitti, hanno trasferito milioni di cinesi e distrutto l’ambiente naturale. Nel contempo molti di questi progetti e città intere risultano completamente vuoti, poiché solo una piccola percentuale della popolazione cinese può permettersi tali lussi e sistemazioni. Puoi parlarci di questi fenomeni e di queste contraddizioni?

Harvey: Beh, la Cina si sta comportando nello stesso modo in cui gli Stati Uniti sono usciti dalla Grande Depressione, mediante la suburbanizzazione dopo la seconda guerra mondiale. Penso che i cinesi, una volta posti di fronte alla domanda su cosa dovevano fare, particolarmente in un declino economico globale e alla luce dei fiacchi risultati economici intorno al 2007-08, abbiano deciso di uscire dalle proprie difficoltà economiche mediante programmi urbanistici e infrastrutturali: ferrovie ad alta velocità, autostrade, grattacieli e così via. Questi sono stati i mezzi attraverso i quali è stato assorbito il capitale in eccesso. Ovviamente chiunque abbia fornito la Cina di materie prime ha avuto notevolissimi risultati, perché la domanda cinese era molto alta. La Cina assorbe metà dell’offerta mondiale di acciaio. Ciò significa che se si produce minerale di ferro o altri metalli, come fa l’Australia, allora naturalmente l’Australia se la passa molto bene non avendo sofferto particolarmente la crisi degli ultimi anni. I cinesi hanno estratto in effetti una pagina dal libro della storia economica statunitense ripetendo il programma di sviluppo economico post 1945 degli Stati Uniti.

In breve, la Cina ha immaginato di potersi salvare con lo stesso tipo di strategia e di evitare qualsiasi stagnazione o declino economico. Sai, gli Stati Uniti e l’Europa sono entrambi impantanati in una bassissima crescita, al contrario dei cinesi che hanno goduto di tassi crescita molto rapidi. Ma, di nuovo, si tratta di assorbire il capitale in surplus in modi che siano produttivi. Questo è il problema; lo dico con speranza, perché non sappiamo se il boom cinese si contrarrà. Se il boom cinese si contrarrà ci troveremo alle prese con problemi gravi. Oggi i cinesi stanno cercando di limitare il loro tasso di crescita. Così, anziché mirare a una crescita del PIL del 10%, stanno mirando a una crescita del 7-8% nei prossimi anni. Cercheranno di “darsi una calmata”. Voglio dire, su, i cinesi hanno più di quattro città vuote. Riesci a crederlo? Città completamente vuote. Cosa succederà nei prossimi anni? Queste città diventeranno aree urbane produttive? Resteranno semplicemente lì a marcire? Nel qual caso un mucchio di denaro andrebbe perso e una grande depressione colpirebbe anche la Cina.

In tal caso verrebbero prese delle decisioni politiche molto sgradevoli e certamente potremmo aspettarci gravi agitazioni sociali tra le classi lavoratrici cinesi e i poveri. Il mondo appare molto diverso a seconda di quale sia la parte del mondo in cui ci si trova. Ad esempio, sono appena stato a Istanbul, in Turchia; e ci sono gru edili dappertutto. Inoltre la Turchia sta crescendo al 7% l’anno, cosicché è attualmente un luogo molto dinamico. Stando in Turchia non si riesce davvero a immaginare che il resto del mondo sia in crisi. Poi, con un volo di due ore e mezza, mi sono recato ad Atene, Grecia; non occorra che ti dica cosa sta succedendo là. La Grecia si sta trasformando in una specie di area colpita da una calamità, dove tutto è fermo. Tutti i negozi sono chiusi e non ci sono cantieri da nessuna parte nelle città. Qui abbiamo due città che sono distanti 600 miglia l’una dall’altra, e tuttavia sono due luoghi totalmente diversi. E’ quello che ci si deve aspettare di vedere oggi nell’economia globale: alcuni luoghi in espansione, altri in frenata. C’è sempre uno sviluppo geografico disuguale nelle crisi economiche. Per me questa è una storia molto affascinante da narrare.

Emanuele: Nel Capitolo 2, “Le radici urbane della crisi”, ti occupi del collegamento tra la crisi economica negli Stati Uniti, la proprietà delle case e i diritti di proprietà individuali, che sono entrambi componenti ideologiche importanti del ‘Sogno Americano’, ma ti affretti anche a segnalare che tali “valori culturali” diventano di particolare spicco quando sono sovvenzionati da politiche statali. Quali sono tali politiche? E come passiamo parlare di queste tendenze in un’ottica ideologica? Inoltre, più avanti nel capitolo, affermi che dobbiamo andare oltre Marx, pur utilizzando le sue idee più preveggenti. Come dovremmo “andare oltre Marx”?

Harvey: Beh, se si risale agli anni ’30 si scopre che meno del 40% degli statunitensi erano proprietari della loro casa. Dunque, circa il 60% della popolazione degli Stati Uniti viveva in affitto. Questo era, in particolare, il caso delle popolazioni della classe media e inferiore. Tipicamente vivevano in affitto. Ora, si trattava di popolazioni piuttosto irrequiete. Così nei precedenti 40-50 anni era cresciuta l’idea che si sarebbero potuto stabilizzare relativamente le popolazioni irrequiete e renderle filo-capitaliste e filo-sistema offrendo loro possibilità di diventare proprietarie. Ci fu, quindi, un sacco di sostegno statale per quelle che venivano chiamate istituzioni di depositi e prestiti, che erano separate dalle banche. Erano luoghi in cui la gente depositava i propri risparmi e tali risparmi erano utilizzati per promuovere la proprietà per le popolazioni a basso reddito. Lo stesso accadde con la “Building Society” inglese. Negli anni intorno al 1890 si avvia questa tendenza, quando la classe imprenditoriale si stava chiedendo come stabilizzare la popolazione a basso reddito e renderla meno irrequieta.

Ci fu una splendida espressione usata dalla classe imprenditoriale “Gli imminenti proprietari di case non scioperano!” Ricorda: le persone dovevano indebitarsi per diventare proprietarie. E’ lì il meccanismo del controllo. Nel complesso, il sistema fu molto debole fino agli ’20 e ’30, quando il governo e la classe imprenditoriale statunitense deciso di rafforzarlo. Per cominciare, quando si assumeva un mutuo negli anni ’20, lo si poteva ottenere solo per circa tre anni, poi lo si doveva rinnovare o rinegoziare. Poi, negli anni ’30, furono creati i mutui a trent’anni. Ma perché quei mutui a trent’anni potessero funzionare, dovevano essere garantiti in qualche modo. Così questo condusse alla creazione di istituzioni statali che avrebbero garantito i mutui.

Ovviamente questo ha portato alla creazione dell’Amministrazione Federale dell’Edilizia Residenziale. Al tempo stesso, le banche avevano necessità di un modo per trasferire i mutui a qualcun altro, così crearono questa organizzazione, chiama Fannie Mae. Di nuovo, ecco ciò che si è avuto in questo periodo: organizzazioni statali usate per incoraggiare e garantire la proprietà delle case, particolarmente in capo alle classi medie e inferiori, che ovviamente scoraggiavano queste persone dallo scioperare o dal marciare non allineate. Ora si trovano indebitate. Queste istituzioni decollarono davvero dopo la seconda guerra mondiale. Durante questo periodo ci fu un mucchio di propaganda a proposito del “Sogno Americano” e di cosa significasse essere un cittadino degli Stati Uniti. Entrò in vigore la deduzione fiscale dei mutui, che ti consentiva di dedurre gli interessi del tuo mutuo. Ricorda: questa è una grande sovvenzione alla proprietà della casa. Ci furono sovvenzioni statali alla proprietà della casa; ci furono istituzioni statale che promuovevano la proprietà della casa. Così, tutto questo diventa cruciale una volta collegato alla Legge GI, che offriva diritti privilegiati di proprietà della casa e incentivi ai soldati reduci dalla seconda guerra mondiale. Ricorda, questo aveva luogo nel contesto della suburbanizzazione. Queste istituzioni divennero particolarmente cruciali per il mercato immobiliare e naturalmente esistono ancor oggi. Tutti hanno parlato di come Fannie Mae e la nuova istituzione, Freddy Mac, siano state amministrate dallo stato e tuttavia parzialmente di proprietà privata, e tuttavia vediamo che in essenza sono diventate nazionalizzate. Così, nel tempo, il governo ha promosso la proprietà della casa e svolto un grandissimo ruolo nel creare questi mutui sub-prime. [mutui ad alto rischio di insolvenza – n.d.t.].

Questo è stato fatto durante l’amministrazione Clinton, nel 1995, mentre essa cercava di promuovere la proprietà della casa tra le minoranze degli Stati Uniti. Lo sviluppo della “crisi dei sub-prime” è stato particolarmente collegato sia a quanto stava facendo il settore privato, ma anche a cosa le politiche governative garantivano. Per me questo è un aspetto cruciale della vita statunitense, in cui si è passati da un 60% della popolazione in affitto, al punto più alto, nel 2007-08, in cui più del 70% della popolazione era diventata proprietaria di case. Questo, naturalmente, crea un tipo diverso di atmosfera politica. Un’atmosfera politica in cui la difesa dei diritti di proprietà e dei lavori delle proprietà comincia a diventare molto importante. Poi abbiamo i movimenti di quartiere in cui la gente cerca di tenere certe persone fuori dal quartiere perché percepisce che potrebbero abbassare il valore delle proprietà. Si ha un diverso tipo di politica perché la casa diventa una forma di risparmio per le famiglie della classe lavoratrice e di quella media. Naturalmente la gente sfrutta tale risparmio rifinanziando la propria casa. C’è stato un sacco di rifinanziamenti durante il boom delle proprietà negli Stati Uniti. Un mucchio di gente ha approfittato degli alti prezzi delle case. Questa promozione della proprietà della casa è ora trattata come fosse stata un sogno da sempre di chi risiedeva negli Stati Uniti. Comunque, di certo, c’è sempre stata un po’ questa idea negli Stati Uniti, nelle popolazioni dei lavoratori immigrati, che se riuscivi ad avere un pezzo di terra, coltivarci qualcosa e così via, potevi finire con l’avere una vita confortevole. Tuttavia questo faceva parte del sogno degli immigrati. Ma è stato trasformato in proprietà periferiche, il che non è lo stesso che avere mucche e polli nel cortile, è essere circondati da simboli del consumismo.

Ora, il motivo per cui Marx è importante in tutto questo è che Marx aveva una comprensione acuta di come funziona l’accumulazione del capitale. Egli comprese che questa macchina della crescita perpetua conteneva molte contraddizioni interne. Ad esempio, una delle contraddizioni di fondo di cui parla Marx è tra il “valore d’uso” e il “valore di scambio”. La si può vedere all’opera molto chiaramente nella situazione delle case. Qual è il valore d’uso di una casa? Beh, è una forma di rifugio, un luogo di riservatezza privata, è dove ci si può creare una vita di famiglia, e possiamo elencare anche alcuni altri valori d’uso della casa, ma la casa ha anche un valore di scambio. Si ricordi, quando si affitta la casa, la si affitta semplicemente per la sua utilità. Ma quando si acquista la casa la si vede ora come una forma di risparmio e dopo un po’ si usa la casa come una forma di speculazione. In conseguenza i prezzi delle case cominciano a schizzare verso l’alto. Così, in questo contesto, il valore di scambio comincia a prevalere sul valore d’uso della casa. Il rapporto tra valore di scambio e valore d’uso comincia a finire fuori controllo. Così quando il mercato immobiliare frena, improvvisamente milioni di persone perdono le loro case e il valore d’uso scompare. Marx parla di questa contraddizione, ed è una contraddizione importante. Dobbiamo porci le domande: cosa dovremmo fare delle case? Cosa dovremmo fare dell’assistenza sanitaria? Cosa stiamo facendo dell’istruzione? Non dovremmo promuovere il valore d’uso dell’istruzione? O dovremmo promuovere il valore di scambio di queste cose? Perché le necessità della vita dovrebbero essere distribuite attraverso il sistema del valore di scambio? Ovviamente dovremmo respingere il sistema del valore di scambio, che è preda dell’attività speculativa, dello sciacallaggio, e in realtà perturba i modi in cui possiamo acquistare i prodotti e i servizi necessari. E’ questo il tipo di contraddizione di cui Marx era ben consapevole.

Emanuele: Nel capitolo successivo, “La creazione dei beni comuni [Commons] urbani”, tu cerchi di riconcettualizzare come potrebbero essere i ‘beni comuni’ nel prossimo secolo. Inoltre tu continui a riferirti al Lavoro di Toni Negri e Michael Hardt in tutto il libro. Ora, Michael Hardt è uno che ha partecipato un paio di volte al programma in passato [Il programma radiofonico condotto da Emanuele – n.d.t.] e ho trovato gran parte del suo lavoro molto acuto e molto interessante. Come dite tutti voi, dobbiamo cominciare a concettualizzare come trasferiremo, promuoveremo, svilupperemo e utilizzeremo i “beni comuni”. Tuttavia ciò include anche sentimenti culturali – immagini, significati, simboli, ecc. – che devono essere riconcettualizzati. Tu prosegui citando il lavoro di Murray Bookchin: le idee di ordine sociale, processo, gerarchia e via di seguito, diventano molto importanti quando si cerca di ideare delle alternative. Recentemente Christian Parenti ha scritto un grande articolo intitolato “Perché il cambiamento climatico vi farà amare lo stato interventista”, che ho trovato particolarmente interessante e preveggente in quanto tratta in modo molto serio dell’organizzazione sociale e delle ramificazioni politiche ed economiche del cambiamento climatico. In particolare affronta la questione di come usare l’apparato statale. Contemporaneamente stiamo cercando di farlo in modo sostenibile, anche se comprendiamo che stiamo vivendo in una società estremamente complessa con più di sette miliardi di persone che abitano il pianeta. Puoi parlarci di alcune di queste idee? Quali sono le tue idee su come possiamo riconcettualizzare i beni comuni?

Harvey: Beh, la concettualizzazione dei beni comuni, da quello che ho visto e letto, è su scala piuttosto ridotta. Così, molti degli scritti sui beni comuni si sono occupati dei beni comuni a livello micro. Non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò – avere un orto comune nel proprio quartiere – ma mi sembra che dobbiamo cominciare a preoccuparci e a parlare di temi su larga scala a proposito dei beni comuni, come l’habitat di un’intera bioregione. Ad esempio, come si comincia a concettualizzare come dovrebbe essere la sostenibilità per l’interno Nord-Est degli Stati Uniti? Come gestiamo cose come le risorse idriche a livello nazionale? Per non parlare del farlo a livello globale. Le risorse idriche dovrebbero essere considerate una risorsa di proprietà comune, ma spesso ci sono richieste d’acqua in conflitto tra loro: l’urbanizzazione, l’agricoltura industriale, e ogni genere di altre riserve naturali e simili. Sono lieto che tu abbia citato l’articolo di Christian Parenti perché il cambiamento climatico dovrebbe farci riconcettualizzare i beni comuni globali. Dunque la domanda è come gestire questo problema. E come gestiremo questi problemi in futuro. Servono meccanismi d’imposizione tra gli stati nazione al fine di combattere per queste tendenze o per allontanare minacce future. Cosa succede ai trattati internazionali se i governi li stracciano? Chi impedirà ad altri stati di immettere carbonio nell’atmosfera? Non lo si può fare indicendo “assemblee collettive” o “cene con il contributo di tutti”.

I dibattiti riguardo al trasformare un pezzo di terra in un orto comunitario non combatteranno i problemi che affrontiamo come specie. Dobbiamo pensare ai beni comuni come esistenti su scale diverse. Io sono interessato alla scala metropolitana-regionale. Come si organizzano le persone in queste regioni per difendere i diritti alla proprietà dei beni comuni a diversi livelli? Beh, questo livello di capacità organizzativa non si realizzerà attraverso assemblee o altre forme di organizzazione che si utilizzano oggi. Il problema è venir fuori con un modo democratico di reagire alle opinioni di vaste collettività di persone di tutto il globo al fine di gestire i diritti alle risorse di proprietà comune. Ciò comprenderebbe cose come la qualità dell’aria e dell’acqua in un’intera regione. Comprenderebbe la sostenibilità della bioregione. Queste cose non si realizzano attraverso le assemblee e soltanto perché la gente vien fuori con grandi piani a livello locale ciò non significa che questi piani funzionino a livello regionale o su scala globale. Perciò mi piacerebbe introdurre la nozione di diverse “scale” di organizzazione nei nostri dibattiti collettivi a proposito dello sviluppo, della sostenibilità e dell’urbanizzazione. Dobbiamo sviluppare organizzazioni, meccanismi, discorsi e apparati capaci di affrontare questi problemi su scala globale. Non pensa che ci faccia alcun bene discutere dei “beni comuni” se non siamo specifici riguardo alla portata di ciò di cui discutiamo. Stiamo parlando del mondo? In tal caso suggerisco che dobbiamo parlare dell’apparato statale e delle sue funzioni. Di nuovo, particolarmente a livello bioregionale e globale.

Emanuele: A me sembra che alcune delle sole persone disponibili a considerare questi temi su scala globale siano gli scienziati del clima, gli oceanografi, i biologi, gli studiosi di ecologia, con pochissimi intellettuali, per non parlare degli attivisti di comunità o della popolazione generale che discutano dell’ambiente naturale globale. Alcuni scienziati ci stanno dicendo che entro il 2048 quasi tutti i banchi di pesca saranno estinti. Al minimo, gli scienziati ci stanno dicendo che dobbiamo aspettarci un aumento di due gradi (Celsius) della temperatura del globo entro la fine del secolo. Queste sono previsioni e analisi molto allarmanti. Così, ecco quello che mi preoccupa: anche se possiamo organizzarci efficacemente, diciamo, a livello bioregionale, cosa succede se altre regioni si rifiutano? Non avremo bisogno di un apparato globale per chiamare le nazioni alle loro responsabilità? Questa mi sembra la questione principale del nostro tempo.

Harvey: Beh, ci sono alcuni modi in cui una prassi può diventare egemone: uno è mediante la coercizione, che nessuno di noi vuole, ma può benissimo essere una necessità. Poi c’è il consenso, che è quello che vediamo in queste conferenze sul cambiamento climatico, ma, come costatiamo, nemmeno quello funziona. Il terzo è quello che potremmo chiamare “l’esempio”. E’ per questo che io penso che una regione come la Cascadia sia così interessante, tra le ragioni che tu hai citato, perché la Cascadia attua alcune politiche molto, molto, molto progressiste. La California, ad esempio, lo ha fatto in molti aspetti della legislazione ambientale. Su scala locale, la California ha cominciato a imporre cose come il chilometraggio obbligatorio delle auto o la capacità dei serbatoi, e questo è un piccolo esempio. In modo interessante, si può anche dimostrare che non finiremo a pezzi, economicamente, se gli stati attuano queste misure. Oggi, niente di tutto questo accade. Penso che guidare attraverso l’esempio possa essere molto significativo. E’ più facile ottenere consenso quando si possono offrire esempi alle persone su come tutto questo funzionerebbe.

Lo abbiamo visto, ad esempio, a livello urbano con città come Curitiba, in Brasile, che è piuttosto ben nota per il suo progetto ambientale. Così, molte delle cose che si fanno a Curitiba sono ora attuate in giro per il mondo in vari ambienti urbani. Penso che avremo una combinazione di operare mediante l’esempio, mediante il consenso e mediante la coercizione. La mia speranza è che possiamo usare principalmente gli esempi, cosicché è più facile ottenere il consenso, e piuttosto difficile muoversi in direzione della coercizione. Tuttavia è soltanto una mia speranza. Non necessariamente le cose andranno così.

Emanuele: Nel Capitolo 4, “L’arte della rendita”, affermi che “le università a indirizzo artistico erano i focolai del dibattito politico, ma la loro successiva pacificazione e professionalizzazione ha gravemente ridotto la politica agitativa.” Puoi parlarci del carattere speciale della produzione e riproduzione culturale? Inoltre, puoi ampliare questo concetto della “rendita monopolistica”? Tu definisci questi processi la “Disneyficazione” della società e della cultura. Cos’è il capitalismo simbolico collettivo? Citi l’industria turistica, ma anche il marketing di specifiche città, sentimenti culturali e il “marchio delle città”. Puoi parlarci di queste dinamiche?

Harvey: Il mio interesse al riguardo deriva da una contraddizione molto semplice: si presume che noi viviamo nel capitalismo e si presume che il capitalismo sia competitivo, cosicché ci si può attendere che ai capitalisti e agli imprenditori la competizione piaccia. Beh, vien fuori che i capitalisti fanno tutto quello che possono per evitare la competizione. Amano i monopoli. Così, ogni volta che è loro possibile, cercano di creare un prodotto che sia monopolizzabile, che, in altre parole, sia “unico”. Prendiamo, ad esempio, il marchio della Nike, che è un perfetto esempio di capitalisti che ottengono un prezzo di monopolio da un particolare logo perché c’è tutto quel bagaglio attaccato a ciò che il logo significa, a cosa simbolizza e a come le persone dovrebbero interagire con esso. Una scarpa identica, che costa molto meno denaro, può essere venduta a molto meno semplicemente non espone quel marchio. Così il prezzo di monopolio è tremendamente importante. Si riscontreranno molti spazi in cui è una componente cruciale di come funziona il mercato. In quel capitolo ho citato il commercio del vino, che mi intriga moltissimo. La gente cerca di ricavare una rendita di monopolio perché questa vigna ha un suolo speciale, o questo vigneto ha una speciale localizzazione geografica. Perciò crea un vino “vintage” unico, che ha un gusto migliore di qualsiasi altro al mondo; salvo il fatto che non lo ha.

C’è un grande interesse a cercare di acquisire una rendita monopolistica assicurandosi che il proprio prodotto sia commercializzato come unico e molto, molto, molto speciale. A livello di città, poi, questo significa che le città cercano di “darsi un marchio”. C’è una storia intera, oggi, particolarmente relativa agli ultimi 30-40 anni, in cui le città cercano di darsi un marchio e di vendere un pezzo della propria storia. Qual è l’immagine di una città? E’ attraente per i turisti? E’ alla moda? Così le città si commercializzano. Si troveranno città che hanno una grande reputazione, come Barcellona, in Spagna, o New York City. Uno dei modi in cui si può promuovere l’unicità di una città è pubblicizzare qualcosa a proposito della storia cittadina, che sia molto specifico, perché non si possono apprezzare gli stessi paralleli storici altrove. Così, ad esempio, si va ad Atene perché c’è l’Acropoli, o si va a Roma per via della antiche rovine. Così si comincia a commercializzare la storia di una città come unica e redditizia. D’altro canto, se non si ha una storia particolare, si possono semplicemente inventare delle storie. Ci sono un mucchio di città con storie inventate nel mondo d’oggi. Allora si racconta alla gente che la cultura del luogo è molto speciale. Cose, sai, come la gastronomia unica, o le danze, diventano molto importanti. Si deve promuovere la “vita nelle strade” come qualcosa di unico, non esiste alcun altro posto uguale, e ogni sorta di roba del genere.

Il marketing degli aspetti storici e culturali di una città è ora una componente cruciale del processo economico. Alcune città semplicemente s’inventano una cultura unica. Ad esempio alcune città utilizzeranno l’”architettura firmata”. Ad esempio non molti conoscevano la città di Bilbao, in Spagna, prima che il Museo Guggenheim diventasse il faro di uno speciale marchio di architettura. Proseguendo, possiamo guardare a Sidney, Australia, e al suo Teatro dell’Opera, che è la prima cosa che la gente riconosce quando vede una foto della città, e possiamo costatare quanto importante ciò sia diventato. Così la stessa architettura è catturata nella commercializzazione e nel dare un marchio a una città. Sai, persino i dipinti e la scena musicale diventano aspetti significativi della cultura per poi commercializzare e vendere: città come Austin, Texas, diventano “scene musicali”. Inoltre ci sono posti come Nashville. E così via. Così le città cominciano a utilizzare la produzione culturale come modo per pubblicizzare come uniche e speciali. Naturalmente il problema in tutto questo è che gran parte della cultura è molto facile da copiare. L’unicità comincia a svanire. Allora abbiamo quella che io chiamo la “Disneyficazione” della società. Lo si vede in Europa, ad esempio, dove, anche se molte città hanno passato storico/culturale serio, tutto diventa “disneyficato”.

Alcuni, io per esempio, finiscono per essere estremamente disgustati da questo. E’ un’altra “Disneyficazione” della storia dell’Europa e io semplicemente non voglio più essere seccato da questo. La contraddizione è la seguente: si pubblicizza una città come unica, tuttavia attraverso il marketing la città diventa replicabile. In realtà i simulacri della storia diventano importanti come la storia stessa. C’è tensione in giro per la ricerca di una rendita monopolistica, conseguirla per un po’ di tempo e poi perderla a causa dei simulacri. Ciò diventa significativo. Ora, questo crea anche una situazione in cui i produttori culturali diventano tremendamente importanti. Sono andato a vivere a Baltimora nel 1969 e c’erano circa tre musei in città. Oggi ce ne sono più di trenta! Questo diventa un modo per promuovere la città. Tuttavia, di nuovo, se ogni città a trenta musei, allora ci si può scordare di godere di un vantaggio monopolistico. Allora non conta realmente più se io sto a Baltimora, Pittsburgh o Detroit. Tutto diventa un’esperienza replicabile. Cominciano a perdere il loro potere monopolistico.

Emanuele: Nel Capitolo 5, “Riprendersi la città per la lotta anticapitalista”, scrivi: “Due domande vengono dai movimenti politici a base urbana: 1) La città, o il sistema di città, è meramente un sito passivo o una rete preesistente? 2) Le proteste politiche spesso misurano i loro successi in termini della loro capacità di disturbare le economie urbane.” Quali sono alcuni esempi di tali disturbi? Come pensi che i dimostranti, nel mondo di oggi, possano disturbare in modo più efficace le economie urbane?

Harvey: L’uragano Sandy ha realmente turbato le vite dei residenti di New York City. Perciò non vedo perché i movimenti sociali organizzati non possano turbare il solito tran-tran di grandi città e pertanto causare danni agli interessi della classe dominante. Abbiamo visto molti esempi storici. Ad esempio, negli anni ’60 le agitazioni che si sono verificate in molte città degli Stati Uniti hanno causato grossi fastidi alle aziende. La classe politica e quella imprenditoriale furono rapide nel reagire a motivo del livello di turbativa e di distruzione. Cito nel libro le dimostrazioni dei lavoratori immigrati nella primavera del 2006. Le manifestazioni furono una reazione al tentativo del Congresso di rendere perseguibili penalmente gli immigrati illegali. In seguito la gente si è mobilitata in luoghi come Los Angeles e Chicago, e ha significativamente turbato gli affari cittadini. Si può prendere a prestito l’idea di uno sciopero, di solito mirato contro una speciale azienda o organizzazione, e trasporre quelle tattiche e strategie nei centri cittadini. Così, invece di scioperare contro una particolare impresa o azienda, la gente indirizzerebbe le proprie azioni verso intere aree urbane.

Poi ci sono eventi come la Comune di Parigi o lo sciopero generale di Seattle del 1919 o la rivolta di Cordobazo in Argentina, circa nel 1969. Non deve trattarsi di un movimento rivoluzionario dall’oggi al domani. Queste cose possono avvenire molto gradualmente attraverso riforme. Un esempio interessante è il bilancio partecipativo che si attua a Porto Alegre, Brasile, dove il Partito dei Lavoratori ha sviluppato un sistema attraverso il quale la popolazione e le assemblee locali decidono in cosa spendere i soldi. Così hanno tenuto assemblee popolari e così via, che hanno deciso come utilizzare i fondi e i servizi pubblici. Di nuovo, ecco una riforma democratica che inizialmente è stata attuata a Porto Alegre ma che da allora è proseguita in città europee. E’ una grande idea. Coinvolge il pubblico e coinvolge la gente nel processo. Democratizza il processo decisionale nella società. Queste decisioni non sono più prese da consigli comunali, da burocrati, o dietro porte chiuse. Ora queste cose sono all’aperto per essere dibattute pubblicamente. Così, da un lato ci sono interventi molto rapidi sotto forma di scioperi e turbative. Dall’altro c’è un processo lento di riforma che ha luogo in assemblee democratiche, eccetera.

Emanuele: Da sindacalista, ho collaborato con persone che operano all’interno del settore sindacale, disoccupati e persone che lavorano in quella che è comunemente definita l’”economia sommersa”. Sono specificamente interessato a sindacalizzare quelli che lavorano nelle industrie del settore dei servizi o nei “megastore”, come Applebee o Best Buy. Nel Capitolo 5 tu scrivi: “Nella tradizione marxista, le lotte urbane sono spesso ignorate o scartate come prive di potenziale o significato rivoluzionario. Quando una lotta di portata cittadina acquista effettivamente uno status rivoluzionario iconico, come durante la Comune di Parigi del 1871, si afferma, per primo da Marx, e ancor più enfaticamente da Lenin, che si tratta di una rivolta proletaria, piuttosto che un movimento rivoluzionario molto più complesso, animato tanto dal desiderio di riprendersi la città stessa dall’appropriazione borghese, quanto dalla desiderata liberazione dei lavoratori dal fardello dell’oppressione di classe nella fabbrica. Io considero d’importanza simbolica che i primi due atti della Comune di Parigi siano stati di abolire il lavoro notturno nei forni, una questione sindacale, e nell’imporre una moratoria agli affitti, una questione urbana.” Puoi parlarci del privilegio riservato ai lavoratori dell’industria nell’ideologia marxista? Come meno del 12% della forza lavoro statunitense sindacalizzato, come possiamo cominciare a riconcettualizzare il proletariato?

Harvey: C’è una lunga storia di questo. La tendenza dei circoli marxisti, e non solo dei circoli marxisti bensì della sinistra in generale, consiste nel privilegiare gli operai dell’industria. Questa idea di una lotta d’avanguardia che porta a una società nuova è in giro da parecchio tempo. Tuttavia quello che affascina è l’assenza di alternative a questa visione. O almeno di varianti al suo intento e proposito. Naturalmente molto di questo proviene dal Volume I del Capitale di Marx, che enfatizza l’operaio di fabbrica. Questa idea che il partito d’avanguardia dei lavoratori ci porterà alla terra promessa della società anticapitalista, o chiamiamola “comunista”, persiste da più di un secolo. Ho sempre sentito che è una concezione troppo limitata di chi sia il proletariato e di chi sia l’”avanguardia”. Sono anche sempre stato interessato alle dinamiche della lotta di classe e ai loro rapporti con i movimenti sociali urbani. Chiaramente, per me, i movimenti sociali urbani sono molto più complicati. Coprono tutto l’arco dalle organizzazioni borghesi di quartiere, impegnate in politiche di esclusione, alla lotta degli affittuari contro i latifondisti a cause delle pratiche di sfruttamento. Quando si guarda alla vasta gamma dei movimenti sociali urbani, si scopre che alcuni sono anticapitalisti e altri il contrario.

Ma farei la stessa osservazione riguardo ad alcune forme di organizzazione sindacale tradizionale. Ad esempio ci sono alcuni sindacati che guardano alla sindacalizzazione come a un modo per privilegiare i lavoratori privilegiati della società. Ovviamente questa idea non mi piace. Poi ci sono altri che tentano di creare un mondo più giusto e più equo. Penso ci sia un’uguale gamma di distinzioni all’interno delle forme di organizzazione dei lavoratori dell’industria. In realtà le forme di organizzazione dei lavoratori dell’industria, a volte, visto che si occupano di gruppi speciali e di interessi speciali, sono più reazionarie di quanto ci si aspetti rispetto alla politica generale. E’ a questo riguardo che io accolgo le forme di organizzazione di Antonio Gramsci. Egli era molto interessato ai comitati di fabbrica. Seguiva la linea marxista secondo cui l’organizzazione nelle fabbriche è cruciale per la lotta. Ma poi egli spingeva la gente a organizzarsi anche a livello di quartiere. In quel modo, nel pensiero di Gramsci, potevano avere un quadro migliore di come sia fatta l’intera classe lavoratrice, non solo quelli che sono organizzati nelle fabbriche, e così via. Compresi i disoccupati, i lavoratori temporanei e tutti quelli che tu hai citato prima che non erano occupati in posti del settore industriale tradizionale. Così Gramsci proponeva che questi due tipi di metodo di organizzazione politica dovessero essere interconnessi al fine di rappresentare realmente il proletariato. Essenzialmente il mio pensiero riflette quello di Gramsci al riguardo. Come cominciamo a interessarci di tutti i lavoratori di una città? Chi lo fa?

I sindacati tradizionali tendono a non farlo. Invece ci sono movimenti, all’interno del movimento sindacale, che attuano tali pratiche organizzative. Ad esempio i Consigli Sindacali in Gran Bretagna o i Comitati del Lavoro negli Stati Uniti, che tentano, entrambi, di organizzare in qualche modo al di fuori dell’ambito dell’organizzazione sindacale tradizionale. Ora, a questi segmenti del movimento sindacale non è stato dato potere. Dobbiamo uscircene con nuove forme di organizzazione che catturino il lato progressista di ciò che avviene all’interno dei movimenti sociali urbani e lo riunisca con ciò che rimane del modello sindacale tradizionale del settore industriale. Dobbiamo riconoscere che molti lavoratori occupati nell’economia statunitense non potrebbero organizzarsi ufficialmente in un sindacato in base alle attuali leggi sul lavoro. Perciò c’è bisogno di forme diverse di organizzazione, esterne al modello sindacale tradizionale.

C’è un’organizzazione a New York, che in realtà è nazionale ma è molto forte a New York, che si chiama Organizzazione dei Lavoratori Domestici. E’ molto difficile organizzare i lavoratori domestici. Ma hanno un’organizzazione basata sui diritti e continuano a organizzarsi e a lottare. Siamo onesti: se sei un immigrato illegale negli Stati Uniti, sei trattato in modi deprecabili. Perciò gruppi organizzativi, come quelli dei tassisti o dei dipendenti dei ristoranti hanno portato a quello che è chiamato il Congresso dei Lavoratori. Stanno cercando di mettere insieme tutti questi tipi di organizzazione. Sai, anche Richard Trumka [presidente di uno dei più grandi sindacati USA, l’AFL-CIO – n.d.t.] proviene da uno di questi congressi nazionali e ha detto ai lavoratori che il movimento sindacale tradizionale vorrebbe almeno avere un rapporto con loro. In breve, penso che ci sia un crescente movimento, ora, che riconosce l’importanza di tutti di tipi di lavori diversi che hanno luogo nell’ambiente urbano. Ho raccolto la domanda che mi è stata posta da molti membri dei sindacati: “Perché non sindacalizziamo l’intera fottuta città?”

Ci sono già movimenti in atto per organizzare i tassisti, ma perché non i lavoratori delle spedizioni? Si tratta di una grande forza lavoro e la città dipende assolutamente da questi settori del lavoro per mantenere normalmente in funzione la sua economia. E se questi gruppi si unissero e cominciassero a rivendicare un tipo diverso di politica nelle città? E avessero voce in capitolo su come sono utilizzati i fondi e le risorse? Ci sono modi per contrastare l’incredibile disuguaglianza che esiste a New York City? Intendo dire: le dichiarazioni dei redditi dell’anno scorso hanno riferito che l’un per cento delle persone al vertice di New York City guadagna 3,57 milioni di dollari a testa, paragonato al 50% della popolazione che cerca di tirare avanti con meno di 30.000 dollari. E’ una delle città più disuguali del mondo. E allora cosa possiamo fare al riguardo? Come possiamo organizzarci per cambiare questa disuguaglianza? Secondo me dovremmo cancellare questa idea che l’operaio di fabbrica è l’avanguardia del proletariato e cominciare a pensare a quelli che sono impegnati nella produzione e riproduzione della vita urbana come a una nuova avanguardia. Vi sarebbero inclusi i lavoratori domestici, i tassisti, i lavoratori delle spedizioni e molti altri delle classi povere e lavoratrici. Penso che possiamo costruire movimenti politici che operino in modi totalmente diversi rispetto al passato. Possiamo costatarlo in città di tutto il mondo, partendo dalle città boliviane, per arrivare a Buenos Aires. Combinando il lavoro degli attivisti urbani con quello di chi lavora nelle fabbriche, cominciamo a sviluppare un elemento completamente diverso di agitazione politica.

Emanuele: Puoi parlarci di alcune di tali città, come Al Alto, in Bolivia? Inoltre io sono stato a Madison, Wisconsin, nel 2011 durante una grande protesta sindacale e devo dire che è stato molto interessante per me vedere le dinamiche dei sindacati e come interagiscono con i lavoratori non sindacalizzati e con i cittadini. Sfortunatamente molte volte sembra che il movimento sindacale reprima i dissensi e le resistenze serie. Così, per esempio, anche se molti dei lavoratori di Madison erano sindacalizzati, quelli che fisicamente hanno occupato l’edificio del Campidoglio e hanno dato il via all’occupazione non erano sindacalizzati. Poi sono arrivati i grandi sindacati e hanno immediatamente reindirizzato il dibattito sulla revoca dell’elezione del governatore Scott Walker e su altre misure riformiste liberali. Ovviamente, con il senno di poi, costatiamo quale disastro abbia provocato ciò: il governatore Walker ha vinto contro il voto di revoca. Secondo me queste mosse dei sindacati e del Partito Democratico tolgono l’energia al movimento. Quali sono le tue idee su queste cose?

Harvey: I sindacati hanno attraversato un periodo brutto. Non sono molto progressisti. Così, nel complesso condivido il tuo punto di partenza. Ora, il motivo per cui ho citato Trumka è stato perché penso che Trumka e molti di quelli all’interno del movimento sindacale comprendano che non possono più continuare da soli e che necessitano dell’aiuto dell’intera forza lavoro, sindacalizzata o no. E’ sempre questa la sfida quando si organizza: quando sostegno vogliamo da queste vaste entità? E quanto di quello che fanno deriva da un reale senso di solidarietà? Quanto è a fini di vantaggi personali? La mia esperienza Baltimora, riguardo alle campagne per un salario minimo vitale, rispecchia in qualche misura la tua esperienza. I sindacati erano in generale ostili a queste campagne e non hanno aiutato, parlando in generale. Tuttavia abbiamo ricevuto effettivamente aiuto dai sindacati locali. Perciò, di nuovo, dobbiamo separare queste due entità. Le singole sezioni hanno concretamente aiutato le campagne. Così, il movimento sindacale è stato molto, molto conservatore in questo paese, in molti modi, particolarmente negli anni ’50 o giù di lì.

Ci sono problemi simili anche nei sindacati britannici. A voler essere giusto, l’impressione che ho ricavato da parte della dirigenza locale di New York City è che comprende che non può più comandare a bacchetta. Dubito che tu affermi che non dovremmo organizzarci del tutto in sindacati, e di chiunque dica questo dovremmo diffidare, ma credimi, sono ben consapevole dei limiti dei sindacati moderni. In realtà ho sentito molto di quello che mi hai detto da amici che hanno partecipato agli eventi di Madison, Wisconsin. Sai, ho letto tutto quello che ho potuto a proposito di Al Alto, Bolivia, e quello che davvero mi affascina sono le forme di organizzazione che vi hanno luogo. C’è una componente sindacale, con un forte sindacato degli insegnanti che apre la strada. Ma ci sono anche molti membri del sindacato che erano nelle miniere di stagno ma sono rimasti disoccupati in seguito alla ristrutturazione neoliberale degli anni ’80. Queste persone sono finite a vivere in questa città di Al Alto e c’è una tradizione politica attivista di socialismo. Nel movimento sindacale cui appartenevano, erano principalmente trotzkisti, il che è significativo. Tuttavia le organizzazioni più importanti sono state le organizzazioni di quartiere.

Inoltre c’era un’assemblea estesa delle organizzazioni di quartiere, chiamata la Federazione delle Organizzazioni di Quartiere. C’erano, ad esempio organizzazioni dei venditori di strada, che abbiamo anche a New York City, in aggiunta alla gente dei trasporti. Questi gruppi diversi si incontravano regolarmente. La dinamica interessante di queste organizzazioni è che non la vedevano allo stesso modo su tutto. Intendo dire: che senso c’è a partecipare a riunioni in cui tutti sono d’accordo? Dovevano partecipare alle riunioni per assicurarsi che i loro interessi non fossero danneggiati. E’ ciò che succede quando ci sono dibattiti vivaci e discorsi politici: il progresso. Così l’attivismo delle federazioni di quartiere è derivato da metodi organizzativi molto competitivi. Allora, quando la polizia e l’esercito hanno cominciato a uccidere la gente nelle strade, c’è stata un’immediata dimostrazione di solidarietà tra i gruppi che si stavano organizzando in città. E hanno bloccato la città e le strade. Così la gente di La Paz, Bolivia, non è stata in grado di ricevere merci e servizi, perché tre delle strade principali passavano direttamente attraverso Al Alto, che era bloccata da queste organizzazioni.

Lo hanno fatto nel 2003 e il risultato è stato il rovesciamento del presidente. Poi, nel 2005, è stato rovesciato il presidente successivo. Alla fine hanno ottenuto Evo Morales. Tutti questi elementi si sono uniti e hanno organizzato efficacemente i poveri e la classe lavoratrice in Bolivia. E’ da qui che ho preso il titolo del mio libro ‘Città ribelli’. In senso molto letterale, Al Alto è diventata una città rivoluzionaria nel giro di pochi anni. Le forma di organizzazione in Bolivia sono affascinanti da studiare e da osservare. Non sto dicendo che questo è “il modello” che tutti dovrebbero copiare, ma è un buon esempio cui guardare e da studiare.

Emanuele: Tu citi un film che mi è caro, Il Sale della Terra, che ho visto per la prima volta da matricola all’università. Il mio docente, il dottor Kim Scipes, teneva un corso sulla diversità di classe razziale ed etnica alla Purdue North Cental University dove abbiamo assistito al film come materiale obbligatorio per il corso. Nel riferirti a questo film nel tuo libro tu dici: “Solo quando l’unità e la parità sono costruite da tutte le forze del lavoro siamo in grado di vincere. Il pericolo che questo messaggio ha rappresentato per il capitalismo è misurato dal fatto che questo è il solo film statunitense a essere sistematicamente bandito da molti anni, per motivi politici, dalla trasmissione su qualsiasi canale commerciale.” Puoi parlarci del perché questo film è importante? Cosa può insegnarci riguardo alla lotta?

Harvey: Beh, ho visto per la prima volta il film un po’ di tempo addietro. E’ stato parecchio tempo fa e non ricordo esattamente quando. Ma, come te, ne ho sempre fatto tesoro nel ricordo. Così quando ero impegnato a scrivere questo libro sono tornato a rivederlo. Naturalmente l’ho visto un paio di volte di più. Penso sia una storia molto umana. Ma è una magnifica storia di una miniera di zinco, basata su una situazione reale, scritta da persone che erano state bandite da Hollywood per le loro tendenze comuniste. E’ un grande film in cui classe, razza e genere si uniscono a creare una grande storia. C’è un momento del film che è in un certo modo buffo: gli uomini non possono picchettare più a causa della legge Taft-Hartley, così le donne li sostituiscono nel picchettaggio, perché a loro ciò non è vietato. Allora gli uomini devono occuparsi dei lavori di casa. In modo interessante, gli uomini cominciano presto a capire perché le donne chiedevano loro di rivendicare dai padroni acqua corrente e altre cose che avrebbero reso più facile la vita quotidiana. Presto, naturalmente, gli uomini scoprono quanto sia difficile stare a casa tutto il giorno. Riunisce il tipo di questioni di genere che sono importanti oggi. Tratta della solidarietà oltre i confini etnici, il che è cruciale. Il film compie un grande lavoro nell’evidenziare ciò in una forma non didascalica. Ho sempre amato molto questo film, così ho pensato che fosse appropriato rievocarlo nel contesto di Città Ribelli.

Emanuele: Qualche consiglio, nel salutarci, a chi ascolta o legge questa intervista?

Harvey: Sfortunatamente non sono un organizzatore; sono un commentatore dei limiti del capitale e di come potremmo cercare di concettualizzare visioni alternative della società. Ho ricavato una grande quantità di energia, motivazione e idee intellettuali da quelli che sono concretamente impegnati nelle lotte quotidiane. Partecipo e aiuto, se posso. Così il mio consiglio a tutti sarebbe di uscire quanto più possibile e occuparsi della disuguaglianza sociale e del degrado ambientale perché si tratta di temi sempre più preveggenti. Spererei che le persone diventassero attive, uscissero, continuassero ad andare avanti ora. Questo è un momento cruciale. Sai, la ricchezza e il capitale non si sono spostati di un millimetro, sin qui. Dobbiamo dare una grande spinta se vogliamo vedere qualcosa di diverso nella nostra società. Dobbiamo creare meccanismi e forme di organizzazione che riflettano i bisogni e i desideri della società nel suo complesso, non solo quelli di una classe privilegiata-oligarchica di individui.

David Harvey è professore [distinguished professor] di Antropologia e Geografia al Graduate Center della City University di New York, direttore del Centro per la Pace, la Cultura e la Politica e autore di numerosi libri, tra cui il suo più recente ‘Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution’ (Verso 2012) [Città ribelli: dal diritto alla città alla rivoluzione urbana]. Insegna il Capitale di Karl Marx da oltre quarant’anni.

Vince Emanuele è conduttore del programma radio Veterans Unplugged, che va in onda ogni domenica dalla 17 alle 19 (ora centrale) a Michigan City, Indiana, su 1420AM “WIMS Radio: Your Talk of the South Store” (www.veteransunplugged.com) Vince è anche membro di Veterani per la Pace ed è membro del consiglio di amministrazione dei Veterani dell’Iraq contro la Guerra (Iraq Veterans Against the War).

7 gennaio 2013

 

fonte carlosfonseca

 

tratto da Z Net Italy

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