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La violenza della repressione come termometro della crisi

Gli sgomberi di questi giorni, la Celere nelle piazze o usata per gli sfratti, i centri sociali dati alle fiamme e le dichiarazioni di esponenti politici per richiedere leggi più repressive contro chi si ribella, sono il segnale che il lavoro quotidiano svolto nei singoli territori e sul piano nazionale sta facendo vacillare, in maniera lenta ma progressiva, i piani della controparte.

La stessa controparte ha raggiunto, all’interno della crisi, l’assetto di gestione del tracollo italiano e, dopo aver eliminato sia le ideologie che le poche differenze sostanziali tra i due principali modelli di governo, si ritrova compatta sotto l’ombrello della grande coalizione, con i sindacati confederali che stanno raggiungendo l’obiettivo della cogestione del mondo del lavoro e dei servizi, a braccetto con Confindustria. Come dire: ora l’assetto del nemico è ben definito e finalmente chiaro.

Quello che va ad avvalorare la tesi sopra indicata è che tutti gli episodi di forza da parte dello Stato arrivano in città definite “rosse” o “arancioni”, dove ormai legalità e profitto provano ad affossare ogni esperienza autonoma e di socializzazione, nascondendosi sempre dietro la retorica del dialogo. Un dialogo basato in realtà sull’utilizzo di caschi, scudi, manganelli e lacrimogeni, ormai il solo linguaggio che chi è al potere conosce e che al tempo stesso rappresenta la misura del fallimento delle loro strategie. D’altra parte, se costoro fossero sicuri dei propri mezzi e delle proprie politiche, perché allora richiederebbero misure restrittive o Daspo, come fa Esposito in val Susa, in sintonia con la proposta di legge del Pdl sulle contestazioni ai cortei?

E’ emblematico anche quello che sta succedendo nella Bassa modenese colpita dal sisma di un anno fa, con un Pd in forte difficoltà, che vede ripercuotersi contro le debolezze e le contraddizioni della sua politica ipocrita “ del va tutto bene” e che comincia perciò a definire soggetti pericolosi i vari comitati della zona; oppure lo sgombero di ZAM a Milano da parte di una giunta “arancione”, che in campagna elettorale si definiva “amica” di esperienze come quelle dei centri sociali. Si pensi infine all’ultimo episodio accaduto a Bologna, dove con la stessa Celere, che non si fa scrupoli a caricare su mandato dei padroni i lavoratori della logistica, si è cercato di sgomberare (fallendo!) un momento di forte socializzazione e comunicazione politica.

Potremmo andare avanti ancora per molto, perché l’elenco si allunga giorno dopo giorno su tutto il territorio nazionale e non solo;  ma quello che dobbiamo tenere sempre presente è quanto abbiamo scritto all’inizio dell’articolo: se il livello repressivo si sta alzando è perché il lavoro quotidiano che stiamo portando avanti funziona e sta mettendo in crisi questo sistema. Allora, ripartendo dall’ultima frase dell’editoriale del 23 maggio “tocca a noi rimettere al centro quello che ci spetta”, tocca a noi essere consapevoli dell’importanza del nostro agire e delle nostre lotte, per creare nuove soggettività antagoniste che sviluppino critica radicale al modello di società che ci vogliono imporre attraverso la crisi.

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