L’attualità della rivoluzione. Il Lenin del giovane Lukács
A cent’anni dalla morte del grande rivoluzionario, un estratto di un testo inedito di Mario Tronti sul Lenin del giovane Lukács. Il saggio completo farà parte di «Che fare con Lenin? Appunti sull’attualità della rivoluzione», a cura di Andrea Rinaldi, con contributi di Guido Carpi, Rita di Leo, Maurizio Lazzarato, Damiano Palano, Gigi Roggero, di prossima pubblicazione per DeriveApprodi.
«Il politico è portato a proseguire sulla stessa strada che ha dato il via alla rivoluzione; il teorico della politica è capace di vedere la necessità di passare a una fase ulteriore, che in qualche misura smentisce anche i presupposti della Rivoluzione stessa».
da Machina
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Il primo capitolo di Lenin. Teoria e prassi nella personalità del rivoluzionario porta il titolo «L’attualità della rivoluzione».
Quali sono gli elementi per cui una rivoluzione operaia di stampo marxista si può considerare attuale? Ci sono due condizioni che si devono incontrare, ma storicamente succede molto raramente: una crisi di sistema di fondo, che non si può più gestire, che non si può più risolvere, quindi un dato oggettivo che favorisce evidentemente l’iniziativa rivoluzionaria; una soggettività rivoluzionaria già pronta, che sta lì, già organizzata, pronta a cogliere il momento e portare a termine l’evento rivoluzionario. Quella di Lukács era l’epoca in cui queste due condizioni si erano incontrate proprio in Russia, paese sconfitto nella Seconda guerra mondiale e allo sbando, tra guerra e miseria. Lì era presente un nucleo bolscevico, un’organizzazione che aveva già attraversato un momento rivoluzionario – dal carattere cosiddetto «democratico», non ancora socialista – nel 1905, che vede l’occasione di sfruttare questa situazione di crisi. È solo in Russia che queste due condizioni si verificano contestualmente. Anche in Germania, ad esempio, c’era una fase simile di crisi-crollo. Perché lì non avviene la rivoluzione? Perché il tentativo fallisce? Perché in Germania il movimento operaio era organizzato dalla socialdemocrazia, che non era un soggetto rivoluzionario come quello dei bolscevichi, ovvero già preparato e pronto ad introdursi nel momento di crisi, per una presa immediata del potere.
Le due condizioni, soggetto organizzato e crisi, non si verificano in nessun altro paese: non in Inghilterra, dove mancano entrambe; nemmeno in Italia dove, nonostante il famoso biennio rosso del 1919-1920, la situazione non era matura da entrambi i lati. Non c’era una situazione di crisi-crollo perché l’Italia era risultata vincitrice della Prima guerra mondiale; le contraddizioni sociali vive si esprimeranno in tutt’altro modo, nella rivoluzione fascista; il Partito socialista non era pronto e il piccolo nucleo dell’Ordine nuovo, che poi darà vita al Partito comunista, non aveva la forza per introdursi in questa situazione. […]
Lukács parla di Lenin anche in Storia e coscienza di classe, più o meno negli stessi termini in cui lo fa nell’opuscolo intitolato Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. La sua tesi è che il rivoluzionario russo è un grande politico, uno dei più importanti del Novecento – e come tale è stato riconosciuto anche dalla cultura marxista e non solo. Ciò che interessa veramente a Lukács, però, è il lato teorico-politico: da questo punto di vista egli polemizza con tutti coloro che sottovalutano il contributo leniniano. Ad esempio, in un passaggio scrive: «la tanto diffusa leggenda borghese e socialdemocratica secondo cui Lenin, dopo il fallimento del tentativo “marxista-dottrinario” di introdurre “una volta per tutte” il comunismo, sarebbe ricorso a un compromesso, con l’astuzia dettatagli dal suo realismo politico, abbandonando la sua linea originaria. La verità storica è proprio il contrario di questa leggenda. Il cosiddetto comunismo di guerra, che Lenin definisce “una misura provvisoria resa necessaria dalla guerra civile e dalle distruzioni”, e che non era e non poteva essere “una politica corrispondente ai compiti economici del proletariato”, costituiva una deviazione dalla linea su cui deve correre lo sviluppo del socialismo secondo la sua previsione teorica. Si trattava però di una misura determinata dalla guerra civile interna e da quella esterna, e quindi inevitabile, benché soltanto provvisoria».
Secondo questa interpretazione, il comunismo di guerra non era la premessa del socialismo ma la necessità immediata di cui non si poteva fare a meno in quel momento. Ma non si deve pensare che il socialismo potesse essere costruito sulla base di una continuità rispetto al cosiddetto comunismo di guerra. Quest’ultimo andava superato, una volta preso il potere, da una capacità di gestione dell’intera società. L’ossessione di Lenin, o almeno quella che Lukács gli attribuisce come caratteristica positiva, è sempre il tener conto della totalità. Il comunismo di guerra era una parte da attraversare e da superare con un rovesciamento totale, che poi si vedrà nella famosa Nuova Politica Economica (NEP), in cui si abbandona la stessa idea di una democrazia proletaria immediata e soviettista. Ma nel momento in cui bisognava costruire uno Stato, esso doveva farsi carico di una gestione complessiva del sistema, ridotto a macerie da tutto il periodo precedente, dalla guerra, dalla rivoluzione. Se Lenin non fosse stato anche un teorico della politica, non sarebbe stato capace di affrontare e di gestire una o varie forme di compromesso, tema che interroga le capacità di ogni rivoluzionario. Il politico è portato a proseguire sulla stessa strada che ha dato il via alla rivoluzione; il teorico della politica è capace di vedere la necessità di passare a una fase ulteriore, che in qualche misura smentisce anche i presupposti della Rivoluzione stessa.
L’ultimo capitolo di questo volumetto del giovane Lukács, è proprio denominato «Realpolitik rivoluzionaria», soffermiamoci su questo punto. Si può essere realisti in politica essendo dei rivoluzionari: questo è il grande insegnamento di Lenin. Abbandonare dunque la prospettiva utopica di un superamento della modernità con una sorta di umanizzazione della Storia, che finora non era stata portata avanti da nessuno, aspetto che il giovane Lukács aveva amato prima di diventare marxista. Il giovane Lukács ci dice che nelle epoche pre-capitalistiche c’erano delle persone, i ceti aristocratici, che vivevano una vita degna di essere vissuta, anche se questo significava condannare ad una vita pessima la grande maggioranza delle persone. Il superamento della modernità doveva consistere in un’estensione a tutta l’umanità di questa vita buona e bella appannaggio dell’aristocrazia. Questa prospettiva utopica era naturalmente superata nella fase marxista del filosofo ungherese. Quando arriva a prendere «coscienza», denotata in senso di «classe», mette da parte l’idea umanitaria e lo fa proprio attraverso la scoperta di Lenin che è un grande marxista che si ritrova a dover polemizzare con ogni forma di utopia. La polemica è condotta attraverso quella che Lukács chiama «la teoria e la tattica leninista del compromesso», nient’altro che: «la conseguenza logica concreta della nozione marxista e dialettica della storia per cui gli uomini fanno da sé la loro storia, ma non la fanno in condizioni da loro scelte. È una conseguenza della cognizione del fatto che la storia produce sempre il nuovo; e che quindi momenti storici, punti di incrocio momentanei di tendenze, non ritornano mai sotto la stessa forma; e che delle tendenze che possono essere valorizzate oggi ai fini della rivoluzione potrebbero domani riuscire fatali agli stessi fini, e viceversa».
Questo è il punto: per fare la Storia devi fare la rivoluzione; quando la rivoluzione vittoriosa ti consegna il livello del potere, devi tener conto delle condizioni oggettive in cui ti trovi a operare. Da qui la necessità di Lenin, per cui «il compromesso scaturisce direttamente e logicamente dall’attualità della rivoluzione. Se il carattere fondamentale dell’intera epoca è l’attualità della rivoluzione e se essa può scoppiare da un momento all’altro, in un singolo paese come nel mondo intero, senza la possibilità di predeterminarlo, se il carattere rivoluzionario dell’intera epoca si palesa nello sgretolamento progressivo della società borghese, che ha come sua conseguenza necessaria l’alternarsi e l’incrociarsi ininterrotto delle tendenze di tipo più diverso, il proletariato non può iniziare e realizzare la sua rivoluzione in condizioni “favorevoli”, ma dovrà sfruttare ogni possibilità, benché provvisoria, che possa giovare a sostenere la rivoluzione o quanto meno ad indebolire i suoi nemici».
Ecco qui la grande lezione del realpolitiker, del politico realista Lenin. Lukács lo aveva già sostenuto, in parte, in Storia e coscienza di classe in quel passaggio in cui si scaglia contro la sinistra bolscevica trotskista – che sfocerà nelle elaborazioni sulla rivoluzione permamente – , che lo stesso Lenin fatica a contrastare dopo la rivoluzione. La sinistra, infatti, non vedeva la necessità del compromesso, perciò si votava ad una sconfitta immediata; mentre secondo Lenin era proprio la vittoria della rivoluzione e la presa del potere che doveva far pensare ad una «lunga marcia», prospettiva che non a caso verrà adottatata dalla rivoluzione cinese.
In cosa è consistita quest’ultima? Secondo me è una metafora: i comunisti cinesi attraversarono l’intera Cina e avanzando contro le truppe del Kuomintang in guerra ponevano le basi di consenso per la rivoluzione futura. Per cui, una volta arrivati a Pechino e rovesciato il Kuomintang, avevano già acquisito ed ottenuto un consenso di massa da parte della popolazione. Convincevano attraversando di parte in parte il grande territorio cinese perché il socialismo, anche secondo il Lenin postrivoluzionario, doveva essere questa lunga marcia dentro una vecchia società affinché diventasse una società nuova.
L’idea di Lenin era quella che bisognava essere rivoluzionari e cioè tendere alla rottura del sistema, prima di prendere il potere; una volta conquistato, si doveva essere riformisti, gradualisti, cioè acquisire la capacità di trasformare le cose portandosi dietro la società e il consenso, attivo non passivo, della grande maggioranza della popolazione, dando solidità definitiva alla conquista del potere.
Che cosa è successo dopo Lenin? La struttura rivoluzione-riforme, di rottura prima e di gradualismo poi, non è stata più portata avanti, anche se sono da riconoscere le difficoltà di un paese accerchiato dal capitalismo in tutte le parti. Si è portata avanti non una rivoluzione permanente ma un comunismo di guerra permanente che, alla lunga, ha indebolito piuttosto che consolidare il potere, trasformando il gruppo bolscevico iniziale in un ceto di personalità distaccate dal popolo. Questo succede con e dopo Stalin che ebbe poi la geniale capacità di mobilitare e rimobilitare il suo popolo durante la guerra mondiale e di riprendere il consenso. Non a caso oggi la grande guerra patriottica nella Russia odierna ritorna come elemento mitico.
Voglio concludere con un altro tema, che attiene alla capacità di movimento e quindi alla capacità di pensiero mobile, mai ferma, continuamente in cammino, caratteristica che bisogna acquisire sovrastando tutte le controindicazioni che la contrastano. Nella lunga marcia, bisogna imparare due cose. La prima: anche il teorico della politica deve saper parlare una lingua comprensibile a tutti. In questo libretto, ma sopratutto nella postilla all’edizione italiana, Lukács parla di un episodio che lo aveva molto colpito: «la vita di Lenin dovette divenire un processo di apprendimento ininterrotto. Dopo lo scoppio della guerra, nel 1914, egli arrivò in Svizzera superando varie avventure poliziesche; e una volta che vi fu arrivato, ritenne che il suo primo compito fosse di utilizzare giustamente questo “congedo” e di studiare la Logica di Hegel. E dopo gli avvenimenti del luglio 1917, mente viveva illegalmente in casa di un operaio, lo sentì fare questo elogio del pane prima di colazione: “Ora ‘loro’ non osano darci pane cattivo”. Lenin fu sorpreso e incantato da questa “valutazione classista delle giornate di luglio”. Pensò alle proprie analisi complicate di questi avvenimenti e dei compiti che ne derivavano. “Io, che non avevo mai conosciuto la miseria, al pane non avevo pensato… A ciò che sta alla base di tutto, alla lotta di classe per il pane, il pensiero, attraverso l’analisi politica, arriva per una via eccezionalmente complicata e intricata”. Così, per tutta la vita, Lenin imparò sempre e dovunque; non aveva importanza che si trattasse della Logica di Hegel o del giudizio di un operaio».
Questa è una delle conclusioni. L’altra, invece, è la famosa frase di Lenin, la sua parola d’ordine che ci riguarda anche oggi, in un tempo in cui non abbiamo certo difronte l’organizzazione della rivoluzione, ma abbiamo in corpo e in mente la necessità di soprassedere a queste cose in modo tale non farci imprigionare: essere pronti a tutto, perché Lenin non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà.
«La “prontezza” permanente di Lenin è l’ultima fase di questo sviluppo, finora la più e la più importante. Se oggi, quando la manipolazione divora la prassi e la deideologizzazione divora la teoria, questo ideale non è tenuto in grande onore dalla maggioranza degli “specialisti”, rispetto alla storia questo è soltanto un episodio. Al di là dell’importanza dei suoi atti e delle sue opere, la figura di Lenin, come incarnazione del continuo “esser preparati”, rappresenta un valore incancellabile come tipo nuovo di atteggiamento esemplare di fronte alla realtà».
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Mario Tronti Mario è stato uomo politico, filosofo e scrittore. Negli anni Cinquanta aderisce al Partito comunista italiano. Nella sua riflessione intellettuale accoglie e rielabora politicamente la grande cultura della crisi novecentesca. Con Raniero Panzieri anima la rivista «Quaderni Rossi». Dirige poi «Classe Operaia». Partecipa a «Contropiano». Fonda «Laboratorio politico». Per DeriveApprodi ha pubblicato: Noi operaisti (2009), Operai e capitale (2013), Abecedario di Mario Tronti (2016), La saggezza della lotta (2022).
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