Quando il polemos si fa prassi
Recensione a Lenin, il rivoluzionario assoluto di Guido Carpi
di Andrea Rinaldi, da Machina
«Il cammino del rivoluzionario è pertanto un cammino anche solitario, o almeno non al centro del benvolere dell’opinione pubblica, spesso lontano dall’amicizia, sicuramente non benvisto dalla società civile, “la merda” come la chiamava Lenin. La storia di Lenin è quindi una storia di esilio, di critiche feroci, ma anche di carisma, di centralità politica da una posizione numericamente minoritaria e di coraggio tattico».
Pubblichiamo oggi (16 aprile ndr), nell’anniversario della scrittura delle Tesi d’Aprile, una recensione di Andrea Rinaldi a Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) di Guido Carpi (Carocci, 2023).
Sempre sulla figura del grande rivoluzionario, sarà presto disponibile per DeriveApprodi, Che fare con Lenin? curato dallo stesso Andrea Rinaldi, con contributi di Guido Carpi, Rita di Leo, Maurizio Lazzarato, Gigi Roggero, Damiano Palano, Mario Tronti.
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Majakovsky aveva paura che «una corona» avrebbe potuto «nascondere la sua fronte così umana e geniale e così vera» e «che processioni e mausolei» avrebbero offuscato la «semplicità di Lenin». Guido Carpi, che di Majakovsky e di Lenin si intende, è riuscito nell’impresa, non banale, di togliere Lenin dalla sua teca nella piazza Rossa di Mosca, rimuovere la corona e darci un libro vivo: non una ricostruzione agiografica, come nel mito staliniano, né una noiosa critica umanitaria tipica della moderna storiografia liberal, ma un’attuale rappresentazione di Lenin, fusione inscindibile di teoria e prassi, di politica e rivoluzione.
Questi due poli della lettura classica della vita e delle opere di Lenin, mito e incubo, potrebbero sembrare opposti, ma sono in realtà strettamente complementari. Difatti in entrambi i casi Lenin viene depotenziato ed espulso da qualsiasi lettura politica: è il profeta di un moderno vangelo per il diamat, il marxismo-leninismo di stampo staliniano, o, per la lettura democratica, è il demone, il dittatore, il feroce. Il risultato dell’equazione comunque non cambia: che sia un cadavere da venerare sotto una teca o un nemico da tempo dimenticato, «il rivoluzionario assoluto» è un oggetto morto, inutile, ingombrante, e per questo messo da parte.
Come emerge dal libro Lenin è, in realtà, il fulgido esempio della rivoluzione: perciò incute ancora timore. Quali che siano state le sue mancanze umane, politiche o strategiche, Lenin è l’uomo che per primo coglie il tempo e il luogo e impone l’esigenza della rivoluzione. Come lo fa? In un lungo percorso, ci spiega Carpi, e in una lunga serie di abbagli, intuizioni, ripensamenti, adattamenti. Sarà Lenin il politico che traghetterà il socialismo russo dal minoritarismo più assoluto al controllo di un territorio vastissimo, e sarà sempre lui che per iniziare questo percorso si inventerà, di fatto, un nuovo marxismo, andando contro tutti i vecchi e i nuovi compagni, creando una politica centrata sul connubio vincente tra spontaneità e organizzazione.
Lenin non era certamente interessato alla popolarità e anzi non si preoccupava minimamente di risultare sgradevole o pedante nei suoi lunghi attacchi ai menscevichi e ai socialdemocratici tedeschi. Come asseriva Marx: «Il nostro compito consiste in una critica inesorabile diretta anche più contro i nostri cosiddetti ‘amici’ che contro i nostri nemici dichiarati; e per assolverlo, rinunciamo volentieri a una popolarità democratica a buon mercato». Lenin prese alla lettera questa passione polemica di Marx, che non era una posa ma una lezione di metodo cruciale, uno stile della militanza che Lenin porterà fino in fondo, un ripensamento della polemica politica non come critica, quindi come esercizio intellettuale, ma più radicalmente come polemos, qualcosa che afferisce molto di più alla guerra che al confronto democratico. Questa sua sincerità politica non risparmiava però neanche i suoi più stretti compagni e anche per questo si ritrovò spesso in minoranza all’interno del suo stesso partito, prima nel POSDR non ancora diviso, poi anche tra i bolscevichi, e ad un certo punto anche nel Partito comunista assurto alla guida del paese. È noto che il compagno Bogdanov quando Lenin enunciò le sue Tesi di Aprile lo considerò seriamente pazzo e gli disse che «delirava». Kamenev invece si oppose talmente ferocemente alla presa del potere nell’Ottobre del 1917 che arrivò a sfiduciare Lenin su un giornale pubblico, mentre Trockij gli diede del teppista perché si opponeva all’idea di trasformare i sindacati in un organo statale militarizzato.
Il cammino del rivoluzionario è pertanto un cammino anche solitario, o almeno non al centro del benvolere dell’opinione pubblica, spesso lontano dall’amicizia, sicuramente non benvisto dalla società civile, «la merda» come la chiamava Lenin. La storia di Lenin è quindi una storia di esilio, di critiche feroci, ma anche di carisma, di centralità politica da una posizione numericamente minoritaria e di coraggio tattico.
Sono molti i passaggi degni di nota che Carpi affronta in questo ultimo libro, conclusione di fatto di una trilogia: Lenin. La formazione di un rivoluzionario(1870-1904) e Lenin. Verso la rivoluzione di Ottobre(1905-1917). Per necessità Carpi affronta brevemente il periodo 1870-1917 già ampiamente trattato nelle sue precedenti opere, concentrandosi invece su un Lenin in realtà misconosciuto: il Lenin leader della rivoluzione durante la guerra civile e dopo la presa del potere e il Lenin statista. Questo da molti viene forse considerato il periodo del disincanto, dove le belle teorie comuniste si scontrano con la dura realtà di un paese poverissimo, il periodo del caos militare e sociale, dello scontro tra l’utopia e la bieca realtà della natura umana. Ma Lenin non è mai stato un utopista, non ha mai pensato a un’utopia, qualcosa quindi che non avesse tempo e spazio, ma ha sempre ragionato con il corpo piantato nel presente, studiando attentamente la realtà sociale che lo circondava. Lo ha fatto, ad esempio, con uno dei suoi primi libri Lo sviluppo del capitalismo in Russia, dove analizza la società russa e vede l’avanzare, inesorabile, del capitalismo. Lì sì che affronta un’utopia, un’idea senza luogo, quella dei suoi predecessori, ma anche del fratello e dei suoi maestri, l’idea dei narodniki, dei populisti, di bloccare lo sviluppo del capitalismo in Russia a suon di bombe, di rivolte o di riforme, a seconda dei punti di vista. Lenin quindi, quando si ritrova a guidare un paese enorme distrutto dalla guerra, è sempre lo stesso di qualche anno prima: il realista, il materialista, l’anti-storicista, il nemico del riformismo (altra vera utopia marxista). Lenin è ben consapevole delle esigenze pratiche, dei tatticismi della guerra, dei cambiamenti e delle rinunce necessarie, non si trincera nell’ideologia e cerca pertanto di costruire l’alchimia reale che tenga insieme il paese, combatta i suoi nemici e al contempo metta in moto la vera e propria rivoluzione. E straordinariamente ci riesce.
Qui Carpi ci aiuta a capire i giganteschi limiti della dirigenza bolscevica, le difficoltà nel costruire uno Stato nuovo senza una vera teoria dello state building; lo scoglio di una massa di individui che entra nel partito dai reparti dell’Armata rossa e impone una nuova mentalità militaresca; la miopia di molti leader di primo piano nel cogliere il compromesso necessario tra rivoluzione e capitalismo, simboleggiato dalla Nuova politica economica, che in realtà, come ci dice l’autore è «l’ultimo capolavoro politico di Lenin».
Questo libro è prezioso perché ci aiuta a comprendere come la rivoluzione sia stata sconfitta, o si sia sconfitta da sola, chiarendoci come sia stato possibile il passaggio critico da Lenin a Stalin, come l’Unione sovietica si sia poi ripiegata su se stessa, e cosa sia mancato in definitiva perché la rivoluzione continuasse a marciare. Certamente Carpi ci ricorda i limiti esogeni di una rivoluzione mondiale, o europea, che non si compie, di un paese che viene assediato per anni, di nazionalità in lotta tra loro che devono trovare un adattamento per convivere sotto la federazione. Ma ovviamente c’è di più. Sottotraccia, per noi e non per l’autore, risuona una sensazione che assomiglia al rammarico e che sappiamo bene essere totalmente improduttiva politicamente, ovvero che se Lenin non avesse subito due ictus, le cose sarebbero potute andare diversamente.
Abbiamo poc’anzi parlato di due Lenin. In realtà ci sarebbe anche un altro Lenin, il Lenin alla fine della sua vita, il Lenin in crisi, malato e isolato, il Lenin tenuto sotto stretto controllo dalla nascente nomenklatura. Il «rivoluzionario assoluto» qui arranca nella difficoltà di affrontare i limiti della creatura che ha contribuito a creare, «reagisce a essi in modo inopinatamente semplicistico: è stanco, esaurito nella mente e nel corpo fino al limite estremo», si scaglia quindi contro l’apparato e la sua stupidità egoistica, e lo farà fino alla fine, sino a quando riuscirà a parlare e dettare il suo ultimo scritto dal titolo auto-esplicativo Meglio meno, ma meglio. Qui Lenin coglie la potenza della burocrazia ma non vede la sua storica ascesa nella moderna gestione politica, si sceglie pertanto un nuovo segretario, il vecchio compagno Stalin, proprio per la sua capacità di decidere autonomamente e senza sentimentalismi, per la sua etica militante e per il suo polso nella gestione, in teoria, in grado di raddrizzare il partito.
Invece Stalin coglie l’occasione, isola il vecchio capo e si circonda di uomini di comprovata fedeltà e, dopo il secondo ictus di Lenin, chiude di fatto ogni rapporto, non preoccupandosi più di mantenere la dovuta devozione. Lenin vede tutto e spinge, nei suoi limiti, il congresso a rimuovere il segretario da lui voluto per un uomo meno grossolano e più tollerante e al contempo chiede di riformare la struttura dei vertici del partito e del paese. Grazie anche all’abilità di Stalin, il vecchio leader rimarrà però inascoltato e isolato e il suo «testamento» sarà pertanto lettera morta.
Guido Carpi fa emergere tutto questo con dovizia di particolari, commenti e fonti inedite nella letteratura italiana sul tema. Al di là del merito storico, è fondamentale capire l’importanza politica di questa ricostruzione, da cui emerge l’essenza leninista. «L’ultimo Lenin, dunque si prepara in tutta serietà a iniziare la rivoluzione da capo». È questo uno dei temi principali che il libro lascia al lettore: la centralità della rivoluzione e l’attualità del parlare di Lenin per parlare di noi. Una delle lezioni che apprendiamo in positivo dalla storia dell’ultimo Lenin e, in negativo, dalla storia dell’Unione sovietica è come la rivoluzione sia stata e debba essere un processo, una lunga marcia che non si arresta neppure quando il potere è conquistato e consolidato. Perché la rivoluzione è l’estinzione del potere precedente, è la formazione di una nuova società e di una nuova forma della produzione che marcia sulle gambe della sua soggettività e con le braccia della sua organizzazione politica. Dalla morte di Lenin all’ascesa di Stalin c’è questo passaggio politico formidabile, che sottolinea il malinteso dell’ortodossia marxista, sia quella riformista che quella stalinista, incapace di comprendere come la dialettica tra spontaneità e organizzazione, tra masse e partito, sia un rapporto da conservare, e come la lotta di classe sia la necessità della rivoluzione e del suo sviluppo. La soppressione staliniana di questa dialettica, la distruzione dell’essenza politica del leninismo, ha condannato nei fatti la rivoluzione e le sue possibilità in tutto il mondo.
Studiare nuovamente Lenin, leggere questo libro, Lenin, il rivoluzionario assoluto, ci può servire dunque a capire in che modo la rivoluzione possa essere nuovamente attuale, perché abbia fallito sul medio e lungo termine e come ricostruirne le fondamenta sociali, organizzative e politiche. Perché la vita di Lenin è il racconto della rivoluzione, è la spiegazione di come sia stato possibile riunire pensiero e atto, è la rappresentazione di questo semplice uomo che ha colto, prima di altri, il kairos, e ha permesso ad una collettività di ribaltare straordinariamente le gerarchie millenarie di una Storia data per conclusa.
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Andrea Rinaldi si è laureato in Scienze storiche presso l’Università di Bologna con una tesi sul pensiero di Mario Tronti nei «Quaderni rossi» e in «classe operaia». Fa parte della redazione di «Commonware» e collabora con «Machina».
Immagine: Vyacheslav Akhunov, Red Mantra CCCP, 1975-1980
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