Lotta di classe in Sardegna – prima puntata
“È stanco, mischino. Si alza alle cinque, va a mungere e poi a scuola all’istituto agrario di Elmas. Ogni giorno così e ora viene sempre qui”. Ha 14 anni ed è sdraiato per terra a fianco alla brace che si consuma sull’asfalto e che ha arrostito la carne di agnello e maiale per il pranzo al presidio davanti al caseificio Central di Sanluri, uno dei più importanti del medio Campidano. L’unico latte che entra nello stabilimento è quello gettato davanti al cancello e che ancora imbianca l’asfalto della zona industriale Villasanta. “Si faidi su meigama”, la pennichella, perché anche se il presidio di Sanluri è tra quelli meglio attrezzati, con due gazebo, i tavoli, le panche e la corrente elettrica, questa lotta sfinisce, tira i nervi. “Siamo stati i primi a iniziare qui”. Mercoledì scorso un’autocisterna che trasportava il latte raccolto dagli allevatori di zona è stato fermato e il suo carico svuotato nelle campagne tra Villacidro e Serramanna, a non molti chilometri di distanza dal caseificio Central. Il video che filmava la requisizione del latte versato agli “industriali”, i padroni dei caseifici, inizia a girare dappertutto: gruppi facebook, chat Whatsapp dei pastori di zona. “Beni fattu”, dicono i più, “per quello che ce lo pagano, 60 centesimi al litro, neanche quanto costa a noi produrlo, allora più che farcelo rubare è meglio buttarlo, basta regali agli industriali!”. Lo pensano in tanti, sempre di più. Nando, un allevatore di Fonni, si era filmato mentre svuotava il suo refrigeratore pieno di latte appena munto nello scarico dell’ovile. Dopo il blocco della cisterna a Villacidro i video come quello di Nando diventano centinaia, migliaia. È una protesta. Quasi tutti si uniscono. A continuare a “versare” il latte agli industriali restano sempre in meno. Il latte si versa a terra. Passano pochi giorni e il caseificio Central viene presidiato: se quasi nessuno versa più allora nessuna cisterna deve arrivare allo stabilimento, “se no che sciopero è?”. Bisogna fermare il guadagno degli industriali quindi si monta il presidio per non fare arrivare le cisterne la notte. I carabinieri della caserma di Sanluri osservano a distanza: “le sigarette possono anche comprarsele invece di venircele a chiedere!”.
48 ore
Sono passati sette giorni dal mercoledì in cui la cisterna è stata attaccata. La situazione è precipitata, gli eventi si sono accelerati. Non si tratta più di casi isolati. Oltre a mungere al mattino e al pomeriggio altri nuovi comportamenti accomunano le vite separate dei pastori di tutta Sardegna: attaccare le cisterne, non versare agli industriali, fermare i caseifici. Queste azioni li fanno incontrare. “È diventato un secondo lavoro” dice un pastore di Nùoro a un blocco sulla strada verso Siniscola. Si uniscono così i pastori, per attaccare i padroni che non pagano il loro lavoro, per farsi pagare da chi guadagna sulla loro fatica. È giovedì 14 febbraio e un sole già primaverile sveglia il giovane pastore che riposa al presidio steso sull’asfalto. Si alza e raggiunge gli altri al tavolo. I raggi caldi sulla testa lo hanno rincoglionito più del dovuto lasciandolo preda delle prese in giro dei più grandi riscaldati a loro volta dal vino più che dal sole. Parlano dell’incontro al Viminale. Oggi è il giorno. “Salvini? Almeno ha preso in mano la situazione”, lo dicono un po’ ovunque, negli altri presidi, ai posti di blocco sulle statali, nei bar. Lo dicono con una punta di soddisfazione per aver creato un problema non aggirabile. Lo dicono con l’indifferenza di chi sta a vedere cosa succede. Lo dicono alzando le spalle. Lunedì 11 il premier Conte si era recato a Cagliari in prefettura promettendo un tavolo tra industriali del latte e pastori per giovedì 21 in cui affrontare la questione del giusto prezzo del latte ovino. Dieci giorni.
La politica è il tempo che logora. È sempre stato così nelle lotte dei pastori in Sardegna: ore sotto il Consiglio regionale ad aspettare gli esiti degli incontri, le promesse, gli impegni a lungo termine, i rimpalli. La lotta, questa lotta con questa determinazione, serve a bruciare questo tempo, a consumare la politica e gettarla via. Una volta per tutte. Usarla, scambiarla per i propri interessi, come una merce qualsiasi. La Sardegna era in subbuglio da quattro giorni e la politica rinviava la questione di altri dieci. È il mondo da abbattere. Salvini è più scaltro, si rappresenta come chi ha bisogno di abbattere questo vecchio mondo. Più prosaicamente non vuole correre il rischio di arrivare alle votazioni regionali del 24 febbraio con una tensione sociale così alta e allo stesso tempo vuole capitalizzare la protesta dei pastori in consenso politico per sé in vista delle elezioni. Il ministro degli interni pensa di potersi muovere con la solita sua disinvoltura, ascrivendo quanto accade in Sardegna al cosiddetto “campo populista”. Cerca di sciogliere le contraddizioni capitalistiche che animano le tensioni sociali reali in una nuova redistribuzione simbolica operata dall’alto contro le gerarchie della democrazia che non funziona, di un mercato che inganna. Martedì Salvini scavalca tutti e promette: “soluzione entro 48 ore, si tratta di una questione di ordine pubblico quindi l’incontro si terrà al mio Ministero e non mi alzerò da quel tavolo fino a quando non si raggiungerà l’accordo su un euro a litro di latte versato”.
Salvini si intesta le parole dei pastori, consuma e getta via con i pastori la vecchia politica. Entro il campo populista però c’è un altro vettore possibile, quello che sullo sviluppo di una rigidità di parte mette ognuno davanti alle proprie responsabilità. L’interesse del pastore non è quello dell’industriale. Questo antagonismo è svelato da una parte che si nega a danno dell’altra, a danno di quella che sta sopra e comanda. Il populismo di Salvini funziona solo fino a quando il popolo che si nomina è assorbito nel rapporto produttivo vigente. Mai nella sua negazione, mai nell’autonomia da questo. Questa non è infatti, solo, una protesta. Il popolo si è spaccato. Gli industriali non ne fanno più parte. Perché qui c’è uno scontro vero e strappare un euro a litro di latte significa toglierlo dalle tasche degli industriali. Non basta un selfie allora ma c’è comunque tra questi pastori, rispetto all’incontro al Viminale, un temperato ottimismo, mite e sereno, come il clima di cui si gode a questo presidio anche se stretto tra la statale, i capannoni industriali e la campagna brulla del Campidano.
Route 131
Ai presidi si mangia molto. Si beve molto. “Stiamo bene anche così“, dice un pastore di non più di 25 anni di Fonni commentando la fatica di questi giorni mentre allunga un altro bicchiere di Ichnusa al suo compare davanti alla Se.Pi Formaggi di Marrubiu, un altro caseificio sulla 131 nel Campidano di Oristano bloccato e presidiato 24 ore su 24. Mercoledí verso il tramonto sono una trentina davanti al fuoco sulla via di accesso al caseificio. Scrutano la penombra provando a interpretare dai fari quali mezzi si sfilano dallo svincolo in uscita dalla 131 per dirigersi verso lo stabilimento: “gente di noi, pattuglia, antisommossa… cisterne? Cisterne no, non ci pensano neanche più a provare a farle entrare. Ormai lo sanno che non ce la fanno“. Sono ragazzi di paesi dell’oristanese ma molti vengono da lontano. Fonni, Desulo, Orune. Centri della Barbagia. Mungono e si mettono in macchina per coprire mezza Sardegna e raggiungere i caseifici. Se li girano tutti. “È il divertimento del momento“, dice un altro del Mandrolisai. Sì stiamo bene così. I visi non tradiscono nessuna emozione ma gli occhi non sono annoiati, non come quando si lavora e basta, quando si fa sempre lo stesso giro: dalla campagna al bar e ritorno. E poi non c’è da scomporsi ora. Senza cambiare espressione il ragazzo di Desulo scandisce le parole con serenità: “Non ci siamo ancora arrabbiati, se ci arrabbiamo glieli assaltiamo i caseifici“.
L’ordine pubblico non è il non rispetto delle leggi o finanche delle regole, la regolazione degli scambi tra diritti e doveri del corpo civile. Siamo nel mondo dei barbari, direbbero alcuni, di civile non c’è più nulla. Men che meno il mercato replicherebbero i barbari. In un commento sotto a un video di sequestro di una cisterna del latte da parte di alcuni uomini travisati pubblicato su un portale on-line isolano nella giornata di martedì si legge: “il passamontagna serve a proteggersi o pensate che si stiano divertendo con mogli e figli a casa che sperano che non vengano arrestati. Il passamontagna ce l’ha il mercato che non ha un volto ma detta legge”. L’ordine pubblico è allora l’organizzazione del territorio sui flussi dello scambio delle merci: ripristinare la normalità significa preservare quest’ordine della valorizzazione contro un modo di vivere il territorio per i propri interessi, per aumentare il proprio costo sociale a partire da una domanda collettiva: il latte l’industriale ce lo deve pagare a non meno di 1 euro a litro iva esclusa. Una richiesta corporativa? No, è su un egoistico interesse di parte che avanzano le condizioni per uno sviluppo di classe della domanda di riorganizzazione del vivere assieme. Sono le comunità incastrate tra la terra e l’infrastrutturazione ad avere bisogno di un’organizzazione diversa del territorio. Le strade allora non servono più per far attraversare la Sardegna dai camion ma per raggiungere i presidi, per bloccare i flussi, per dare la caccia alle cisterne.
La s.s.131 è una strada che collega i due capi della Sardegna. 231 km in direzione nord, 231 in direzione sud. È detta anche la Carlo Felice, dal nome del viceré sabaudo che negli anni ‘20 del XIX secolo la progettò come arteria in grado di convogliare le produzioni agricole isolane dal Campidano di Cagliari verso lo scalo portuale di Porto Torres per la loro esportazione. La statua del tiranno sabaudo al centro di piazza Yenne a Cagliari indica il nord. La 131 fa schifo. In tutti i sensi. È una strada ad alta percorrenza, dissestata in più punti, continuamente interrotta da lavori in corso. La 131 fa schifo perché nelle campagne attorno alla sua striscia di asfalto e in quelle dei suoi affluenti si aggrumano i capannoni industriali, qualche fabbrica e diversi caseifici intervallati dai paesi, dai nuraghi con sullo sfondo le campagne dell’isola. È una superstrada utilizzata per lo spostamento delle merci e delle persone. Dai turisti ai camionisti. Adesso la 131 è un campo di battaglia. È lo snodo dove si concentrano le maggiori tensioni e dove il mercato viene disarticolato. Dove il territorio organizzato secondo il mercato si scontra con un suo nuovo uso, in funzione dei pastori e non degli industriali, per le comunità e non per il mercato. Da nord a sud negli ultimi nove giorni sono sbocciati presidi permanenti ai caseifici dislocati a ridosso di questa superstrada. La 131 unisce i sardi nella lotta contro gli industriali, mette in comunicazione i presidi, permette ai pastori di dare la caccia alle cisterne. È una bardanìa contro gli industriali, come le razzie a cavallo dell’800 a danno dei ricchi centri controllati dai don, i facoltosi proprietari terrieri e notabili di zona. Le volanti della polizia fanno le vasche in su e in giù sulla statale con gli occhi aperti. Qualsiasi può succedere in qualsiasi punto, a qualsiasi bivio. Correre in 131 è più divertente ora e ha il gusto di un po’ di libertà in più e di obbligo in meno. Una temporanea route 66 in mezzo al Mediterraneo.
Posto di blocco
Tra martedi 12 e mercoledì 13 febbraio si arriva a un blocco generalizzato della Sardegna ad una settimana dell’inizio della rivolta. È l’evoluzione naturale di un conflitto che cresce perché invade con le proprie ragioni altre sfere della cosiddetta comunità di appartenenza, perché aumenta la consapevolezza di un potere nei confronti di una controparte – gli industriali – che è presa alla sprovvista e non riesce a difendersi. Ora sono i padroni che chiedono assistenza alla politica. È con i blocchi che si esercita la forza. Per piegare l’industriale. Da lunedì anche la Gallura si unisce alla protesta. A Olbia collettivamente viene gettato il latte davanti al municipio. È il segno distintivo della rivolta. Nella distruzione del proprio lavoro ci si nega come parte del processo di valorizzazione controllato dall’industriale. Come parte subalterna ma indispensabile a produrre la merce che arricchisce l’industriale: “E che soddisfazione c’è a lavorare così?” dice un ragazzo di Nurallao al presidio di Thiesi, davanti al caseificio dei f.lli Pinna, i più potenti tra gli industriali. “Traballu po fai guadangiai a issus”, lavoro per far guadagnare solo loro, non c’è soddisfazione. Bisogna distruggersi come lavoro per l’industriale per aumentare il costo del proprio lavoro, di chi si è. Per farsi rispettare. È un lavoro che si articola su una filiera industriale: l’allevamento, il caseificio al quale si conferisce, i distributori, la grande distribuzione organizzata. Quando un solo anello di questa catena, il primo, la sua parte viva, si nega nella sua funzione, quando non si combina più con le macchine dell’industriale, quando non si conferisce più, tutta la catena è danneggiata, tutto il processo è vulnerabile. Si inizia a farsi rispettare, a contare di più. Il padrone si riorganizza, prova a ricombinare secondo un’altra filiera la propria produzione. Bisogna farsi rispettare. Al molo sbarchi di Porto Torres e di Olbia mentre albeggia i pastori fermano ogni camion per controllare che non trasporti latte da fuori importato per rifornire i caseifici assetati. Sono coperti, fermano i mezzi, perquisiscono se sospetti, lasciano ripartire. Polizia e carabinieri osservano a distanza.
{youtube}DBd4M0AIMoo{/youtube}
“Qui siamo partiti più tardi, da due giorni, ma ora nessuno sta versando” raccontano dei ragazzi giovanissimi di Loiri al blocco convocato per martedì mattina al bivio di Trudda sulla 131 Diramazione, a pochi chilometri da Olbia. Le cose girano più veloci, tutto si accelera. Entrambi i sensi di marcia vengono bloccati, il latte versato sulla carreggiata e anche dal cavalcavia, come una cascata. Il blocco tiene per diverse ore. Nel frattempo nel tardo pomeriggio Salvini se ne esce con il suo proclamo: “soluzione entro 48 ore”, ma aggiunge “non tollererò altri blocchi”. Non si tratta di stare fuori dal perimetro della legalità, come ammonisce un agente rivolgendosi a pastori che non lo vedono e non lo sentono mentre stanno seduti sul guard-rail della statale, ma si tratta di ristabilire un principio di autorità. “Le legge la facciamo noi adesso” dice un pastore della Baronia il giorno dopo. Il bivio di Lula sulla 131 è completamente bloccato dalle nove e mezza del mattino. Tutti i centri del nuorese si sono dati appuntamento qui. La legge la facciamo noi significa che ora decidere è chi partecipa al nuovo ordine in cui si organizza la quotidianità delle persone unite nel conseguire lo stesso obiettivo: tutti quindi parlano, affermano, dicono la propria, partecipano. Non c’è immunità a questa battaglia. Mercoledì è uno dei momenti più alti della mobilitazione. Siniscola è attraversata da un corteo, a Sassari e Cagliari si snodano due manifestazioni studentesche che crescono contano diverse migliaia di partecipanti, le scuole sono chiuse in tanti paesi, in diversi centri anche i servizi comunali sono sospesi, nei paesi non coinvolti da blocchi vicini i pastori si ritrovano in piazza per insegnare a trasformare in formaggio il latte che non hanno versato agli industriali. A Nùoro le attività commerciali restano chiuse al mattino, tante anche al pomeriggio: “anche l’MD ha chiuso, il responsabile del punto vendita ha chiesto agli uffici se poteva chiudere, tutti i clienti hanno almeno un allevatore in famiglia. C’erano le mie amiche commesse che salivano verso la stazione ferroviaria per partecipare alla manifestazione”, racconta una barista di un bar del corso, in centro città.
Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.