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Menzogne e verità sulla cancellazione del Reddito di Cittadinanza

Il dibattito sull’abolizione del Reddito di Cittadinanza è stato viziato da alcuni elementi che hanno reso difficile comprendere fino in fondo il significato politico della Controriforma.

di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera

Lo scontro fra chi difendeva il RdC e quanti invece volevano eliminarlo si è svolto soprattutto attorno alla tragedia di quei 130.000 mila nuclei familiari (14,8% sul totale) per i quali il Reddito sarebbe stato cancellato già a fine luglio di quest’anno. Tuttavia, l’effetto di questo processo di Controriforma va ben oltre le sofferenze economiche e di vita alle quali le famiglie in questione dovranno fare fronte… A nostro parere, l’aspetto principale consiste nel tentativo di ridurre il costo del lavoro dei cosiddetti working poor, di quei lavori che già oggi vengono pagati pochissimo, con orari spesso estenuanti, in un contesto di forte deregolamentazione normativa, di ricatto e di assai irrisori e sporadici controlli sulle imprese. In tal senso non possiamo non evidenziare il carattere parziale, e per certi versi fuorviante, del dibattito inscenato in Parlamento nel corso dell’estate. Ci si è concentrati su un solo aspetto (il 14,8% di revoche), guardandosi bene dal discutere dei caratteri complessivi della riforma, sì da evitare che questi acquisissero una proiezione mediatica.

Il silenzio ha poi riguardato anche un altro aspetto, quello della riduzione degli anni di residenza necessari per percepire il Reddito (o, meglio, il sussidio che andrà a sostituirlo) da 10 a 5. Un provvedimento che avvantaggia gli italiani all’estero, certo, ma che in primo luogo viene incontro a lavoratori e lavoratrici immigrati. Tale riduzione non è di certo stata una battaglia “all’ultimo sangue” ingaggiata dal PD in Parlamento, derivando invece dalla promulgazione di una procedura d’infrazione contro l’Italia da parte della Commissione Europea1, 2 soprattutto in quanto il limite di 10 anni comprometterebbe la libera circolazione della forza-lavoro all’interno dell’area comunitaria, disincentivando i cambi di residenza transnazionali dei lavoratori a causa della paura di perdere il sussidio. Insomma, dietro la citata riduzione vi è una pressione esterna, ancorata a una ratio economica, e non certo un improbabile recupero, da parte dell’esecutivo Meloni, di una spinta umanitaria e solidale… tanto più che inizialmente ci sono stati attacchi alla legge sul RdC, provenienti da destra, motivati proprio dal fatto che questa ha procurato all’Italia una procedura d’infrazione. Il contenuto della quale, fra l’altro, è stato liberamente interpretato: «La Commissione pretenderebbe infatti che il sussidio sia esteso anche agli stranieri di paesi UE appena arrivati in Italia»3. Dunque… l’impressione è che inizialmente il Governo abbia voluto usare il pretesto dell’infrazione europea per attaccare la legittimità della legge sul Rdc, senza entrare nello specifico della procedura europea (che all’Italia chiedeva solo la riduzione degli anni di residenza richiesti da 10 a 5), così da ottemperare successivamente al dettame della Commissione, in silenzio, come è avvenuto, senza doversi spiegare con la componente xenofoba del proprio elettorato.

Il costo del Reddito di Cittadinanza

Assodato che la cancellazione totale del sussidio non esaurisce la questione, ci permettiamo di entrare nel merito anche di questo aspetto. Anzitutto verificando quanto sia costato il RdC allo Stato. “Quanto risparmiamo”, insomma, per ridurre sul lastrico diverse decine di migliaia di famiglie?

«Nel mese di giugno 2023 i nuclei beneficiari di Reddito di Cittadinanza sono 896 mila»4, ma la media da aprile 2019 (nascita del RdC) a giugno 2023 è di 1.026.9225 (il calo è dovuto prima di tutto agli accertamenti fatti, in ragione dei quali molte persone risultavano non avere diritto al percepimento della prestazione. Nel solo 2021, per esempio, ci sono state 107 mila revoche6).

Ora, per lo Stato il costo mensile risulta stabilmente di poco superiore al mezzo miliardo di €7, mentre su base annuale si tratta di circa 8,5 miliardi8 (incluse, in quest’ultimo dato, le spese per la Pensione di Cittadinanza). Se si prendono come termini di paragone le altre voci del bilancio INPS salta subito all’occhio come l’impatto del RdC sui conti sia praticamente trascurabile, trattandosi di cifre limitate e costanti negli anni. Per farvi un’idea considerate che i soli contributi dovuti, ma non versati, dalle imprese all’INPS nel 2023 ammontano quasi a 134 miliardi di €9 (comprensivi dei contributi dei lavoratori che, però, ne costituiscono minima parte), rappresentando per di più solamente il 70,4%10 del totale dei crediti del nostro principale ente previdenziale… E allora, per quanto nell’odierno sistema socio-economico la sostenibilità di bilancio di una misura di welfare state dipenda dalle risorse a disposizione del Governo, non si potrà mai dimostrare che l’abrogazione del RdC sia stata un provvedimento d’emergenza, necessario per salvare i conti pubblici del Paese intero, e che quindi il sacrificio di alcune centinaia di migliaia di famiglie fosse irrinunciabile.

La cancellazione del Reddito di Cittadinanza

Secondo la Finanziaria (L. 197/2022) il RdC rimane, sì, disponibile per il 2023, ma fino a un massimo di sette mensilità, fatte salve le famiglie con membri disabili, minori o dai 60 anni in su (art. 1, cc. 313 e 314) e quelle seguite dai servizi sociali11. Inoltre cambiano i requisiti per riceverlo, in quanto nell’ottica dell’imminente dismissione del sussidio ne viene facilitata la revoca al singolo cittadino, obbligandolo ad accettare la prima offerta di lavoro (quando invece prima aveva due possibilità di rifiuto). Volendo dare uno sguardo ai dati, tolti i casi di sospensione del Reddito, dei ritardi di tipo amministrativo e delle nuove richieste di fruizione del sussidio pervenute successivamente al 1° gennaio 2023, che non figurano nelle statistiche dell’INPS, risulta che i percettori di RdC siano passati dagli 895.72312 nuclei familiari di giugno 2023 ai 763.03113 di settembre, per effetto del limite di sette mensilità imposto da Meloni. Una riduzione, quindi, di poco oltre le 130.000 unità. 130.000 famiglie che soffriranno moltissimo per questa scelta del Governo ma che, in termini demografici (e anche di bilancio INPS, come dicevamo), rappresentano solo una piccola quantità.

Per evitare ripercussioni eccessivamente gravi il Governo ha pensato a un ammortizzatore sociale in grado di fornire loro una copertura, sia pur minima, dopo la perdita del RdC. Tale misura è stata denominata Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL) e consisterà in un contributo di 350 € al mese per chi in famiglia non abbia disabili, minori o persone con almeno 60 anni (ossia per chi non abbia diritto al Reddito), a patto comunque che possa presentare un Isee non superiore ai 6.000 € (D.L. 48/2023, art. 12, c. 2), quando col RdC il limite era di 9.360 €14 (e l’importo medio mensile poco meno di 600 €). Inoltre, per formalizzare l’accesso a SFL costui dovrà dimostrare di essersi già recato presso tre agenzie interinali15 o centri per l’impiego (art. 12, c. 5).

Assegno di Inclusione e obbligo al “lavoro povero”

Nel 2024 potrà usufruire del SFL anche il percettore dell’Assegno di Inclusione (AdI), il sussidio che andrà a sostituire il RdC a partire dal 2024. L’Assegno, istituito col D.L. 48/2023, sarà destinato esclusivamente a famiglie con almeno una persona minore, disabile o dai 60 anni in su – purché chi ne fa richiesta sia residente da almeno 5 anni in Italia, sia cittadino UE o suo familiare – (art. 2) ed è condizionato all’adesione a «un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa» (art. 1). Il limite Isee per percepire il sussidio è lo stesso del Reddito di Cittadinanza, 9.360 € (art. 2), mentre l’importo minimo sarà più basso: 450 € al mese (art. 3).

AdI, dunque, è una misura che eroga risorse più modeste rispetto al RdC ma allo stesso tempo impone obblighi di lavoro molto più gravosi. Tanto per cominciare, col Reddito la prima offerta di lavoro doveva distare massimo 100 km, o 100 minuti di tragitto, dalla residenza del cittadino (D.L. 4/2019, art. 4, c. 9), ed era possibile rifiutare le prime due proposte per accettarne una terza. Quelle successive alla prima presentavano margini per il rifiuto via via peggiori, certo, ma il quadro rimaneva nettamente migliore. Al contrario, con l’Assegno di Inclusione ci si trova a dover accettare obbligatoriamente la prima offerta, su qualunque luogo nel territorio nazionale, eccezion fatta per i lavori a tempo determinato (anche in somministrazione interinale), che proprio perché hanno un termine non possono determinare il trasferimento geografico di una famiglia e quindi devono essere situati entro 80 km dalla residenza (D.L. 48/2023, art. 4, c. 9).

A parere degli scriventi è proprio questa la principale ragione della riforma: non tanto il risparmio economico, che c’è ma è di entità trascurabile, quanto la possibilità di abbassare ulteriormente il costo del lavoro di quei settori tradizionalmente appannaggio di contratti precari e sottopagati (nonché di una forte deregolamentazione normativa) che vengono spesso gestiti da micro-aziende e cooperative in appalto e subappalto di imprese più importanti. Ammortizzando i costi delle attività economiche tramite, appunto, contratti di appalto al ribasso, queste ultime riescono indirettamente ad abbassare il costo del lavoro e, di conseguenza, a concentrare i profitti nelle proprie mani, incrementando i margini di competitività sul mercato. Chiaramente una legge che istituisca un salario minimo sarebbe nettamente in controtendenza perché imporrebbe, all’opposto, un innalzamento dei salari proprio nei lavori meno pagati, determinando la rottura del meccanismo appena descritto. Non stupisce, perciò, il recente voto contrario del CNEL sul merito16. Certo, un salario minimo avrebbe il pregio di portare a un maggior controllo dei processi di reperimento della cosiddetta “disoccupazione stagnante” [M. Donato, G. Pala, 1999], ossia di quei disoccupati che oggi trovano occupazioni saltuarie, intermittenti, molto precarie, ecc., entrando e uscendo continuamente dal mercato del lavoro e determinando, in questo modo, una limitata capacità di ottemperare efficacemente alle frequenti esigenze imprenditoriali di forza-lavoro extra, causate dalle fluttuazioni di mercato. E difatti uno dei principali obiettivi della trasformazione del RdC in AdI è proprio questo: incrementare la reperibilità e il controllo della forza-lavoro posta in condizioni di disoccupazione stagnante al fine di compensare alcune fluttuazioni del mercato e di ridurre i costi di produzione in alcuni settori economici (tra cui i servizi). Come? Innanzitutto incrementando il controllo, la schedatura e la coercizione dei lavoratori aderenti al sussidio, come vedremo fra poco.

Ma non solo. Sorprenderà sapere che la legge riduce l’entità del sussidio e al contempo rende tutti i lavori a intermittenza e stagionali, che il soggetto dovesse accettare, nulli per il computo del proprio Isee (almeno fino a 3.000 € di guadagni), cosicché egli non abbia timore di prendere un lavoro saltuario e sottopagato per integrare la miseria di AdI e gli imprenditori possano continuare a tener bassi i salari17. Col RdC, ai fini Isee tali lavori erano computati al’80% (sempre entro i 3000 €18). Se, dunque, nelle scorse estati il problema era che non si trovavano più lavoratori disposti alle paghe da fame di alcuni settori (come quello turistico, ad esempio) a causa del fatto che parecchi di loro percepivano il RdC, ora invece il nuovo sussidio non basterà più e costoro potranno tornare a lavorare sotto sfruttamento senza nemmeno la paura di perderlo, in quanto i nuovi introiti non verranno calcolati per l’Isee. Bene, dunque, per questi lavoratori casualmente fortunati, ma “strano” che rimangano fuori le categorie dei dipendenti a progetto, di quelli delle multiservizi in appalto, ecc., che spesso vivono condizioni salariali peggiori dei lavoratori a intermittenza19. Una misura di sostegno alla piccola imprenditoria del settore? Un incentivo alla stabilizzazione di un sistema di sfruttamento del lavoro a basso costo?

Infine: il percettore di AdI, se non è tenuto agli obblighi di lavoro (ossia se è egli stesso anziano o disabile), per integrare l’esiguità dell’Assegno può richiedere di ricevere, in aggiunta, il Supporto per la Formazione e il Lavoro. Però in quel caso dovrà lavorare. Vale a dire: se sei anziano o disabile puoi decidere di lavorare lo stesso per ricevere 350€ in più al mese… Incredibile. Per prevedere una tale misura il Governo doveva essere perfettamente consapevole del fatto che l’Assegno di Inclusione non sarebbe stato sufficiente per queste famiglie… L’articolo incriminato è il numero 6, c. 5, del solito D.L. 48/2023: solo chi vuole speculare sulla miseria e la disperazione può riuscire nell’immane compito di schiavizzare i disabili (che costituivano circa il 22% dei percettori del RdC20).

Controllo e schedatura dei lavoratori

L’obiettivo di abbassare il costo del lavoro nei settori del cosiddetto “working poor”, nonché di aumentare la reperibilità della forza-lavoro ivi operante e la possibilità di organizzarla in maniera efficace, non può essere raggiunto soltanto a “colpi di legge”. È necessario coartare i lavoratori ad accettare lavori precari e sottopagati predisponendo un impianto repressivo e di controllo.

In tal senso, già in origine la legge sul Reddito di Cittadinanza (D. L. 4/2019) esprimeva una tendenza d’indirizzo, imponendo ai lavoratori la comunicazione del salario percepito (art. 3, c. 8). Nelle Comunicazioni Obbligatorie, infatti, normalmente il datore di lavoro deve inserire il Contratto Collettivo e il livello d’inquadramento del dipendente, da cui il Ministero del Lavoro desume poi la retribuzione minima ma non quella effettiva. Vista alla luce dei successivi sviluppi legislativi, tale norma appare perciò come l’inizio di un processo di progressiva schedatura dei lavoratori percettori dei sussidi e, quindi, appartenenti alle fasce salariali più basse. Tale processo prosegue con la Finanziaria per il 2023, secondo cui «Le regioni sono tenute a trasmettere all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro gli elenchi dei soggetti che non rispettano l’obbligo di frequenza» (art. 1, c. 315), ma è col D. L. 48/2023 che l’impianto di controllo viene dispiegato:

schedatura dei lavoratori, tramite l’istituzione del Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (SIISL) (art. 5, c. 1). Per ricevere l’AdI è obbligatoria l’iscrizione a SIISL, una nuova piattaforma INPS per l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro e formazione. Con l’iscrizione, i dati del lavoratore vengono trasmessi «ai centri per l’impiego, alle agenzie per il lavoro [agenzie interinali] e agli enti autorizzati all’attività di intermediazione (…), nonché ai soggetti accreditati ai servizi per il lavoro» (art. 4, c. 1). La trasmissione dei dati alle agenzie interinali è la principale novità rispetto alla legge sul RdC21 e non riguarderà solo i percettori di AdI, ma anche quelli di SFL e NASPI (art. 13), determinando con ogni probabilità un incremento delle offerte di lavoro ma anche un abbassamento del livello salariale medio proposto. L’iscrizione a SIISL comporta poi l’attivazione dei servizi sociali entro 120 giorni e un appuntamento obbligatorio presso gli stessi massimo ogni 90 giorni, per aggiornare la propria posizione. Pena, la sospensione di AdI (art. 4, c. 4). In ultimo è fatta delega al Ministero del Lavoro a produrre disposizioni che stabiliscano «le modalità con le quali, attraverso specifiche convenzioni, società pubbliche, ovvero a controllo o a partecipazione pubblica, possono accedere al sistema informativo [SIISL] per la ricerca di personale» (art. 5, c. 3). Un’apertura al privato che accredita le aziende come soggetto attivo per l’attuazione di questa misura di welfare state, abilitandole alla ricerca di lavoratori tramite SIISL (agenzie interinali e società a partecipazione pubblica). Un’apertura per ora parziale, che potrebbe diventare più radicale in futuro22;

estensione degli obblighi di lavoro e formazione a tutti i componenti della famiglia tra 18 e 59 anni che siano abili al lavoro. Costoro saranno inviati al Centro per l’Impiego entro 60 giorni dalla richiesta di AdI per la «sottoscrizione del patto di servizio personalizzato», e successivamente ogni 90 giorni per effettuare periodici aggiornamenti sulla base della situazione lavorativa (art. 4, c. 5 e art. 6, c. 4), pena la decadenza dal beneficio (art. 12, c. 8). In casi particolari i servizi sociali possono predisporre modifiche e adeguamenti ad hoc, se concretamente motivati (art. 4, c. 6);

predisposizione di un impianto di controllo. Controlli ispettivi sono svolti dall’Ispettorato Nazionale Lavoro e dai Carabinieri della Tutela Lavoro, mentre l’accesso a SIISL e a tutte le altre informazioni e banche dati già a disposizione del personale ispettivo INPS viene esteso all’Ispettorato, di nuovo, e alla Guardia di Finanza (art. 7, c. 1). Da parte del Ministero del Lavoro è inoltre prevista l’elaborazione di un piano triennale per contrastare la percezione illegittima di AdI (art. 7, c. 4), mentre ai Comuni viene affidato «l’incrocio delle informazioni dichiarate ai fini ISEE con quelle disponibili presso gli uffici anagrafici e quelle raccolte dai servizi sociali e ogni altra informazione utile per individuare omissioni nelle dichiarazioni o dichiarazioni mendaci al fine del riconoscimento del beneficio» (art. 8, c. 11). Infine, con AdI sono concessi prelievi in contanti limitati (massimo 100€ al mese circa) (art. 4, c. 8).

La percezione illecita del sussidio, già verificatasi con il RdC, rischiava in effetti di aumentare col passaggio a una misura più modesta quale è AdI. Tuttavia la combinazione delle operazioni di schedatura della forza-lavoro con quelle di controllo dell’adempimento agli obblighi di legge è la base per far accettare le condizioni d’impiego inadeguate previste per i lavoratori più poveri e innesca un meccanismo di graduale e progressivo peggioramento delle stesse. Tanto più se si pensa al fatto, fondamentale, che d’ora in poi se un qualsiasi componente del nucleo si licenzia volontariamente dal lavoro (anche un ragazzo, lo ricordiamo), tutto il nucleo perderà diritto al sussidio (art. 2, c. 3);

predisposizione di un impianto repressivo. Per quanto riguarda le pene e sanzioni previste in caso di illecito si ricalca più o meno il vecchio impianto della legge sul Reddito di Cittadinanza. È prevista la reclusione (da 2 a 6 anni) per la presentazione di documenti falsi o attestanti il falso (art. 8, c. 1) e per «L’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari» (art. 8, cc. 1 e 2). Un lavoratore in difficoltà economica, dunque, non può accettare un lavoro in nero per paura della reclusione, anche se la colpa è del datore di lavoro che non vuole assumerlo con regolare contratto. In entrambi i casi, oltretutto, in aggiunta alla decadenza dal beneficio è prevista l’impossibilità di richiederlo prima che siano trascorsi dieci anni dalla sentenza definitiva (art. 8, c. 3). Per qualsiasi altra inadempienza, ossia se un qualsiasi componente del nucleo non si presenta ai centri per l’impiego, non lavora, dichiara il falso, non effettua le comunicazioni dovute, ecc., è prevista la semplice decadenza da AdI (art. 8, c. 6).

Sgravi e incentivi alle imprese

Per l’assunzione di lavoratori con AdI è previsto un corposo esonero contributivo, del 100% per un anno («se a tempo indeterminato, pieno o parziale, o anche mediante contratto di apprendistato», mentre in caso di contratti precari l’esonero è del 50%) e fino a un massimo di 8.000 € per lavoratore. L’esonero viene esteso a 24 mesi per le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in indeterminati (art. 10, cc. 1 e 2). Sono previste sanzioni per le aziende che decidono di non versare i contributi indebitamente, ma allo stesso tempo il termine per la notifica allo Stato dei mancati versamenti passa da 90 giorni al «31 dicembre del secondo anno successivo a quello dell’annualità oggetto di violazione» (art. 24, c. 2), rendendo loro semplice correre ai ripari ed effettuare i versamenti, in caso di controlli, senza incorrere in sanzioni. Inoltre si ricordi che tutte le agevolazioni citate sono aggiuntive rispetto a quelle già previste per le stesse ragioni: 8.000 € di sgravi contributivi per la trasformazione di un determinato in indeterminato e per l’assunzione di donne disoccupate23; recupero dei versamenti contributivi in 8 anni tramite sgravi fiscali24.

Ad ogni modo, i nuovi incentivi alle imprese ci costeranno mediamente 140 milioni all’anno + 45 milioni circa per SFL (oltre 100 milioni l’anno per il 2023 e il 2024) (art. 13, cc. 8 e 9).

Sono previsti anche degli incentivi per le agenzie interinali, alle quali per ogni assunto è riconosciuto un contributo statale pari al 30% di 8.000 € (art. 10, c. 4)25, 26. Spesso, poi, le agenzie interinali sono anche agenzie formatrici e, quindi, prendono i soldi sia per la fornitura di manodopera che per le attività formative e di orientamento. Attribuire loro compiti di questo tipo, del resto, ha una duplice valenza: da una parte depotenziare definitivamente la formazione erogata dalle strutture pubbliche, dall’altra aumentare il numero di enti formatori che potranno presentarsi nella doppia veste di formatori e datori di lavoro.

Per gli incentivi alle agenzie interinali e a una serie di enti, nel Decreto considerati congiuntamente (università pubbliche e private, enti del terzo settore e imprese sociali), è prevista copertura statale di circa 9 milioni di € annui + 1,5 milioni all’anno per SFL (6,1 per il 2023). Complessivamente, sgravi e incentivi pesano sul bilancio per circa 250 milioni, su un totale di quasi 6 miliardi annui per AdI e 800 milioni per il SFL (art. 13, cc. 8 e 9).

Funzione politica dei sussidi

È nostra opinione che RdC e AdI, sebbene presentati come misure di sostegno a settori della popolazione estremamente poveri, quando non proprio in via di emarginazione, siano in realtà principalmente ammortizzatori sociali che servono a limitare i danni causati dalla precarizzazione e pauperizzazione del lavoro dipendente in azienda. La loro funzione politica sarebbe perciò quella di coprire parte delle conseguenze di decenni di politiche neo-liberiste (dalla precarizzazione del lavoro alla deregolamentazione e all’abbassamento dei salari reali), che hanno enormemente avvantaggiato le imprese. Tali sussidi, tuttavia, vengono finanziati dallo Stato, nell’ottica strategica di investire capitali sulla riduzione del costo del lavoro: un settore di lavoratori poveri disciplinato e controllato, obbligato ad accettare qualsiasi lavoro (pena la perdita del sussidio), vuol dire in termini economici una pura e semplice riduzione del costo del lavoro.

Vediamo se è veramente come abbiamo detto. Un primo dato è il confronto tra i flussi in entrata e quelli in uscita, ossia fra chi percepisce il sussidio per la prima volta e chi smette di percepirlo perché è riuscito ad arrivare a un incremento di reddito. Ebbene, i primi sono stati sensibilmente più dei secondi fino al 2021, quando è cominciata la ripresa economica del post-pandemia che ha portato a una certa progressiva riduzione del tasso di disoccupazione: «La lettura congiunta dell’andamento dei nuclei beneficiari del RdC con il tasso di occupazione suggerisce che il ricorso al sostegno si è acuito nelle fasi più severe della pandemia, mentre vi è stato un progressivo abbandono della misura nel periodo di ripresa economica. La fruizione del RdC appare quindi condizionata dall’andamento del ciclo economico più che costituire una forma di assistenzialismo sociale [grassetto nostro]»27. Non solo: la fruizione del RdC non sembra in grado di determinare, di per sé, il reinserimento del fruitore nel mercato lavorativo, in quanto chi inizia a percepire il Reddito non risulta capace di migliorare le proprie condizioni a meno che non siano le condizioni economiche generali a migliorare (riduzione del tasso di disoccupazione). Per quanto riguarda il triennio 2018-202028 «i flussi in accesso sono decisamente più consistenti di quelli in uscita. Infatti gran parte degli individui coinvolti [nel 2018], circa 4,2 milioni, appartengono al milione e mezzo di famiglie che hanno ricevuto questi sussidi nel corso del 2020»29. È inutile citare dati numericamente più precisi, dal momento che la percentuale di cittadini che richiedono il Reddito avendone diritto varia in maniera molto consistente da Nord a Sud Italia, forse anche sulla base di fattori socio-culturali (come la minor presenza di forza-lavoro immigrata nel Sud rispetto al Nord). Per i dati esatti, dunque, rimandiamo ai riferimenti nelle note.

Dopo il confronto tra flussi in entrata e in uscita, un secondo dato da considerare per comprendere l’utilità di RdC è la tipologia di lavoro cui i fruitori andavano incontro. Secondo un rapporto Istat del 2020, tra i fruitori dei sussidi si registra «una notevole diffusione delle tipologie più deboli e precarie del lavoro dipendente e delle professioni, queste ultime essenzialmente non qualificate e legate a filiere piuttosto definite: agricoltura, costruzioni, imprese di pulizia, servizi domestici, servizi ricettivi e di ristorazione»; un quadro che fa emergere «sia le specializzazioni settoriali delle occupazioni [come appena detto], sia la natura precaria dei rapporti di lavoro sia, infine, l’esiguità delle retribuzioni»30. Per essere chiari, secondo lo stesso documento le mansioni più frequenti sono: cameriere, muratore, bracciante agricolo, facchino, addetto alle pulizie, autista, venditore31. È chiaro che non si tratta di lavori in grado di garantire l’uscita da una condizione di bisogno.

Un terzo e ultimo dato che va considerato è quello sui titoli di studio posseduti dai fruitori di RdC: nel 2020, a fronte di 2,3 milioni di fruitori aventi la terza media, vi sono 42 mila laureati e 730 mila diplomati32. Un terzo (il 33,7% circa), quindi, ha un titolo di studio che gli consentirebbe di svolgere lavori diversi e più qualificati, che nelle statistiche sui primi dieci mestieri a cui si accede più frequentemente tramite il Reddito, semplicemente, non compaiono. Un altro indice della reale funzione di tali sussidi che, pur ponendosi l’obiettivo di formare e specializzare quei settori marginali e poveri della forza-lavoro cui vanno incontro, non riesce a risultare efficace e riproduce, al contrario, meccanismi di precarizzazione progressiva. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio addossa la colpa «alle scarse qualifiche professionali dei destinatari delle politiche di sostegno che dovevano essere inseriti nel mercato del lavoro»33 (oltre che a difficoltà della macchina amministrativa). Vedremo se con AdI le cose cambieranno ma l’impressione è che, nonostante i 4,4 miliardi affidati all’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro per i programmi di formazione34 e i fondi erogati alle agenzie interinali per formare i propri iscritti, non vi sia un reale collegamento con le competenze realmente ricercate dalle aziende. Un nuovo fallimento delle politiche attive del lavoro, dopo quelle attuate negli anni del RdC, sarebbe una conferma ulteriore della reale funzione politica di questa riforma: precarizzare, abbassare i salari, irreggimentare la forza-lavoro e ghettizzarne gli strati più poveri. Ma cosa ne dicono i suoi fautori, in primis Fratelli d’Italia?

Il programma di FdI: galera per il lavoro salariato

Quella relativa alla destra sociale è una leggenda tra le più dure a morire. In ultima analisi, essa si basa su roboanti proclami in favore dei diritti della classe lavoratrice, che lo Stato garantirebbe in cambio della rinuncia a qualsiasi spinta conflittuale. In sostanza chi lavora dovrebbe disporsi con gioia e spirto di sacrificio a servire la patria, perseguendo la concordia con imprenditori altrettanto inclini a operare per la crescita della nazione e quindi meno egoisti del solito. Ora, la storia si è ampiamente incaricata di dimostrare che, senza una strenua difesa dei propri interessi di classe, mai subordinati ad altre istanze, la classe lavoratrice non ha mai ottenuto nulla di serio. E se al riguardo ci fossero ancora dei dubbi, le leggende relative a una “destra dalla parte dei lavoratori” sono state sonoramente smentite dall’operato del governo Meloni. Da subito il partito-perno dell’esecutivo in carica (FdI) ha rivelato forti convergenze con quel PD che è il cardine della “sinistra” governista e confindustriale. Entrambe le forze si muovono nel solco tracciato da Mario Draghi, Presidente della BCE dal 2011 al 2019 e a capo del governo italiano nel biennio 2021-2022. Il che vuol dire sostegno a nuove e massicce privatizzazioni, continuo attacco alle pensioni e compressione dei diritti di chi lavora.

Magari, la destra postfascista a questo quadro ha aggiunto qualcosa di suo, come per l’appunto lo smantellamento di quel Reddito di Cittadinanza che consentiva a molte persone in difficoltà di soddisfare alcuni bisogni primari. Nel farlo, Meloni, il suo partito e il suo governo hanno rivelato una ferrea determinazione e ciò ha portato diversi osservatori a parlare di una “destra che odia i poveri”. In principio, una simile formulazione poteva anche andare bene, nel senso che si trattava di un modo iniziale per demistificare la retorica circa la sensibilità sociale dei postfascisti. A lungo andare, però, essa ha finito per confinare il discorso in un ambito, quello della predica morale, che tutto può fuorché impensierire l’attuale governo.

Sotto questo profilo, maggiore lucidità viene espressa dai sindacati di base, che associano la cancellazione del RdC alla volontà di estendere l’area del lavoro povero e di abbassare ulteriormente i salari di tutti.

Certo, questa intuizione del sindacalismo di base andrebbe ulteriormente sviluppata, magari ricollegandosi alla visione economico-sociale propria del governo e in particolare della forza politica in essa dominante. Alcuni aspetti di questa impostazione sono stati precisati in quegli Appunti per un programma conservatore (2022), di cui è particolarmente interessante analizzare il primo capitolo, curato dall’attuale Ministro della Difesa, l’imprenditore Guido Crosetto. Parliamo di un personaggio che la stampa italiana indica da sempre come voce moderata del partito, sia per la sua attenzione agli equilibri istituzionali sia per la disponibilità a dissociarsi dalle forme di razzismo più plateali (lo attesta in particolare il suo intervento nella vicenda legata al generale Vannacci). Tuttavia, nel testo richiamato egli si è spinto così in avanti, nel teorizzare la coercizione del lavoro salariato, che dure critiche sono pervenute persino dal quotidiano della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), l’Avvenire.

Il lavoro, infatti, è considerato come un obbligo giuridico, tanto che di pagina in pagina si definisce un contesto in cui un giovane risulta «vincolato ad accettare l’offerta di lavoro per sé, per la sua famiglia e per il paese». Per quanto concerne l’incontro tra domanda e offerta, si teorizza l’adozione di un «sistema di intelligenza artificiale che rintracci l’elenco dei giovani che terminano ogni anno le scuole superiori e l’università e li agganci a imprese del settore, agenzie per il lavoro e centri per l’impiego». Dunque, ci riferiamo a un meccanismo che si attiva a prescindere dalla volontà dei giovani, in ogni caso impossibilitati a rifiutare le offerte, pena l’attivarsi di un sistema sanzionatorio. Ora, il senso di questa proposta lo descrive proprio il quotidiano cattolico: «Quale, fra le imprese, sarebbe più costretta ad alzare i salari o a migliorare le condizioni contrattuali, se i giovani formassero l’inesauribile esercito dei coscritti al lavoro?»35.

Un altro aspetto rilevante degli Appunti è il modo d’intendere la lotta al lavoro nero. Che non viene fatta passare per maggiori controlli sull’operato delle imprese, anzi: l’osservazione permanente dovrebbe riguardare proprio i lavoratori, quasi fossero loro i responsabili della situazione. Nel testo si parla in particolare di sottoporre «costantemente (financo tutti i giorni) le persone prive di lavoro a un obbligo formativo permanente». Un’ipotesi autoritaria e anche di difficilissima attuazione pratica, il cui senso, però, non è quello di sconfiggere il lavoro nero. Bensì di aumentare la pressione nei confronti dell’esercito di coscritti di cui si diceva prima. Certo, quando è intervistato dallo stesso Avvenire36 Crosetto cerca di indorare la pillola, trasformando l’obbligo al lavoro in una provocazione culturale. Tuttavia, la filosofia di fondo degli Appunti è stata tutt’altro che smentita, dato che lo stesso ha anche precisato che «lavorare è un dovere morale per sé stessi, la propria famiglia, la comunità nazionale». Il che, uscendo dalla sfera puramente teorica, può avere precise conseguenze, presentate in questi termini dal politico-imprenditore in questione: «se sei un disoccupato e continui a rifiutare le offerte che ti vengono proposte perdi il diritto ad aiuti pubblici». Certo, il discorso risulta più sfumato rispetto al testo, ove si propugnavano sanzioni per i rei di rifiuto del lavoro, ma la sua portata sostanziale rimane notevole.

Ma torniamo all’idea, in precedenza accennata, di controllare i disoccupati. Nella già citata conversazione con il quotidiano dei vescovi, Crosetto distingue tra il «lavoro nero di necessità» e quello di «convenienza». Certo, non sembra escludere controlli nei confronti degli imprenditori che lo utilizzano, rei di far «concorrenza sleale» ai colleghi onesti, però l’obiettivo da colpire risulta costituito da chi, «in cassa integrazione, incassa il sussidio e lavora in nero per convenienza sua e dell’impresa che lo ingaggia». Onde contrastare questo comportamento, il tempo dei cassintegrati andrebbe riempito con «lavori utili alla comunità o programmi di formazione». A noi pare che il fenomeno venga strumentalmente ingigantito ma, anche se fosse diffuso come si dice, non se ne dovrebbe ignorare la ragione di fondo: per sbarcare il lunario non basta l’80% di salari già bassissimi e inadeguati all’odierno costo della vita. Il punto, però, è quello di eliminare qualsiasi ostacolo a forme di rientro nel mondo del lavoro sì ufficializzate (e con tutti i crismi della legalità), ma segnate da condizioni salariali e normative a dir poco pessime.

In ultimo, va detto che nell’intervista all’Avvenire si smentisce l’iscrizione automatica, senza consenso, al sistema che “fa incontrare” domanda e offerta del lavoro, ma forse più per la sua impraticabilità tecnica che per altri motivi. Ovviamente, non tutte le proposte contenute negli Appunti si potranno tradurre nella realtà e, del resto, si tratta di un documento più ufficioso che ufficiale. Però in esso emerge un’idea precisa dell’Italia: una sorta di galera del lavoro salariato, dove gli imprenditori potranno agire senza vincolo alcuno.

Un quadro siffatto, peraltro, si associa anche a una precisa concezione dei sindacati. Che, oltre a non agire più il conflitto, non dovranno neppure far finta di accalorarsi in occasione di questo o quel rinnovo contrattuale, sulla scia di quelle organizzazioni confederali che, alla fine, risultano specializzate nella firma di contratti-bidone. Per non risultare fuori luogo i sindacati, anche quelli già morbidi verso il padronato, dovrebbero specializzarsi nel disciplinamento della forza-lavoro, diventando “educatori” che fanno interiorizzare ai salariati gli obiettivi dello sviluppo economico nazionale.

Conclusioni

La nostra finalità principale era di spiegare il nesso tra l’abolizione del Rdc e la crescente tendenza ad abbassare il costo del lavoro negli appalti e nei subappalti, quando invece l’attitudine sindacale e politica è di spezzettare la discussione, impedendo che si sviluppino nessi logici e politici tra i vari provvedimenti adottati in materia di welfare, lavoro, fisco e pensioni. L’intero dibattito viene alimentato da un pressapochismo che si avvale di proclami ideologici e fake news funzionali a far passare i singoli provvedimenti, senza mai avere una reale contezza delle questioni; l’obiettivo, per essere ancora più espliciti, è stato quello di presentare la cancellazione del RdC come una decisione di giustizia sociale. Dal canto suo AdI è stato confezionato come uno strumento punitivo e di controllo sociale ma sbandierato dinanzi all’opinione pubblica come una misura puramente assistenziale, quando in realtà, rispetto al Reddito, ha una capacità di assistenza ai soggetti fragili drasticamente ridotta. E meno male che «Uno Stato giusto garantisce una rete di protezione sociale a sostegno dei più fragili e delle persone in difficoltà»37, come dicono! A noi sembra piuttosto che la cancellazione delle protezioni sociali, unita alla riduzione delle tasse sul lavoro per i datori, costituisca un buon biglietto da visita per presentarsi ai capitali internazionali.

  1. INFR(2022)4024 – Violazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 45, par. 2, TFUE relativamente al reddito di cittadinanza e pensione di cittadinanza. Allo stato attuale l’Italia è a rischio deferimento alla Corte di Giustizia europea, in quanto non ha ufficialmente risposto alla Commissione entro il termine concesso (due mesi, scaduti a metà aprile), e in proposito citiamo un’interrogazione parlamentare dell’On. Fabio Porta (PD) del 4/5/2023, consultabile in https://www.italiannetwork.it/news.aspx?id=74876. La riduzione degli anni di residenza necessari è stata operata direttamente sull’Assegno di Inclusione (D.L. 48/2023, art. 2, comma 2), che sostituisce il RdC, senza correggere la vecchia legge, per cui la procedura d’infrazione non è (per ora) stata archiviata. ↩︎
  2. Vi è stata anche l’infrazione della Direttiva 2011/95/EU, riguardante il diritto alla libera circolazione dei beneficiari di protezione internazionale sul territorio europeo. ↩︎
  3. Marco Bianchi: Il reddito di cittadinanza è finito nel mirino dell’Unione Europea. In “https://www.italiaoggi.it/news/il-reddito-di-cittadinanza-e-finito-nel-mirino-dell-unione-europea-2594054”. ↩︎
  4. Fonte: INPS: Pensione/Reddito di Cittadinanza. Report luglio 2023, p. 5. ↩︎
  5. Ibidem, p. 23. ↩︎
  6. Ibid., p. 5. ↩︎
  7. Fonte: INPS: Pensione/Reddito di Cittadinanza. Lettura dati 20 settembre 2023, pp. 10 e 11. ↩︎
  8. Fonte: INPS: Bilancio preventivo 2023. Tomo I, p. 82. ↩︎
  9. Fonte: INPS: Bilancio preventivo 2023. Tomo I, pp. 86 e 87. Il totale dei crediti previsto dall’INPS per il 2023 ammonta a oltre 190 miliardi di €, a fronte di circa 101 miliardi di debiti. ↩︎
  10. Ibidem, p. 87. ↩︎
  11. INPS: Messaggio n. 2632, p. 2; D.L. 48/2023, art. 13, c. 5. ↩︎
  12. Fonte: INPS: Pensione/Reddito di Cittadinanza. Report luglio 2023, p. 24. ↩︎
  13. Fonte: INPS: Pensione/Reddito di Cittadinanza. Lettura dati 20 settembre 2023, p. 12. ↩︎
  14. Il livello minimo di Isee andrebbe aumentato, vista l’inflazione galoppante… ma tra pochi anni, senza recupero del potere d’acquisto, sarà difficile per tutti. La soluzione allora potrebbe essere una rivalutazione di tutti in sussidi in base almeno agli indici istat. ↩︎
  15. Oggi chiamantesi “agenzie per il lavoro”, in base al D. Lgs. 276/2003 (art. 4, c. 1). ↩︎
  16. Federico Giusti ed Emiliano Gentili: CNEL e salario minimo. In “https://www.lafionda.org/2023/10/16/cnel-e-salario-minimo/”. ↩︎
  17. L. 197/2022, art. 1, c. 317, lett. a; D. L. 48/2023, art. 3, c. 5. ↩︎
  18. D. L. 4/2019, art. 3, c. 8. ↩︎
  19. Anche se all’art. 9, c. 2 del D. L. 48/2023 è detto che i nuovi redditi da lavoro dipendente che comportino il superamento della soglia reddituale necessaria per aver diritto all’AdI non vengono considerati, a patto che il nuovo rapporto di lavoro abbia una durata fra uno e sei mesi. In questo caso, appunto, AdI viene semplicemente sospeso e riattivato al termine del rapporto. ↩︎
  20. Fonte: INPS: Pensione/Reddito di Cittadinanza. Report luglio 2023, p. 7. ↩︎
  21. D. L. 4/2019, art. 6, c. 1. ↩︎
  22. Con il D. L. 50/2022, art. 34-bis, c. 1, ad esempio, si è permesso alle aziende private di contattare direttamente i fruitori dell’Assegno di Ricollocazione (misura di “sostegno attivo alla ricerca di lavoro” destinata a chi è in NASPI). ↩︎
  23. L. 197/2022, art. 1, cc. 297 e 298. ↩︎
  24. Nelle modalità indicate da L. 68/1999, art. 13. ↩︎
  25. Nel quarto trimestre 2021 il numero di lavoratori in somministrazione è stato pari a 622.230 occupati, di cui più di 112 mila a tempo indeterminato, il 18,2% del totale. Di questi, 75.108 (12,1%) avevano una missione a tempo indeterminato con l’azienda utilizzatrice. Le agenzie interinali, oltre ai nuovi regali del Governo, guadagnano mediamente il 15% sul costo dell’orario di lavoro e la massima flessibilità degli impiegati risulta conveniente all’azienda utilizzatrice. Fonte: Ebitemp, 2021. In “Valentina Melis e Serena Uccello: Lavoratori somministrati: più 93mila contratti in un anno, ma c’è il rischio stop. Il Sole 24 Ore, 02/02/2022, https://www.ilsole24ore.com/art/lavoratori-somministrati-piu-93mila-contratti-un-anno-ma-c-e-rischio-stop-AEQ2YMAB”. ↩︎
  26. Spesso le agenzie interinali sono anche agenzie formatrici e, quindi, prendono i soldi sia per le attività formative e di orientamento che per la fornitura di manodopera. ↩︎
  27. Ufficio Parlamentare di Bilancio: Rapporto sulla politica di bilancio – giugno 2023, p. 140; dati, p. 141. ↩︎
  28. Nel 2018 non v’era il RdC ma il solo Reddito di Inclusione. ↩︎
  29. Tiberio Damiani, Carlo Maria De Gregorio, Annelisa Giordano: I beneficiari delle nuove misure di sostegno al reddito tra il 2018 e il 2020: un’analisi sperimentale basata sull’integrazione di fonti statistiche, p. 12. Istat working papers, 4/2023. ↩︎
  30. Ibidem, p. 18. ↩︎
  31. Ibid., p. 25. ↩︎
  32. Ibid., p. 16. ↩︎
  33. Ufficio Parlamentare di Bilancio: op. cit., p. 144. ↩︎
  34. https://www.anpal.gov.it/programma-gol . ↩︎
  35. Francesco Riccardi: Il lavoro per Fratelli d’Italia? Tra Orwell e “Hunger Games”, Avvenire, 06/05/2022. ↩︎
  36. F. Riccardi, Lavoro obbligatorio nel programma di FdI? Crosetto: <<Solo una provocazione>>, Avvenire, 07/05/2022. ↩︎
  37. Programma FdI 2022, in https://www.programmafdi2022.it/per-un-vero-stato-sociale-che-non-dimentichi-nessuno/#:~:text=Uno%20Stato%20giusto%20garantisce%20una,solidariet%C3%A0%20nazionale%2C%20combattendo%20ogni%20stortura. ↩︎

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