Nakba 2014: 66 anni di resistenza per la Palestina
Il 15 Maggio 2014, come ogni anno, il popolo palestinese è sceso nelle piazze, sia in Palestina che nei campi profughi dove in milioni vivono ormai da 66 anni e dai quali lottano per tornare nelle case da cui sono stati ingiustamente cacciati quel lontano 15 Maggio 1948. Rabbia e speranza hanno caratterizzato una giornata non priva di tensioni e scontri, dalla Cisgiordania, a Gaza, alla Gerusalemme occupata.
La ricorrenza della Nakba riporta nelle coscienze il ricordo dell’espulsione di migliaia di persone dalle proprie case. Allora 750.000 furono i palestinesi in fuga, diretti in maggioranza nei campi allestiti negli Stati confinanti con la Palestina. Oggi, oltre 5 milioni sono i profughi palestinesi, sparsi tra Territori Occupati e Gaza, e in Diaspora, soprattutto in Giordania, Libano e Siria. La Nakba, così come la lotta per il diritto al ritorno, è viva in ognuno di loro, nelle milioni di persone che continueranno a lottare fino a quando non torneranno nelle proprie terre. Terre che, spesso, mai hanno visto [essendo ai profughi e ai loro discendenti vietato il passaggio dagli avamposti militari che circondano tutta la Palestina storica], ma che ogni palestinese in Diaspora sente propria e continuerà a lottare per tornarvi.
Riportiamo a tal riguardo le parole di un intervista da noi effettuata ad giovane profugo palestinese di seconda generazione, abitante in Giordania. Parole dalle quali emerge non solo la quotidianità della Diaspora palestinese, ma anche quel sentimento che da oltre 66 anni dà forza alla resistenza palestinese, all’insegna di un diritto al ritorno in una Palestina unica con Gerusalemme capitale.
“La cosa strana e unica del popolo palestinese è che in molti non hanno mai visto la Palestina, non ci hanno mai vissuto, ma portano la Palestina nei loro cuori. Non hanno mai vissuto in Palestina, ma in realtà è la Palestina che vive dentro di loro. Non è lo Stato in sé, ma sono la cultura e la storia a vivere dentro i palestinesi. Il mio popolo, dovunque viva, porta e porterà sempre la propria terra nel cuore… Non parliamo di fattori etnici, noi non ci appelliamo al fatto di essere un’etnia indipendente, ci sentiamo parte della nazione araba e del mondo intero. Crediamo nel nazionalismo… crediamo che l’identità palestinese abbia una funzione di promozione della lotta contro il sionismo e l’imperialismo. Loro [le forze d’occupazione israeliane] sostengono che la terra di Palestina fosse una terra senza popolo, volendoci costruire uno Stato ebraico razzista, ma che la Palestina fosse stata una terra senza popolo non è vero! Questa terra aveva storicamente i propri abitanti, i palestinesi, e ci sono prove della loro esistenza, i palestinesi hanno il diritto di tornarci e di vivere le proprie case…”
Dunque un sentimento forte, quello per il diritto al ritorno, che coinvolge un intero popolo. Milioni di persone che vivono lontano, ma unite dalla voglia di liberare la propria terra. Una lotta che fa paura, non solo allo stato ebraico, ma anche ai tanti poteri, dell’area mediorientale e non solo, che operano alla ricerca del mantenimento di uno status-quo funzionale agli interessi israeliani e all’ormai persa stabilità, dell’area più calda e più ricca di petrolio del mondo.
Attori diversi che operano all’insegna di una normalizzazione fatta di interventi che cercano di rendere più “accettabile”, l’occupazione militare in Palestina da una parte, e la condizione di profugo in Diaspora dall’altra.
Da parte ebraica, tentativi di abbattere ogni nuovo focolaio di ribellione che, al di fuori delle istituzioni nate nei 66 anni di occupazione militare (ONG, istituzioni nazionali ed internazionali), vuole ribaltare lo status di profugo o di sottomesso all’autorità ebraica. Da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, la politica di pacificazione forzata, a colpi di svendita dei diritti nazionali. Da parte internazionale, non solo statunitense, il lavoro sporco, nelle città e nei campi profughi, messo in piedi da organizzazioni “caritatevoli” come l’USAID. Oppure, ancora, il recente tentativo di “istituzionalizzare” i campi profughi palestinesi attraverso la creazione di municipalità. Tentativo questo osteggiato dalle migliaia di profughi che non accettano di veder istituzionalizzata la propria condizione di profugo, che ritengono debba rimanere temporanea, nell’ormai lunga attesa di tornare nelle proprie case. Rientrano poi in tale disegno anche i tentativi, messi in piedi da governi come quello giordano, di subdola normalizzazione della condizione di profugo. Azioni che, come le manovre di pacificazione forzata in Palestina, hanno l’obiettivo di abbattere la lotta di liberazione nazionale.
A tal riguardo riportiamo, sempre dall’intervista, la descrizione del tentativo di normalizzazione del campo profughi più grande del mondo, il campo di Baqa’a, in Giordania, a pochi chilometri dalla capitale Amman. Si tratta di tentativi di normalizzazione promossi dal regno Hascemita, attraverso grandi finanziamenti occidentali, in larga parte statunitensi, gli stessi che permettono al regno di sopravvivere.
I campi, tutti i campi palestinesi ovunque nella regione araba, rappresentano il simbolo del diritto al ritorno. Il campo è un posto in cui i rifugiati vivono, in una situazione temporanea, aspettando di tornare nelle proprie case e nelle proprie terre. Le autorità ed i governi arabi che stanno cooperando con l’imperialismo, [che io considero il 3° aspetto dell’imperialismo, dopo il sionismo che è il secondo aspetto], questi regimi cercano di implementare gli interessi del perno dell’imperialismo nel mondo, gli USA. Vogliono eliminare i simboli del diritto al ritorno, vogliono eliminare i campi, per convincere il popolo ad accettare di rimanere nel posto in cui stanno vivendo, e di far dimenticare il diritto al ritorno in Palestina. Così costruiscono strutture e strade per costringere i profughi a dimenticare i campi, al fine di abolire i simboli del diritto al ritorno.
Ad esempio, a Baqa’a, il campo palestinese più grande del mondo, hanno iniziato a costruire un’autostrada di collegamento tra il Nord e il Sud della Giordania, e l’autostrada passa nel mezzo del campo. Il campo così perderebbe la sua specifica forma e struttura, che rappresenta il simbolo del diritto al ritorno. I palestinesi, le masse palestinesi, hanno coscienza di ciò, anche se al momento non hanno ancora la forza materiale di combatterlo. Ma, anche se le autorità riuscissero a rimuovere i campi, non riusciranno mai a rimuovere [il diritto al ritorno] dall’anima e dallo spirito del nostro popolo, perché noi sappiamo che abbiamo il diritto a tornare nelle nostre case in Palestina.
Il ricordo della Nakba, la lotta per il diritto al ritorno, portano ad interrogarci su quale possa essere il futuro palestinese. Ai tentativi di “pacificazione” che passano attraverso negoziati e vertici internazionali, si contrappone la vera anima della lotta palestinese per il diritto al ritorno, che l’intervista esprime in maniera molto chiara e che riporta alla mente quello slogan per cui da oltre 66 anni in Palestina si continua a lottare: Senza giustizia nessuna pace.
Alla luce della lotta per il ritorno, e delle legittime aspirazioni nazionali palestinesi, il “processo di pace” e la suddivisione territoriale della Palestina storica in due stati – uno palestinese ed uno ebraico – rappresenta nient’altro che un processo fallimentare fin dal suo inizio. Una soluzione che, oltre ad essere impossibile da attuare in un contesto come quello dell’occupazione militare – fatta di check-point, muri, by-pass road, e insediamenti che impediscono ogni continuità territoriale necessaria alla creazione di un qualunque stato palestinese – non sarà mai attuabile fino a quando ci saranno i milioni di profughi a battersi per tornare nelle proprie case.
Una speranza che si fa lotta e determinazione, un diritto al ritorno che i milioni di profughi non si dimenticano, all’insegna di un’unica soluzione: uno stato unico, nel quale tutti possano tornare, in una Palestina liberata e giusta.
Di seguito proponiamo l’audio dell’intervista, in lingua inglese, su punti specifici:
– Punto di vista sulla lotta di liberazione nazionale [contro l’occupazione militare della Palestina, e contro l’imperialismo ed i regimi arabi nell’area funzionali al sionismo]
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– Sul diritto al ritorno
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– Sulla soluzione un popolo uno stato [differenza tra mera costruzione dello stato e liberazione nazionale]
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– Sulla politica di normalizzazione
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