Quello che deve essere detto
«Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele». L’affermazione è netta, chiara. Sin troppo. Schematica, ideologica? Chissà. Di certo c’è che oggi essa verrebbe senza dubbio tacciata di antisemitismo, sia dai vari Netanyahu che dalle Fiamma Nirenstein di turno. Una vergogna che istituisce un parallelo intollerabile col nazismo, e che paragona implicitamente gli ebrei ai nazisti, direbbero. Un affronto alla memoria delle vittime della Shoah, direbbero. Un assunto antisemita che dovrebbe essere vietato propagandare, per la sua oggettiva vicinanza con le disgustose teorie negazioniste. Così, forse, direbbero. O forse no, perché anche le Nirenstein sanno che questa frase la pronunciò Primo Levi, che pure loro onorano quest’anno. Lo disse nel ’69, Primo Levi, alla richiesta del perché avesse firmato un manifesto che condannava il militarismo israeliano. Quella frase, oggi, non si potrebbe più dire. Ideologica, e soprattutto antisemita.
Oggi antisemita è diventata qualsiasi presa di distanza da Israele, qualsiasi critica, più o meno feroce, alla politica del suo folle governo. Se critichi il governo d’Israele, e il suo sionismo oltranzista, sei automaticamente antisemita. E pensare che ai miei studenti ho sempre detto che una cosa sono gli ebrei, un conto Israele, un altro conto ancora il governo dello Stato d’Israele. Sono costretto oggi a prendere atto del fatto che criticare il governo di Israele equivale in toto a negare lo stesso statuto ontologico degli ebrei.
Ultimo «antisemita» – che per questo si è meritato una esemplare censura – Günter Grass. Che, come è noto, ha scritto una poesia – «Quello che deve essere detto» – che è una poesia civile, di tono brechtiano, contro la vendita a Israele, da parte del governo Merkel, di sei sottomarini che possono sparare missili da crociera, e contro l’aggressiva politica israeliana nei confronti del supposto programma atomico iraniano, che potrebbe causare un conflitto catastrofico, e costituisce la principale minaccia per la pace mondiale.
«È l’affermato diritto al decisivo attacco preventivo / che potrebbe cancellare il popolo iraniano / soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo / organizzato». Non è certo tenero Grass con il governo di Teheran, ma ciò non rileva. Il suo attacco alla politica di Israele («in cui da anni — anche se coperto da segreto — / si dispone di un crescente potenziale nucleare, / però fuori controllo, perché inaccessibile / a qualsiasi ispezione»), la denuncia della «opprimente menzogna», il suo tono da j’accuse, bastano a renderlo intollerabile. Perché dice ciò che (non) dev’essere detto.
Non è tanto in questione se sia una poesia bella o brutta. Personalmente propendo per la seconda ipotesi. Ma non è stato certo questo il motivo della censura del Die Zeit che ne ha rifiutato la pubblicazione, e del gesto del governo israeliano che lo ha dichiarato «persona non grata» – peraltro in base a una norma che permette di vietare l’ingresso a chi abbia aderito al nazismo. Già, perché Grass nel 2006 rivelò che a sedici anni si era arruolato con convinzione nelle SS. (Chissà, mi viene da pensare, se anche a Ratzinger vieterebbero l’ingresso, dati i suoi trascorsi nella Hitlerjugend). Figuriamoci se questo suo passato non può non essere una terrificante prova a carico di un immarcescibile antisemitismo.
Anche lo storico Sergio Luzzatto ha parlato di «un vero proclama antiebraico». Su Repubblica, Mario Pirani, in un articolo scritto con la mano sinistra mancando evidentemente di qualsiasi logica argomentativa, ma ripetendo il mantra «chi attacca Israele odia in realtà gli ebrei», si atteggia a psicoanalista e dice che Grass è antisemita ma se ne vergogna. Possiamo parlare di «pensiero unico»? Questo rogo preventivo, questa condanna unanime di «ciò che può essere detto», questo editto unanimemente e spontaneamente rispettato sull’interdetto – è qualcosa che dev’essere ostinatamente rifiutato. Io credo che oggi chi ama gli ebrei debba sfidare quest’interdetto. Bisogna sottrarre il monopolio dell’ebraismo a un governo colonialista che persegue politiche che negano i più elementari diritti umani e mettono a rischio la pace regionale e mondiale.
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