Riot. Strike. Riot: Intervista a Joshua Clover
Abbiamo tradotto l’intervista fatta da Jack Chelgren, uscita su The Rumpus il primo gennaio, a Joshua Clover. Il suo ultimo libro “Rivolta. Sciopero. Rivolta. La nuova era delle insorgenze” (non tradotto in italiano, uscito a maggio 2016 per Verso, qui una clip di lancio) è un importante contributo al dibattito globale su come interpretare la dimensione del riot, inquadrandola all’interno di una lettura che, lungi dalle esaltazioni soggettiviste o dalle demonizzazioni, prova a collocarla in un contesto materiale. Il riot dunque come forma specifica di una fase storica segnata da deindustrializzazione, finanziarizzazione, disoccupazione e impoverimento, nella quale i terreni di conflitto divengono sempre piu’ gli spazi della circolazione. L’intervista percorre questa serie di elementi, leggendoli dal punto di vista statunitense (Clover è californiano), e legandoli anche ad una ampia serie di altre riflessioni.
Joshua Clover è un poeta, professore, comunista e un tempo critico musicale. È l’autore di Riot.Strike.Riot: The New Era of Uprisings (Verso, maggio 2016), un libro di teoria politica la cui importanza è cresciuta a solo un anno e mezzo da quando è stato pubblicato. Lo scopo di questo progetto, in generale, è correggere le convinzioni popolari su rivolte e scioperi. Clover parte dalla premessa che il capitalismo si è alternato nel corso della storia tra due principali fonti di profitto: produzione e circolazione. La circolazione, incarnata dalla classe mercantile, predomina durante l’esplorazione europea e il primo colonialismo. La rivoluzione industriale, scoppiata alla fine del diciottesimo secolo, portò la produzione a una posizione dominante. Ma dagli anni Settanta la deindustrializzazione e la finanziarizzazione delle maggiori economie del mondo hanno messo nuovamente la circolazione in prima fila. Nell’Ottocento il boom della produzione ha fatto sì che la produzione superasse il commercio. Ma dagli anni Settanta la deindustrializzazione e la finanziarizzazione delle più grandi economie del mondo hanno riportato la supremazia alla circolazione. Secondo Clover, dobbiamo comprendere le rivolte e gli scioperi come due aspetti della lotta di classe condizionati da queste trasformazioni del capitalismo globale. Le rivolte, dice, non sono esplosioni di violenza senza senso; storicamente, sono tentativi di fissare il prezzo dei beni bloccando i mercati e la circolazione. Gli scioperi, al contrario, sono richieste atte a fissare il prezzo del lavoro nei contesti di produzione. Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, abbiamo assistito alla rinascita di un nuovo tipo di rivolta, spesso giustapposta a un antagonismo razziale. Le nuove rivolte si verificano negli spazi di circolazione, dove si trovano sempre più i membri della società maggiormente oppressi e immiseriti: porti, aeroporti, autostrade e piazze. Ho intervistato Clover la scorsa primavera quando ha visitato Seattle per una conferenza anticapitalista chiamata “Red May”. Abbiamo discusso di come il suo modo di pensare su scontri e scioperi sia cambiato da quando Riot.Strike.Riot è stato pubblicato per la prima volta, e come si muova nella sovrapposizione, a volte confusa, tra teoria e narrativa.
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The Rumpus: Come può essere collegata alla rivolta una marcia del Black Lives Matter o della Women’s March? Sono rivolte germinali? Sono momenti contrari alle rivolte?
Joshua Clover: non penso che siano rivolte germinali. Penso che siano spesso l’altra metà della rivolta. Le rivolte, se hanno una certa resistenza, tendono a dividersi molto rapidamente in due metà. Un gruppo è interessato a quello che si identificherebbe più chiaramente con la rivolta contro la polizia in antisommossa,i saccheggi nei negozi, et similia – e una parte si muove verso qualcosa di più simile a una protesta. Certamente è quello che è successo a Ferguson, dopo che Michael Brown è stato ucciso dalla polizia. È stata una lunga rivolta, in una certa misura la rivolta più lunga nella storia degli Stati Uniti, e si è spaccata abbastanza rapidamente in un gruppo di giovani per lo più che combattevano i poliziotti e asserivano di bruciare i negozi e così via, e poi la gente che cantava “Mani in alto, non sparare” mentre marciavi in cerchio sulla West Florissant Avenue, il che sembrava più una protesta.
Quelle due parti hanno logiche completamente diverse. La protesta ha una logica che identifico come discorsiva. Vuole comunicare con le persone. Fa richieste. Vuole avere un messaggio popolare, vuole crescere e vuole persuadere le persone. Di conseguenza, adotta una posizione che è favorevole ai media, una versione di politica di rispettabilità. Vuole ottenere il massimo grado di moralità. Tende alla nonviolenza. E poi c’è l’altra metà, a cui mi riferisco come la metà ‘pratica’, che sta cercando di prendersi cura di alcuni obiettivi concreti, cose come distruggere il potere della polizia, o rendere il tuo quartiere inabitabile per le persone che non vuoi stiano lì. Queste sono attività piuttosto pratiche.
La stessa spaccatura esisteva nel movimento per i diritti civili. Possiamo pensarlo come Martin Luther King, Jr. e Malcolm X. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la parte discorsiva tendeva a vincere in modo abbastanza rapido ed efficace, e si muoveva verso l’essere un movimento di massa. Le ragioni di ciò sono chiare. Erano stati in grado di ottenere alcune concessioni reali. I rivoltosi non fanno richieste. I rivoltosi si occupano delle pratiche. Ma la parte della protesta fa richieste e, come abbiamo visto nel Movimento per i diritti civili, è stata in grado di ottenere alcune vittorie limitate.
Rumpus: hai usato la parola pratico, che sembra un pò contro-intuitiva, in parte perché la resistenza violenta può essere alienante e spaventosa per le persone che non sono già esposte alla violenza quotidianamente. C’è la sensazione che combattere sia inutile, che ti farà finire in prigione o ucciso, niente di ciò sembra molto pratico. Quindi cosa intendi con questo?
Clover: Con “pratica”, forse quello che intendo è l’alternativa a qualcosa che è “solo parole”. La domanda è se si possa ottenere un sostanziale cambiamento sociale attraverso le parole, attraverso la persuasione, e non credo ne esistano molti esempi. Se la gente pensa che la violenza sia poco pratica, chiederei loro un paio di cose. Uno, quello che pensano sia violenza. Le persone che si oppongono alla violenza spesso difendono gli scioperi, dimenticando che gli scioperi sono storicamente violenti quanto le rivolte. Hanno riscritto la storia di modo che gli scioperi fossero sempre un rifiuto ascetico piuttosto che una guerra aperta contro forze militari private o nazionali, dove tante tante persone morivano per avere qualche possibilità di una vita lavorativa dignitosa, alloggi a prezzi accessibili, protezione, gli obiettivi più pratici che si possano immaginare. Questa è la vera storia degli scioperi. E poiché sono diventati più passivi, sono diventati meno efficaci. Penso che la causalità vada in entrambi i sensi. Vale la pena fermarsi qui. Perciò la prima domanda sarebbe come definiremmo che sia la violenza e come ci immaginiamo dove essa avviene.
L’altra domanda che vorrei porre è semplicemente guardare indietro nella storia e mostrarmi una trasformazione su larga scala che non abbia comportato violenza. La gente spesso dice “le rivolte non sono rivoluzioni”. È vero. La stragrande maggioranza delle rivolte non diventa mai rivoluzionaria. D’altra parte, mostratemi una rivoluzione iniziata senza una rivolta.
Rumpus: C’è una certa enfasi nel libro sulle rivolte e gli scioperi come tattiche, in altre parole come strategie intenzionali. Ma tu sottolinei che queste lotte sono prodotte dalle circostanze economiche. Come spieghi l’equilibrio tra l’azione individuale e le condizioni strutturali nel definire le rivolte e gli scioperi?
Clover: non voglio eliminare la volontà individuale. Le persone prendono in considerazione le scelte sul voler lottare, e sul come, e lo fanno in circostanze disparate. Ma penso che ci siano due quadri importanti in cui queste scelte vengono fatte. Uno, il loro grado di immiserimento. Il maggior indicatore di chi intraprenderà attività criminali (come definito dai tribunali) è la povertà, che ci dice che le decisioni che le persone prendono riguardo a quanto illegali possano essere sono principalmente basate sulla propria esperienza di immiserimento. Il secondo schema è che quando le persone scelgono di agire, agiscono inevitabilmente laddove concretamente sono.
Spesso le persone leggono Riot.Strike.Riot come promotore di rivolte piuttosto che di scioperi. Non è affatto cosi’. Il libro sta semplicemente cercando di capire cosa significhi che la gente lotta lì dove si trova, e di cogliere cambiamenti nelle forme di lotta come una storia su dove si trovano le persone. Si tratta anche di evidenziare una grande ristrutturazione di quella che viene chiamata “composizione di classe” a livello globale. Quando le persone sono in un posto di lavoro dove è possibile organizzare e impegnarsi in azioni sindacali, è così che lottano, e può essere molto efficace. Quando le persone non sono in quella situazione, lottano in altri modi. Lottano al mercato. Si radunano in strada, in piazza. Non è necessario preferire l’uno o l’altro. Basta notare che c’è stato un cambiamento significativo in cui le persone sono passate negli ultimi trenta, quaranta o cinquanta anni dalle tradizionali industrie produttive – che sono più facili da organizzare – verso un tipo di lavoro che implica la circolazione di capitali e prodotti, e verso la disoccupazione. È poco probabile che le persone che si trovano in quella situazione lottino da qualche altra parte. Loro lotteranno in quello spazio.
Quindi, in un certo senso, sto cercando di mediare tra l’ intraprendenza individuale e la determinazione strutturale. Accetto che le persone facciano scelte individuali, piuttosto premurose, abbastanza attente, scelte abbastanza difficili, ma non le fanno senza vincoli che modellano quali scelte sono possibili e forniscono l’intensità della spinta verso la scelta.
Rumpus: la presidenza Trump fa la differenza per la rivolta? O meglio, fa la differenza per la circolazione, dato che un aspetto saliente del progetto di Trump è che sta chiudendo i confini e limitando la libera circolazione di persone e merci?
Clover: l’attenzione dell’amministrazione su queste questioni sottolinea il fatto che la circolazione è la posta in gioco. Voglio tenere assieme entrambi gli aspetti, dicendo che non voglio sopravvalutare Trump come una rottura storica, e ammettendo al tempo stesso che Trump sia un’indicazione di un cambiamento abbastanza profondo. Ma il cambiamento è iniziato qualche tempo fa, e ci è voluto un po’ per apparire. Il capitale globale, in particolare il capitale occidentale, è in declino dalla fine degli anni ’60 e dai primi anni ’70. La fragilità è apparsa negli anni ’60, il tasso di profitto è caduto profondamente nel 1972-73 e ci sono stati recuperi molto irregolari, forse senza alcuna risalita da allora, se non su una serie di bolle. Questo è stato un indebolimento continuo dell’economia produttiva dell’accumulazione su scala globale, della capacità del capitale di espandersi.
Per molto tempo, i primi paesi industrializzati furono capaci di assorbire. Sono stati in grado di assorbire all’ infinito nuovi arrivi di manodopera per continuare ad espandersi. Questa era sia un’economia che una visione del mondo. Qui negli Stati Uniti, abbiamo la Statua della Libertà seduta nel porto di New York, che dice in lettere gigantesche, “noi rappresentiamo il capitale che ingloba”. Una versione poetica: “Dammi i tuoi affaticati, i tuoi poveri, le tue plebi”. Ma ciò che significa è, “vieni qui, ti assorbiremo”. Assorbiamo questi ingressi e li aggiungiamo alla nostra economia in crescita, e li gestiamo con la democrazia liberale. E ha funzionato a lungo (per l’economia, dato che sarebbe perverso dire che ha funzionato per le persone che sono state espropriate e immiserite). Ma negli anni ’70, ha smesso di funzionare. Siamo diventati sempre meno attrattivi. Questo è ancora maggiormente vero nella zona euro, che a questo punto è un’economia a crescita zero, a somma zero. Anch’essa non è più attrattiva.
Cosa succede quando non hai più un assorbimento capitalista? Chiudi i confini. La gestione della circolazione del lavoro, è una risposta ovvia alla fine dell’attrattività. Ci stiamo spostando da un modello democratico liberale, che è semplicemente lo stile gestionale per il capitale attrattivo, verso un modello più coloniale, definito dal fatto che non assorbirai mai questi soggetti coloniali nell’economia. Saranno sempre gestiti con la forza, dall’esercito o dalla polizia. Il massiccio tasso di incarcerazione che abbiamo visto dagli anni ’70, in particolare tra gli afroamericani, è stato una misura del passaggio dall’assorbimento delle persone nel salario, una sorta di disciplina indiretta, a questo dominio diretto e al potere statale. Trump è la grande espressione di questo. Il suo compito è gestire la fine dell’assorbimento. Questo è un modo per pensare al dramma di ciò che rappresenta senza essere troppo incentrati su di lui come fattore causale.
Rumpus: hai scritto un libro di poesie, “The Totality for Kids”, in cui hai molto da dire sulle città nel tardo-capitalismo. Cosa ti interessa delle città in particolare, e perché la poesia come veicolo per esplorarle?
Clover: in un certo senso, è un vecchio stile. Baudelaire dice nell’introduzione a “Paris Spleen” che è fondamentalmente interessato alle città e alle innumerevoli interrelazioni che si incontrano lì. Quindi non è niente di nuovo. Esse hanno da sempre questa caratteristica di sistemi complessi. Con “The Totality for Kids”, se fosse possibile indicare un tema unificante, si sta cercando di ingenerare la sensazione di un capitalismo allo stadio finale, guardando con onestà ai suoi piaceri. Sono un marxista e un comunista, ma penso che sarebbe ridicolo negare che il capitalismo abbia prodotto alcuni dei piaceri e delle bellezze più stupefacenti che il mondo abbia mai conosciuto. Quindi c’è una malinconia che si aggrappa alla consapevolezza che tutto deve finire. Anche se non si ha un senso di fallimento rivoluzionario, la cosiddetta malinconia di sinistra, anche se si crede ancora che la rivoluzione sia possibile, si sa che la rivoluzione significherà dire addio a tutto questo. L’esempio a cui mi rifaccio sempre è quello di Eric B. & Rakim, che sono forse i miei musicisti preferiti, incredibilmente grandiosi, mi hanno portato un incessante piacere per venticinque anni. Ma questo deve finire.
Rumpus: Perché deve finire?
Clover: Perché penso che quando il capitalismo finirà non ci sarà la musica pop allo stesso modo. Le pressioni della musica pop, il campo e le limitazioni della musica pop, sono ciò che rende possibile Eric B. & Rakim. Potrebbe esserci un Eric B. e potrebbe esserci un Rakim, ma quel tipo di negoziazione con i mass media, la popolarità di massa, semplicemente non accadrà; è un artefatto dei mercati mondiali, non un prodigio estetico. Quindi, il conoscere le straordinarie conquiste dei piaceri e dei miracoli a cui abbiamo preso parte, assistito e goduto nelle nostre vite, che lasceremo dietro di noi, è la sensazione che portavo con me mentre stavo scrivendo “The Totality for Kids”. Le città sono un esempio di ciò. Sono spesso orripilanti, spesso volgari, c’è spesso la sensazione di essere arrivati troppo tardi. Sono anche sorprendenti. Mi sono trasferito in città e pianto per la loro bellezza. Ma devono anch’esse finire.
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Rumpus: Nel tuo poema “La loro ambiguità”, citi il situazionista Raoul Vaneigem che dice: “Quando una poesia di Mallarmé diventa l’unica spiegazione per un atto di rivolta, allora la poesia e la rivoluzione avranno superato la loro ambiguità”. Parli anche in Riot. Strike. Riot su come l’ultima strofa di “The Masque of Anarchy” di Shelley sia stata ripresa come un grido di battaglia da vari movimenti insurrezionali nel corso della storia. Puoi approfondire se e come la letteratura può “essere politica” o più specificamente sul ruolo della poesia nella lotta anticapitalista?
Clover: non voglio essere veramente arrogante riguardo alle possibilità dell’arte. Non penso che l’arte abbia una relazione causale con la rivoluzione. Penso che sia un modo in cui le persone coordinano o orientano le proprie esperienze spesso incoerenti, a volte intenzionalmente. Con “The Masque of Anarchy”, una delle cose che osservo è che molti movimenti politici nel tempo l’hanno usata come un modo per orientarsi e per narrare quello che stavano facendo.
La citazione più importante su poesia e politica che conosco proviene da un situazionista molto particolare, Guy Debord. Fu bloccato in un dibattito con i surrealisti francesi, molti dei quali negli anni ’40 e ’50 facevano parte dell’apparato del partito comunista francese. Alla fine molti surrealisti hanno sostenuto di strumentalizzare l’arte per fini politici. Debord contrastava: “Non voglio mettere la poesia al servizio della rivoluzione. Voglio mettere la rivoluzione al servizio della poesia”.
Mi ci è voluto un po’ per capire il punto di Debord. Ma in realtà penso che sia la cosa più ambiziosa che potresti dire per la poesia. Non “la poesia ci condurrà alla rivoluzione”, né “l’arte è autonoma e deve essere protetta dalla politica”. Piuttosto, “di quale poesia potrebbe esserci, non abbiamo ancora alcuna idea”. Perché nella nostra situazione attuale, nell’attuale dominazione in cui viviamo: la poesia è un oggetto zoppicante, rotto, una registrazione del nostro mondo danneggiato. Se volessimo liberare la poesia per essere tutto ciò che potrebbe essere (so che è uno slogan terribile delle forze armate statunitensi), dovremmo prima cambiare il mondo. Per ottenere il tipo di poesia che merita la poesia, dobbiamo distruggere il capitalismo. Penso che sia l’argomento di Debord. Non sono sicuro che avesse ragione su tante altre cose , ma penso che abbia ragione su questo.
Rumpus: Riot.Strike.Riot inizia con l’affermazione: “La teoria è immanente nella lotta”. Eppure una grande quantità di teoria è scritta, pubblicata e diffusa in spazi che non sono la scena della rivolta, spazialmente o socialmente. Non sto cercando di dire che gli accademici non possono essere dei rivoltosi o che i rivoltosi non possono leggere la teoria. Ma mi chiedo come possa esserci una teoria non-didattica delle rivolte quando tanta parte di questa teoria – la teoria che più probabilmente raggiunge persone che non sono coinvolte in rivolte – risiede in discorsi accademici che sono difficili da acquisire per molte persone che prendono parte in queste.
Clover: Negli ultimi decenni sono diventato più scettico su alcune cose in cui avevo più fiducia. Credo tanto nella necessità e nella possibilità di una rivoluzione come ho sempre fatto. Allo stesso tempo, sono diventato più scettico riguardo al ruolo della poesia in esso o al contributo dell’arte ad esso, e sono diventato più scettico nei confronti dell’università. Le università sono grandi aziende e disciplinano come qualsiasi grande istituzione. Con un certo grado di sorpresa e delusione, ho scoperto che la militanza politica che avrei sperato dai colleghi è stata per la maggior parte carente, che il professorato è stato per lo più repressivo rispetto a quanto lo consideri necessario politicamente. Organizzare gli studenti, cosa che spesso mi piace fare, ha le sue difficoltà. Il ricambio rende difficile sostenere una continuità politica. Quindi sono meno ottimista riguardo l’università come uno spazio di lotta di quanto non fossi una volta.
Mi rendo conto che questo non sta rispondendo esattamente alla tua domanda, che è cosa fare riguardo alla separazione tra teoria e pratica a cui l’università prende parte. Posso solo essere parte del problema! L’università è una delle varie strutture di finanziamento con cui le persone che vogliono fare il lavoro teorico rimangono vivi, allo stesso modo in cui le persone vanno a scuola, non perché pensano che cambierà il mondo ma perché non c’è più nessun sistema di protezione, e hanno bisogno di un’impalcatura di sostegno mentre stanno cercando di capire come possono procedere nelle loro vite. Penso che sia assolutamente legittimo. Per molti dei nostri migliori teorici e pensatori, questo è ciò che l’università è. Detto questo, la domanda su come non essere recuperato e sussunto da questo sistema di neo-padronato è una vera domanda.
Ma voglio finire con un pensiero ottimista. Anche se sono diventato più reticente riguardo alle possibilità politiche dello spazio accademico, voglio sottolineare che gli studenti hanno svolto ruoli significativi nell’attività insurrezionale in tutto il mondo per decenni e secoli, e non penso che abbiamo attraversato alcuna soglia dopo la quale non succederà mai più. Dobbiamo ancora prendere molto seriamente lo spazio universitario.
Ci sono luoghi nel mondo in cui è più facile che negli Stati Uniti essere una persona che produce teoria e non richiede l’università per il sostentamento. E ci sono ancora posti nel mondo in cui vi sono vivaci comunità di poeti in gran parte divorziate dal mondo accademico. Questo è stato distrutto negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, notoriamente, c’erano molti contro-spazi che durarono negli anni ’60 e ’70, come il movimento delle arti nere. Furono sistematicamente spezzati, spesso dal governo, e al loro posto sorsero laboratori. Questo è vero per gli spazi in cui le persone cercarono di discutere sulle teorie della lotta politica. Dobbiamo essere attenti a queste storie e alle conseguenze di queste ristrutturazioni, più di quanto possa aver senso dire, in modo dismissivo, “Oh, élites accademiche!”. Il mio punto è che l’alienazione di teoria e pratica, lavoro intellettuale e manuale, è un vero problema, ma è il risultato del dominio sociale; è un errore dare la colpa ai soggetti a questa dominazione.
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