Siria, si dispiegano i pezzi sullo scacchiere di guerra
Prima le foto del massacro di Ghouta, poi le indiscrezioni della stampa britannica ed infine i movimenti di diplomatici, ministri e militari ai quattro angoli del Mediterraneo riportano di colpo all’attualità delle cronache il conflitto siriano, terra in cui i movimenti delle rivolte del 2011, tuttora attivi, sono schiacciati dalle atrocità della guerra e dai flussi economici e geopolitici in campo. Perché un intervento militare ora, con un’opinione pubblica statunitense fredda (per non dire ostile) verso un’amministrazioneuscita screditata dal Datagate? E in cui la direzione (ma soprattuttola Way of Life) del millantato Change obamiano sembra prossima a concludere un giro a 360 gradi verso gli orrori dell’era Bush?
Sicuramente nei mesi scorsi si è assistito in Siria ad un consolidamento anche territoriale e politico della situazione di stallo militare. Con il nord e l’est del paese (assieme alla zona di frontiera con la Giordania ed Israele) sotto il controllo delle forze islamiste, ed il centro e la costa saldamente nelle mani di Assad. Uno scenario che sembra alludere alla spaccatura del paese su basi etniche e confessionali. Ma che nondimeno, con alcuni recenti successi militari dell’esercito governativo che hanno capovolto interi fronti di lotta nel nord, l’entrata nel conflitto di Hezbollah e le divisioni interne degli islamisti, consentirebbe al regime di negoziare una soluzione politica della guerra civile da una posizione di forza.
L’intervento statunitense è quindi mosso dall’intento di sventare un simile esito, oltre che di regolare i conti con i nemici storici di Israele nell’area – Hezbollah e lo stesso regime siriano – che ne uscirebbero rafforzati. Mentre improbabile appare un’invasione terrestre su larga scala (anche se già si riportano notizie di campi d’addestramento islamisti in Turchia ed in Giordania e di incursioni in territorio siriano) il sempreverde pretesto delle armi chimiche sembra alludere ad una serie di azioni militari per bombardarne i depositi. Il tutto, sempre ipotizzando, per poterne rivendicare la neutralizzazione rispetto all’ipotesi di caduta in mano jihadista, e nel contempo indebolire l’esercito siriano (ma soprattutto l’aeronautica, cuore del potere di Assad) nel breve termine.
Questa strategia di “leading from behind” e di “soft power” statunitense nel suo complesso appare tuttavia compromessa, dato che l’inettitudine dell’opposizione armata islamista-moderata (così come in Egitto, Tunisia e Turchia) e le atrocità salafite stanno scavando un solco profondo tra l’opzione islamista e le masse proletarie in Siria, e nel medio oriente in genere. Tanto che, perfino nelle città siriane riconquistate dall’esercito di Assad, sono ripresi cortei e manifestazioni da parte del movimento rivoluzionario.
Altri governi si muovono al fianco degli Stati Uniti in questa cornice. Una Francia interventista nei conflitti interni alle proprie ex-colonie, e desiderosa di mostrare il proprio adattamento al nuovo corso internazionale dopo aver sostenuto fino all’ultimo personaggi come Ben Ali. I paesi del Golfo persico, mossi dall’opposizione allo sciismo (loro vera minaccia interna a fianco dei movimenti insurrezionali post-2011) e al nazionalismo arabo del partito Ba’ath di Assad; ma anche sostenitori compatti delle frange salafiste più radicali come Jabhat al-Nusra – laddove nello scenario egiziano marciavano divisi tra queste ed i Fratelli Musulmani.
La Turchia, la cui ipotesi di sviluppo islamista neoliberale uscita a pezzi da piazza Taksim prova a rilanciarsi sul campo di battaglia siriano, trovandosi però davanti all’incognita curda. Come nello scenario iracheno, i curdi sono infatti riusciti a ritagliarsi delle zone autonome nel nord del paese, difendendole con successo dagliattacchi jihadisti; ma per via degli storici legami con il PKK (con il quale a sua volta Ankara è coinvolta in un difficile processo di pace) la leadership curdo-siriana è assai meno compiacente rispetto ai corrispettivi iracheni verso i desiderata di Erdogan.
Sul fronte opposto, ci sono le condanne del neoeletto presidente iraniano Rohani come quella più defilata della Cina. Mentre Putin, che vede in pericolo gli storici legami con il paese mediterraneo consolidati dai tempi dell’URSS (con la presenza della grande base navale di Tartus – unica all’estero – e di una fitta comunità russa in Siria) minaccia ritorsioni gravissime: “tutto ciò ci fa ricordare gli eventi avvenuti 10 anni fa quando, utilizzando false informazioni sulla disponibilità da parte dell’Iraq di armi di distruzione di massa, gli USA bypassarono l’ONU ed iniziarono un piano le cui conseguenze sono ben conosciute da tutti” – si legge in una nota diffusa dal Ministero degli Esteri russo; tra l’altro all’indomani dell’ennesima giornata di sangue nel paese invaso dagli Stati Uniti nel 2003, costata 76 morti e 227 feriti.
E l’Italia? A quanto pare, pur dalla miseria del governo Letta, non si esimerà di fare la sua sporca parte. In queste ore ad Amman si sta tenendo un vertice tra i capi di stato maggiore di USA, Regno Unito, Francia, Canada, Italia e Germania, Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia, presumibilmente per ripartirsi i compiti bellici.
Un’operazione che potrebbe avvenire sotto l’ombrello del trattato NATO, così da permettere anche ad un esecutivo traballante come il nostro di dare fuoco alle polveri, al di fuori di qualsiasi (fasulla) dialettica parlamentare. E per dare il via libera alla Sesta Flotta USA di stanza a Napoli, al sistema Muos e alla base aerea di Sigonella in Sicilia, alle servitù militari in Sardegna, agli F-35 e a quella filiera di morte già attivata per tutte le guerre a stelle e strisce dell’ultimo ventennio.
Ancora una volta suonano i tamburi di guerra intorno al mar Mediterraneo, area di lotta, rivolta e dignità, dove da anni masse di proletari stanno tentando di conquistare la libertà da sempre sognata e oggi divenuta possibilità concreta. Dura repressione, nuovi regimi confessionali o militari, e poi ancora guerre devastanti non stanno piegando la testa a movimenti sociali che non appena arretrano di un passo, trovano di continuo la forza per tornare a spingere in avanti per raggiungere i loro obiettivi, non ultimo una pace vera costruita sulla giusta distribuzione delle ricchezze e la soddisfazione di bisogni e desideri da sempre oltraggiati dal sistema neoliberista.
Sentir suonare oggi i tamburi di guerra USA intorno alla Siria non può che spingere i movimenti di lotta ad andare avanti per spezzare le bacchette e sfasciare i tamburi di morte delle bande criminali dell’1%.
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