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Tra contropotere territoriale e potere statuale: la posta in palio del presente

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Testo di riflessione e commento sul convegno “Per una critica della città globalizzata” della scorsa settimana scritto da Emilio Quadrelli, discussant della prima giornata e autore di altri due contributi preparatori al convegno: “Territori subalterni e città globalizzate. Per una critica partigiana dello spazio urbano” e “Il più bel sobborgo di Milano. Il laboratorio postcoloniale genovese“. Quadrelli riannoda alcuni fili della due giorni di discussioni e avanza alcune ipotesi di lettura politica. 

 

 

La concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di questo processo deve costituire la base critica dell’idea del progresso come tale. (W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia)

Le due giornate dedicate alle trasformazioni dello spazio urbano organizzate il 30 e 31 maggio dal Laboratorio Crash di Bologna hanno posto in evidenza, e in maniera non banale, alcuni snodi strategici della materialità del capitale. Tra questi uno, la ridefinizione del rapporto stato – territori, mi sembra quello in grado di sintetizzare al meglio ciò che stiamo vivendo. Pur partendo da angolazioni, prospettive e saperi diversi l’insieme degli interventi susseguitisi nella due giorni hanno evidenziato come, a conti fatti, lo stato da un lato si ritiri dai territori non appetibili per i suoi processi di valorizzazione mentre, per altro verso, accentui la sua presenza proprio là dove il ciclo dell’accumulazione trova la sua realizzazione più idonea. Intorno ai processi di gentrifrication e di turisticizzazione nonché un interessante rivisitazione dell’esercizio della violenza urbana esercitata dalle classi dominanti sui subalterni si sono dipanati gran parte degli interventi. Per altro verso si è osservato come dette trasformazioni dello spazio urbano non seguano una qualche forma di linearità, la classica suddivisione tra centro e periferia, ma si snodino nella forma a macchia di leopardo. Dentro e fuori convivono fianco a fianco separati da sottili, dal punto di vista urbanistico e territoriale, linee di confine non sempre facilmente governabili. Un aspetto, sotto il profilo logistico, di non secondario interesse perché, come si proverà ad articolare minimamente nelle conclusioni, rendono il territorio globalizzato continuamente soggetto alla penetrazione degli indesiderabili e delle loro (possibili) forme politiche. Al contempo si è costantemente posto in evidenza come, nei territori esterni ed estranei alle logiche del dominio e della valorizzazione, l’intervento statuale tenda ad azzerarsi. Un’ indicazione che non solo va colta ma argomentata in profondità.

Quando si evidenzia il ritiro dello stato dai territori subalterni non parliamo dell’estinzione dello stato tout court bensì di una particolare attività statuale, ossia l’intervento dello stato nel sociale. Ciò che palesemente si constata è l’eclissarsi di quella particolare forma statuale, il Welfare State, che ha fatto da sfondo al Novecento europeo o, almeno, alla storia dei suoi principali paesi. Una forma talmente imponente e importante da riuscire, almeno per una prolungata fase storica, a far coincidere nella vulgata comune la funzione statuale come essenzialmente una funzione sociale. Tutte le retoriche proprie e care alla socialdemocrazia dello stato come spazio autonomo dalle classi e luogo principalmente deputato alla mediazione del conflitto, come ambito super partes dove a governare è il diritto e non la forza trovano origine proprio da quella particolare funzione assunta dallo stato in un determinato contesto storico e in un ristretto spazio geografico. Ovviamente queste retoriche non erano frutto di sole fantasie ma poggiavano su qualcosa di più di un semplice grano di verità. In effetti il Welfare State è stato un modello statuale in grado di far dimenticare sempre più la sua essenza di macchina burocratica e militare finalizzata al dominio di classe la quale, invece, fa da sfondo, da subito, alla teoria marxiana dello stato. Il Welfare State che, come ricorda Sandro Mezzadra nel suo bel libro sulla Costituzione di Weimar, nasce come modello di cittadinanza capitalistica e imperialista in risposta alla cittadinanza sovietica è stato in grado, a tutti gli effetti, di fungere da argine e contenitore dello spettro comunista per tutta un’arcata storica.

In qualche modo, per sintetizzare e tornare all’argomento del Convegno bolognese, le ricadute urbane del modello Welfare rimandavano all’idea della “due città”, la città operaia e la città borghese, in relazione assolutamente simmetrica. Ciò che non va infatti dimenticato è che, il modello del Welfare State, nasce e si sviluppa, proprio perché costituito intorno all’idea di cittadinanza, su un’idea di legittimità di pari grado dei diritti politici di tutte le classi sociali. Centrale, in questa costituzione, è la legittimità storico – politica delle classi dove i diritti sociali, soventi scambiati come cuore ed essenza del modello welfariano, non sono che il diretto e immancabile corollario di un riconoscimento di legittimità politica che sta a monte della “costituzione del sociale”. La fine e la crisi del Welfare State sono quindi, in prima istanza, la crisi della legittimità storico – politica dei subalterni e, con questa, la fine della possibile esistenza legittima di un’altra città, di un altro spazio urbano diverso e distante da quello dei dominanti e dei luoghi predisposti alla valorizzazione. Non a caso, e da tempo, ormai non si parla più di “due città” ma di territori sani e legittimi da un lato e di zone di malessere e degrado dall’altro.

In quanto sta avvenendo, però, non vi è solo la messa in mora del Welfare State e di ciò che questo, anche sul piano urbano comportava, bensì la rimozione dell’interesse per il potere politico nei confronti dei subalterni il quale, in tutta fretta, ha posto in archivio non solo il modello welfariano ma si è altresì emancipato da quella scienza della polizia che pure aveva giocato un ruolo centrale nel costituirsi della modernità capitalista. Per molti versi è forse fin più utile e interessante analizzare questa rimozione piuttosto che soffermarsi sulla crisi del Welfare State. Più interessante perché la scienza della polizia, che non presuppone l’esistenza e il riconoscimento di alcun diritto sociale e politico, è pur sempre preposta al benessere della popolazione. La popolazione deve, cioè, essere presa in carico, nutrita, curata al fine di renderla efficace ed efficiente per la produzione e per la guerra. I territori urbani di questa non devono essere lasciati a se stessi ma curati e gestiti. La popolazione e la sua salute sono, nel momento in cui non il possesso delle cose ma la quantità di ricchezza estraibile dai corpi diventano il cuore dell’economia politica così come la quantità di soldati ben armati e addestrati diventano le premesse indispensabili per l’esercizio della volontà di potenza statuale, un bene da accudire e non trascurare. Nessuna legittimità politica, nessuna cittadinanza è implicita nel modus operandi della scienza della polizia bensì il prosaico riconoscimento di dover coltivare con cura e decisione ciò che è indispensabile alla produzione e alla guerra. In tale ottica la salute e il benessere della popolazione sono, per il potere politico, ciò che una mandria ben allevata rappresenta per un qualunque allevatore. Così come non si può abbandonare ai suoi destini la mandria ma si dovrà aver cura che il territorio in cui pascola e transita abbia acqua e foraggio in abbondanza, o almeno a sufficienza, e le vie di scorrimento non presentino insidie e pericoli, allo stesso modo i territori della popolazione dovranno essere costantemente oggetto delle cure e dell’attenzione della polizia il cui principale compito sarà di vigilare e garantire l’integrità e la salute del popolo. I territori della popolazione, pertanto, non saranno mai abbandonati a se stessi. La popolazione assume così un ruolo di interesse centrale per il potere politico.

Oggi pare sensato asserire che della stessa scienza della polizia non vi è traccia. Se e quando lo stato si presenta dentro i territori subalterni lo fa mettendo in mostra proprio quel tratto che il modello del Welfare State aveva notevolmente contribuito a smussare. Il suo volto è quello puro e semplice della macchina burocratica – militare la cui accentuazione, se possibile, è data dalla fattiva presenza dell’esercito nelle operazioni di polizia urbana e ordine pubblico. Un ritorno che non è il frutto di una qualche insana ideologia, bensì, come l’insieme delle relazioni ha ben evidenziato, il banale approdo dell’attuale “costituzione materiale” del capitale. Ed è esattamente qua che, però, il discorso si fa particolarmente interessante poiché questo scenario questo nuovo “piano del capitale” è denso di crepe e contraddizioni. Su ciò è strategicamente necessario focalizzare lo sguardo. A differenza di chi, di fronte al prepotente irrompere della materialità del capitale, trova rifugio e conforto nell’idealità del passato, dobbiamo comprendere come stare dentro per essere contro alle trasformazioni politiche del presente. Se dal e del passato dobbiamo salvare qualcosa è, sulla scia di Benjamin, quell’immagine degli avi che si nutrono di odio, rivalsa e vendetta il che è ben distante da una qualsiasi malinconia per il mondo di ieri. Guardiamo al futuro, ancorché con le spalle!

Alcuni interventi hanno evidenziato come, a fronte di un ritiro dello stato, in molti territori abbiano preso forma poteri locali, spesso illegale e/o criminale che hanno iniziato non a svolgere una funzione supplente dello stato, bensì un esercizio di potere di clan, di famiglia, di gang o che altro che, per quanto erroneamente definito mafioso, con la mafia non ha nulla che vedere ma molto più prosaicamente si appropriano, gestiscono e governano un territorio che il potere statuale ha espunto dai suoi orizzonti. Il legame tra mafia e stato è sin troppo noto e non è certo questo il luogo per riproporne la genealogia, certo è che mafia e stato sono un binomio obiettivamente indissolubile dove l’uno alimenta e rimanda all’altro. Qua palesemente si ha a che fare con qualcosa di diverso. Qua si ha a che fare con un modello di governo e gestione del territorio la cui possibilità è data non da protezioni istituzionali e neppure da scambi di interessi e comune gestione di risorse pubbliche, come nella tipica relazione tra potere statuale e potere mafioso e neppure dalla messa in forma di un potere di disciplinamento “illegale” dei subalterni finalizzato al mantenimento dei rapporti di potere esistenti, ma da una “presa di possesso” di un ambito urbano e sociale ridotto allo stato brado da parte di soggettività estranee ai mondi propri della legittimità statuale. Uno spazio che non è più ma può solo divenire. È questo divenire che deve interessarci.

Ciò che è interessante e utile osservare è il prodursi di questi “spazi di potere” dentro la crisi del modello statuale. Una crisi che, ciò è fondamentale averlo bene a mente, non presuppone alcuna possibilità di un ritorno al passato. Lo stato si è ritirato, sia come Welfare State sia come scienza della polizia dai territori urbani dei subalterni perché i subalterni hanno perso qualunque interesse per il potere politico e nessuna forma di negoziazione tornerà ad albeggiare dentro gli scenari politici del capitale. Di ciò, del resto, la crisi ormai palesemente irreversibile della sinistra sembra essere qualcosa che non ha bisogno di essere argomentato ma, più prosaicamente, semplicemente registrato (e acquisito!). Allora analizzare questi modelli significa sicuramente non farne l’apologia ma comprendere le possibilità che si aprono negli scenari urbani del presente. Essendo pressoché obbligati a usare parole vecchie per dire cose nuove possiamo in qualche modo asserire che lo spazio urbano attuale sembra configurarsi come una sorta di “libanizzazione sociale” dove, accanto a un potere ufficiale perimetrato entro aree ben determinate, possono prendere forma poteri autonomi e autogestiti. Il tutto, come ricordato in precedenza, in un frastagliarsi di zone socialmente incluse ed escluse, in territori gentrificati e turisticizzati accanto a territori degradati e abbandonati. Una condizione che rende estremamente complicata l’instaurazione di “zone di confinamento” rigide ma obbligano a una porosità che rende possibile lo sconfinamento in permanenza degli indesiderabili, e dello loro possibili forme politiche, dentro i territori deputati alla valorizzazione capitalistica.

Nei confronti di questi il potere politico può intervenire solo mostrando il volto della macchina burocratico – militare il che pone, sin da subito, il governo dei territori come questione sia di potere, sia di svuotamento della legittimità statuale. Tutto ciò, in qualche modo, ci riporta a un aspetto come dire classico del processo rivoluzionario: la dialettica distruzione/costruzione. Con ogni probabilità, nel contesto, proprio il polo costruzione finisce con l’avere un ruolo decisivo poiché la prassi deve essere in grado di darsi come potere costituito e costituente in permanenza. Non si tratta, quindi, di prendere il Palazzo d’Inverno ma di esautorarlo. Per concludere si può dire che a essere resa attuale è la vecchia suggestione terzomondista dell’accerchiamento della città da parte della campagna dove, nel contesto, ad incarnare la campagna sono i territori subalterni auto organizzati.

 

Emilio Quadrelli

 

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