Australia, Referendum “The Voice”: riflessione sul corteo di Sydney a sostegno della voce aborigena all’interno della Costituzione australiana.
Nonostante il caldo di Sydney sono in migliaia a radunarsi domenica 17 settembre ore 14:00 al Redfern Park, per partecipare alla marcia in sostegno del referendum del 14 ottobre 2023 che promette di dare una voce aborigena all’interno della Costituzione Australiana. L’afflusso delle persone al concentramento è accompagnato dagli interventi dal palco, tra cui la regista Rachel Perkins e l’avvocato Shane Phillips, leader indigeno e amministratore delegato di Tribal Warrior. Ascoltando le parole della regista: la vittoria del SI sarebbe il più grande riconoscimento che questa nazione abbia mai dato alla questione aborigena. La trasversalità della mobilitazione è segnata dalla diversificata platea di interventi politici, tra cui: la deputata federale laburista Tanya Plibersek; la senatrice dei Greens Sarah Hanson-Young, il sindaco indipendente di Sydney Clover Moore e la parlamentare liberale del New South Wales Jacqui Munro. Proprio quest’ultima ha fatto un intervento teso a rassicurare gli elettori liberali, componente più ostile al referendum, dicendo che The Voice parla di valori liberali quali la libertà, la responsabilità e il rispetto della Costituzione. La piazza rispecchia la trasversalità degli interventi e sono in molte le realtà presenti alla mobilitazione, tra cui le comunità religiose cristiane e la rete multireligiosa ARRCC, Australian Religious Response to Climate Change. Presente anche una bandiera italiana della FILEF con su scritto Italian Migrant Worker.
Il corteo ha sfilato lungo Chalmers street iniziandosi a ingrossare in maniera vistosa. Da quando la testa del corteo è arrivata su Cleveland street sono passati circa trentacinque minuti prima che si vedesse la coda. Gli organizzatori hanno parlato di quasi trentamila manifestanti mentre la polizia ne ha stimati circa la metà. Fa sorridere l’idea che qui come in Italia assistiamo alla guerra dei numeri tra organizzatori e forze dell’ordine. La composizione eterogenea della piazza ha una componente prevalente di famiglie e in qualche modo la “straordinarietà” della mobilitazione è evidente anche nelle modalità della marcia. La testa del corteo è senza striscione, ci sono pochissime bandiere e piuttosto sono visibili tanti cartelli con su scritto YES e frasi come “History is calling”. Molti si spingono a paragonare questo referendum a quello storico del 1967, il quale sancì per gli aborigeni il diritto di voto e di partecipazione attiva alla vita politica. Non ci sono spezzoni caratterizzati e il tutto si svolge in maniera composta, senza eccessivo rumore. Giusto in qualche momento si alzano dei cori ma rispetto a giornate più iconiche, come la marcia Invasion Day in opposizione ai festeggiamenti per l’Australian Day, l’elemento combattivo è poco presente. Questo dato è rappresentativo del fatto che la composizione della piazza è fortemente caratterizzata dal ceto medio cittadino che supporta la causa aborigena ma raramente è impegnato in manifestazioni del genere. Guardando attentamente le facce si nota anche la relativa poca presenza aborigena, sintomatica della frattura con la componente più radicale della comunità.
La critica da loro mossa sta nel carattere consultivo della voce indigena in costituzione, senza quindi nessun obbligo per il Parlamento di doverla necessariamente ascoltare. Quella che è stata la ragione degli australiani schierati per il NO al referendum, cioè la loro contrarietà nel creare una sorta di privilegio d’origine all’interno della cittadinanza australiana, viene così smentita anche dal comitato promotore del SI, il quale afferma che l’obiettivo non è quello di dare alcun altro diritto legale alla componente indigena. Nel passato con i governi Frase e Hawke avveniva una sorta di consultazione con gli organi rappresentativi degli aborigeni, formula che si è interrotta con il governo liberale di Howard. Con questo cambiamento nella costituzione si metterebbe un punto al carattere saltuario di questa consultazione. A sanare qualsiasi dubbio sulla questione è stato l’attuale premier laburista Albanese, confermando che il potere legislativo resterà subordinato al Parlamento. La componente radicale rimane insoddisfatta e piuttosto che una voce chiedi un trattato, vedendo nella Costituzione australiana non una tutela dei propri diritti ma piuttosto la cementificazione dell’oppressione che colpisce da più di duecento anni il loro popolo. Suona utopica come posizione ma questa è la direzione del movimento minoritario Blak Sovereign Movement (BSM). Lidia Thorpe, leader aborigena, diventata dei Greens dopo essere stata eletta come indipendente, accusa il carattere simbolico della proposta e afferma che sminuirà le rivendicazioni sulla sovranità aborigena. Gumbaynggirr Gary Foley al raduno del Melbourne Invasion Day del 2023, ha parlato di un probabile successo del referendum proprio perché istituirà un organo consultivo totalmente inefficace. La vittoria del SI non è scontata e perché ciò accada serve una doppia maggioranza: quella degli elettori e degli stati. Da quando è nata la federazione soltanto otto referendum su quarantaquattro hanno avuto successo. Osservando il corteo mentre arriva a fine manifestazione a Victoria Park ci si rende conto di come il quesito referendario non abbia le radici solide di un’esperienza nata da un movimento sociale.
L’idea d’altronde nasce nel 2014 e viene sviluppata dall’avvocato non indigeno Shireen Morris e da Person, quest’ultimo legato al Cape Yorke Institute, voce indigena conservatrice che sostiene formule di welfare senza contanti per le comunità aborigene. Nel 2017, grazie a The Voice, sono state avviate delle consultazioni con i leader delle comunità indigene, tra cui amministratori delegati, accademici, amministratori e imprenditori. Questi dialoghi sono culminati con il documento fondamentale chiamato Uluru Statement, che vale la pena riportare integralmente: “Noi, riuniti nella Convenzione Costituzionale Nazionale del 2017, provenienti da tutti gli angoli del Cielo del Sud, facciamo questa dichiarazione dal profondo del cuore: Le nostre tribù aborigene e delle isole dello Stretto di Torres sono state le prime nazioni sovrane del continente australiano e delle isole adiacenti, che abbiamo custodito secondo le nostre leggi e i nostri costumi. Questo hanno fatto i nostri antenati, secondo i dettami della nostra cultura, dalla Creazione, secondo la legge comune da ‘tempo immemorabile’ e secondo la scienza da più di 60.000 anni fa. Questa sovranità è una nozione spirituale: è il legame ancestrale tra la terra, o ‘madre natura’, e le popolazioni aborigene e delle isole dello Stretto di Torres da cui sono nate, a cui rimangono legate e dove un giorno ritorneranno per essere riunite ai nostri antenati. Questo legame è alla base della proprietà della terra, o meglio, della sua sovranità. Non è mai stata ceduta o estinta e coesiste con la sovranità della Corona. Come potrebbe essere altrimenti? Che i popoli abbiano posseduto una terra per sessanta millenni e che questo sacro legame sia scomparso dalla storia del mondo solo negli ultimi duecento anni? Con un cambiamento costituzionale sostanziale e una riforma strutturale, crediamo che questa antica sovranità possa risplendere come un’espressione più completa della nazionalità australiana. In proporzione, siamo le persone più incarcerate del pianeta. Non siamo un popolo per natura criminale. I nostri figli vengono allontanati dalle loro famiglie a tassi senza precedenti. Ciò non può essere perché non li amiamo. E i nostri giovani languiscono in detenzione in numeri osceni, quando dovrebbero essere la nostra speranza per il futuro. Queste dimensioni della nostra crisi illustrano chiaramente la natura strutturale dei nostri problemi. Questo è il tormento della nostra impotenza. Chiediamo riforme costituzionali per responsabilizzare il nostro popolo e occupare un posto legittimo nel nostro paese. Quando avremo potere sul nostro destino, i nostri figli prospereranno. Cammineranno in due mondi e la loro cultura sarà un dono per il loro paese. Chiediamo la creazione di una Voce per le Prime Nazioni sancita nella Costituzione. Makarrata è il culmine del nostro progetto: l’incontro dopo la lotta. Rappresenta le nostre aspirazioni per un rapporto giusto e sincero con il popolo australiano e un futuro migliore per i nostri figli fondato sulla giustizia e sull’autodeterminazione. Chiediamo una Commissione Makarrata che porti ad un processo che conduca alla conclusione di accordi tra i governi e le Prime Nazioni e che racconti la verità sulla nostra storia. Nel 1967 siamo stati contati, nel 2017 chiediamo di essere ascoltati. Lasciamo il campo base e iniziamo il nostro cammino attraverso questo vasto paese. Vi invitiamo a camminare insieme a noi in un movimento del popolo australiano per un futuro migliore”.
Per quanto durante questo processo non siano state escluse le voci indigene con posizioni vicine alla classe operaia, fondamentali per la stesura del documento di Uluru, durante la campagna elettorale del 2023 il Labour ha marginalizzato tale componente, in linea con la visione originale di Person che rifiuta l’approccio spesso anticapitalista della componente radicale. In sostanza la piazza moderata e partecipata di questa giornata è figlia di un processo che sembra calato dall’alto, figlia di una visione più funzionale al concetto di fornire rappresentanza e opportunità in puro stile aziendale. Il tutto risulta molto distante e talvolta in contrasto con i movimenti storici delle Prime Nazioni che hanno sempre chiesto diritti, autodeterminazione e risarcimenti economici. Indipendentemente da “The Voice”, la politica del Partito laburista australiano (ALP) ha costantemente evitato di effettuare delle riforme per affrontare le crescenti disuguaglianze di cui sono vittime gli aborigeni: il 70% di loro vive in affitto e il 50% degli adulti riceve sussidi. Sono anni che vengono richiesti risarcimenti per circa 500 milioni di dollari rubati ai lavoratori indigenti negli ultimi due secoli. Il governo laburista non ha ascoltato nessuna di queste voci e non bisogna stupirsi dello scetticismo verso la sua campagna per dare “una voce aborigena alla Costituzione Australiana”. Forse la campagna sarebbe stata più efficace se ci fosse stato un sostegno da parte dei movimenti sociali, piuttosto che da enti aziendali come il Business Council of Australia e da giganti minerari come BHP, capace di finanziare la campagna referendaria con due milioni di dollari. Su queste contraddizioni si gioca la possibilità di un successo il prossimo 14 ottobre. Un appuntamento che in qualsiasi caso sta segnando il dibattito interno dell’Australia.
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