Viva la Scostituzione!
Sappiamo che quello che scriveremo nelle prossime righe non piacerà a molti e molte, probabilmente anche alcuni dei nostri lettori abituali storceranno il naso. Crediamo comunque che sia utile provare a discutere apertamente di quanto successo nelle scorse ore, cioè la vittoria del Sì al referendum.
Non vogliamo fare i profeti del giorno dopo, né attingere alla solita sloganistica astensionista, né entrare in discussioni di diritto costituzionale, ci interessa piuttosto provare a porre alcune questioni a chi, certo con buona volontà, si è speso per l’ennesima volta in una campagna “in difesa della costituzione”.
Non lo nascondiamo, il risultato di questo referendum non ci ha stupito affatto, anzi per quanto ci riguarda corrobora tendenze consolidate. D’altronde bastava mettere il naso fuori da certi ambienti per comprendere quale sarebbe stata la parabola. In tempi di pandemia, con il mondo sconvolto da una crisi economica e sociale senza pari, di cui si è appena visto l’inizio, era difficile pensare che una parte significativa dei settori popolari si sarebbe mossa per difendere il parlamentarismo con tutto il suo portato disfunzionale.
Anzi, molti di quelli che sono andati alle urne hanno votato un convinto Sì. Perché? Ed è questa la vera domanda.
Non si tratta, come certi sostengono, di ignoranza o disinteresse. Il punto è che negli ultimi anni ogni voto, che sia stato locale, nazionale o referendario ha assunto un suo pieno significato politico. Il voto viene inteso dai settori popolari, a seconda delle tornate, come un’arma per fare “male” alle controparti del momento più che come un modo per scegliere chi governerà meglio. Non è la pancia, come direbbe qualcuno, a guidare questo voto, ma molto spesso è una sorta di valutazione tattica su cosa può farci meno male, su cosa può creare più difficoltà e contraddizioni alla compagine istituzionale. Badate bene, con compagine istituzionale non intendiamo solo il governo in carica, ma in generale le articolazioni del potere, della governance e del controllo nella loro interezza.
In questo senso c’è Referendum e Referendum, e seppure il tema di quello che mandò a casa Renzi era molto simile a quello odierno, a differire sostanzialmente sono il contesto e le pulsioni materiali di chi va a votare.
Questo voto è stato spinto probabilmente da una doppia tensione: da un lato schiantare il totem della partitocrazia, senza mediazioni. Non si tratta tanto di risparmiare sul numero dei parlamentari (anche se questo aspetto ha una sua rilevanza e forza “storica” nel rapporto che c’è tra chi governa e chi è governato, specie in contesti di crisi e corruzione dilagante), ma si tratta di tagliare le rendite di un ceto che si riproduce e si riproduce contro la possibilità di una vita migliore e più degna per tutti e tutte.
Dall’altro è una questione di farsi meno male: votare no in questo momento avrebbe significato mettere in difficoltà l’esecutivo di Conte ed aprire la via ad un eventuale governo tecnico di Draghi e (per alcuni) magari addirittura a Salvini. Attenzione: questo non vuol dire che il consenso intorno all’operato del governo sia granitico, ma sicuramente chi si guarda intorno ha paura che possa arrivare di peggio e che si ripetano scenari alla Monti o giù di lì.
Nelle ultime settimane, l’attivismo dei salotti buoni della prima e della seconda repubblica unita al cicaleccio libdem stavano configurando un eventuale NO come una grande restaurazione “dei competenti”. Una prospettiva che ha fatto sognare soltanto il famoso partito della ZTL, con i centri storici delle metropoli che rappresentano le sole zone in cui il taglio dei parlamentari non ha avuto il suo plebiscito. Per quanto riguarda i restanti comuni mortali, è evidente che per quanto lo scoramento verso l’opzione grillista sia trasversale, tra inconcludenza e opportunismo manifesti, questa rivincita delle élite sarebbe stata ancora più indigesta. Se nelle redazioni dei giornali main stream si continua a esorcizzare il fenomeno neo-populista come un brutto sogno da cui ci si è ormai svegliati (primo premio al direttore di Repubblica Molinari che stamattina sente ancora “calare il vento del populismo”), sembra semplicemente che molte delle istanze di cui si è fatto portatore il M5S si stiano riarticolando e cercano una nuova forma di espressione, pur con alcune invarianze di cui un certo giacobinismo rimane la più evidente.
La sostanza del discorso è che alla maggior parte di chi lavora per vivere non gliene frega nulla della formalità costituzionale su cui si dovrebbe tenere il compromesso tra chi governa e chi è governato. Perché questo compromesso è saltato da tempo, in ogni sua sfumatura e nonostante la “costituzione più bella del mondo”. Quello è un refrain del passato dove solo certa sinistra poteva ancora rimanere incastrata, lì, nella difesa del compromesso invece che guardare alla volontà di contrapposizione, in potenza, verso un sistema che non rappresenta più nessuno.
Ps. Nella foto in alto la distribuzione del Sì a Milano e Roma, abbastanza chiaro No? Allo stesso modo qui sotto la mappa del voto nazionale, evidente una maggiore convinzione nel Sì a sud.
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