
#notav: Il giorno che l’Italia venne giù

Se lo dicono Pierferdinando Casini e Pierluigi Bersani e se ha l’avvallo di un ex comunista che ebbe i permessi Cia per andarsene negli States in anni impossibili, allora è vero. E’ tutto vero: è gravissimo quanto è accaduto oggi in Val di Susa. Deve essere vero, perché lo dicono a destra e sinistra non si sa più di che cosa. Deve essere vero se lo afferma “la Repubblica” insieme al “Corriere della Sera”. E, di fatto, è vero. Però non è vero al modo in cui lo intendono questi spettri che deambulano nella storia universale delle meschinerie. Se 70mila persone si mobilitano e vanno a formare una massa che confligge con apparati polizieschi di Stato, significa che è stato abbattuto un filtro decisivo e che si va a compiere quanto è iniziato a slittare dalla tragedia del G8 di Genova: l’Italia è uscita definitivamente da ciò che cominciò nei primi Ottanta. Cambia tutto. Oggi abbiamo assistito a una guerra e siamo attualmente sommersi da un rovinoso tentativo di mistificazione e di disinformazione.
Secondo le  autorità – non si sa oramai nemmeno loro autorità di cosa e rispetto a  chi – i manifestanti erano 6-7mila. Erano invece circa 70mila. Ciò è  comprovabile. La giornata è controllabile da qualunque prospettiva, da  ovunque, è già compattata in migliaia di archivi digitali, resi  disponibili e reperibili on line. Spezzettata e frammentata in un  organismo vivente di immagini, suoni, voci. Twitter soprattutto e  Facebook in parte hanno canalizzato un’informazione capillare e  incontrovertibile da parte di qualunque tentativo di falsificazione.  Basta informarsi qui, qui, qui, qui e qui e qui e si potrebbe andare avanti all’indefinito.
Eppure  il Presidente della Repubblica, questo sir bisnonno d’Italia che tiene  tantissimo al 150° compleanno non si sa di chi o di cosa e se proprio o  altrui, questo finissimo conoscitore dell’inglese e delle intelligence  di mezzo mondo, questo portavoce delle più raffinate ordinanze  antisociali e mercantiliste dell’Europa che sarebbe unita non si sa in  nome di cosa o di chi – costui ha dunque preso la parola e condannato  informando tutti i cittadini della verità che è smentita praticamente da  tutta la Rete italiana: “Quel che è accaduto in Val di Susa – sostiene  l’anziano migliorista -, per responsabilità di gruppi addestrati a  pratiche di violenza eversiva, sollecita tutte le isituzioni e le  componenti politiche democratiche a ribadire la più netta condanna, e le  forze dello Stato a vigilare e intervenire ancora con la massima  fermezza. Non si può tollerare che a legittime manifestazioni di  dissenso cui partecipino pacificamente cittadini e famiglie si  sovrappongano, provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per  condurre inaudite azioni aggressive contro i reparti di polizia chiamati  a far rispettare la legge”. Parole del Capo dello Stato di Cose.
Ecco,  non c’è più lo Stato di Cose. Il Presidente è fuori dalla Storia come  tutti i Presidenti, così come anche tutti i sodali di un Parlamento che  appare oggi, e drammaticamente, distantissimo dal sentire comune. E’  significativo che si manifesti come dominatrice neomediatica  l’intollerabile verve populista di Beppe Grillo, con il suo  giustizialismo antropologicamente autoritario, col suo antipoliziottismo  poliziesco, con la sua ribadita assenza di spiegazioni circa la  questione dei suoi sostenitori bancarii. E’ significativo perché c’è il  Comico contro il Re, a vederla da fuori. Il frame da indurre nelle menti  beote sarebbe: le parole di Beppe Grillo vs le parole della Politica e dello Stato di Cose. Frame errato, ovviamente. Poiché oggi sono in convergenza molteplici  frame in Val di Susa, luogo che rischia davvero di diventare, magari  anche soltanto emblematicamente, il Vietnam di questa classe dirigente.  Senza neppure desiderare di entrare nella questione di merito circa il  progetto TAV, è evidente che siamo di fronte al crollo del paradigma  fintopacifista ed ex borghese, alla saldatura trasversale di classi  anagrafiche che fa crollare il tentativo statuale di imporre al Paese  come modello unico la lotta tra generazioni, all’ipocrisia di un’Europa  che dovrebbe essere unita soltanto nelle lordure e non nelle proteste  (non si capisce perché dovrebbero protestare soltanto gli italiani e non  contestatori francesi o inglesi o tedeschi, visto che peraltro si dice  di volere il cantiere TAV per rimanere agganciati all’Europa…).
Migliaia,  decine di migliaia di persone che vanno tra alberi e coste a bosco,  vecchi bambini donne giovani maschi e sindaci e parenti e serpenti e  chiunque abbia desiderato manifestare – che popolo è? Sono gli  inquietanti black-block? Sono gli scalmanati sbarazzini di un tempo?  Sono i violenti mestatori che fecero e fanno e faranno scendere la notte  sulla Repubblica? E che dire del bouncing che l’informazione degli old  media ha subìto e sta tuttora sperimentando di fronte agli scotimenti  della testa di mezzo mondo, che risponde su Twitter al monologo  sempreguale del potere italiano e delle sue leggi d’emergenza  eternamente in vigore? Non si parla qui soltanto dei telegiornali  berlsuconiani, e cioè tutti tranne il tg3, che sarà sicuramente un  telegiornale napolitano. A vedersi escluso dalla storia è il generale  atteggiamento di un’intera classe, politica e giornalistica e  opinionistica e preoccupata e meditabonda. Non vale affatto il  rovesciamento pasoliniano tra borghesi rivoluzionari e poliziotti  proletari. I proletari che furono tali, in Italia, secondo l’Istat, sono  oggi ben felici del padronato. Però qualcosa sfugge allo schema. Qui e  ora si è al di là dell’operaiato fordista e postfordista e di tutte le  categorie che hanno retto trent’anni di vicariato della politica in  Italia. Senza aderire minimamente alle analisi da Toni Negri dei poveri  spiriti, la manifestazione diffusa della violenza e della mobilitazione  in un contesto non urbano, anzi naturale, ma con la visuale perenne  della connessione, lascia intendere fino a quale profondità sia giunta  la frattura tra lo Stato di Cose e le persone che costituirebbero il  popolo che si riunirebbe teoricamente nello Stato stesso. Il quale Stato  si fotte bellamente dello stato di cose non napolitano, ma napoletano.  Il quale Stato effettua una manovra economica doppia rispetto alla  greca, però tra un anno, a ribadire l’urgenza che c’è di vararla e che  impoverirà ingiustamente, in nome della finanziarizzazione  dell’esistenza, milioni di italiani.
Il crollo delle maschere e la  diffusione transnazionale delle notizie stanno testimoniando che si  compie una facile profezia in Italia, al di là di ingiustificati  entusiasmi primaverili: la gente si è rotta i coglioni e, se si rompe i  coglioni, non è che si confronta con il televisore – va direttamente  dall’unico possibile rappresentante che lo Stato di Cose può schierare  di fronte ai cittadini oggi, cioè il Poliziotto. Questo atto è  testimoniato. Inizia di un totale inizio una lunghissima battaglia, che è  in realtà una guerra, anzi: più guerre. Si incendiano zone sovrapposte  del vivere civile: le lotte per l’ambiente, per la dignità della vita,  per i diritti inalienabili di un’etica universale, per l’uguaglianza,  per l’abbattimento dei filtri all’informazione diffusa.
Ogni inizio  segna una fine. Oggi terminano in Italia gli anni Ottanta e Novanta e  Zero Zero – compiendo quella trasformazione che ha in piazza Alimonda a  Genova il cominciamento autentico e sanguinario di questo inizio.
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