Gli Invincibili: sentimento militante
Nel sessantacinquesimo anniversario della scomparsa del Grande Torino, ripubblichiamo un pezzo scritto 4 anni fa da un militante dei centri sociali, che attraverso la passione per la propria squadra, il Toro, racconta cosa vuol dire essere del Toro, cosa sono gli Invincibili per chi ha passione, per il calcio sì, ma sopratutto per la lotta.
Oggi è il 4 maggio e sono passati 61 anni dalla tragedia di Superga, una tragedia che definire calcistica, sarebbe troppo poco per rappresentare quello che in realtà è. La caduta dell’aereo del Grande Torino, il suo blasone, la sua storia, la sua invincibilità sono patrimonio popolare di chi è nato o vive a Torino. Gli invincibili sono stati definiti gli uomini del Toro che hanno reso magico un sentimento che non può essere definito facilmente e non può stare nelle strette barriere del calcio. Essere del Toro, per gente come me, significa essere vero: sono cresciuto con pochi e semplici punti fermi: essere del Toro fa parte di quelli, insieme ad odiare i fascisti, a non portare rispetto per polizia e carabinieri, a battermi per ciò che credo.
Oggi piove, come è normale che sia. Oggi è il giorno in cui sacro e profano si uniscono sotto la lapide di Superga per rendere omaggio agli eroi, ma non c’è funzione, coro o celebrazione che possa rappresentare realmente cosa sentiamo, noi del Toro.
Vi giuro, può sembrare strano, ma il calcio, il campionato, la squadra, la società non centrano un cazzo. A nessuno di noi può fregare minimante al cospetto del Grande Torino la categoria o il risultato delle partite. Siamo del Toro a prescindere, come a prescindere siamo ribelli e pertanto abbiamo sempre ragione, e quando non ce l’abbiamo non fa differenza.
Cuore vince e testa perde. Questa è la moneta che gira in aria per noi. Con il cuore vinciamo sempre, ma se ci pensiamo, ci caliamo nella realtà del calcio businnes, dei risultati, dello squallore al cospetto del mito che è meglio lasciar stare.
Il Grande Torino è simbolo di grandi uomini, di riscatto sociale, di un orgoglio popolare che in pochi momenti della storia si è misurato. Bisogna pensare come il mito fosse vivente già prima di Superga, una squadra che non perdeva mai, che segnava più gol di tutti, che componeva quasi per intero la nazionale. Calciatori che lavoravano e giocavano a calcio. Anche il finale della più bella favola del mondo è particolare, la partita di Lisbona da dove tornava il Toro, era organizzata per un calciatore a fine carriera, e a lui era dedicato l’incasso come puro piacere tra uomini, cose che oggi neanche si potrebbero pensare.
L’epilogo è tragico e ci ha segnato a vita tutti, sbattere contro uno dei simboli della propria città, lì fermo da secoli, noto ad ogni pilota, quel giorno si è manifestato come l’unico ostacolo insuperabile da chi, negli ultimi 15 minuti di ogni partita, era capace di cose impensabili. Sapete al Filadelfia, quando entrava in scena il tremendismo granata funzionava così: il trombettiere del Fila suonava la carica, capitan Mazzola si tirava su le maniche, e via a quindici minuti d’inferno, dove il cuore dettava le regole e il Toro strapazzava chiunque.
Così vorrei ricordarli, come in quei quindici minuti in cui tutto era possibile.
So che ad alcuni può sembrare non consono accostare le cose, ma invece per molti lo è: nell’ultima barricata, se insieme ad una bandiera rossa vedrete issare un drappo granata, potrete udire la tromba rieccheggiare e saprete che c’era qualcuno del Toro, e che ancora una volta pensava agli Invincibili, come questa sera quando racconterò a mio figlio, ancora una volta, la loro favola.
+’Militant
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