La morte di Davide Bifolco e il vittimismo del potere
Sul serio, andate a leggerlo, e solo dopo tornate qui.
Lo avete letto? Bene, riprendiamo il discorso.
Il fatto che gli amici di Davide e la popolazione del Rione Traiano non abbiano accettato in silenzio e a capo chino la solita versione del «colpo accidentale» (sono ormai centinaia i «colpi accidentali» da quando fu approvata la Legge Reale), ma abbiano espresso in vari modi la loro rabbia, ha scatenato i vermi brulicanti nel ventre di «quelli che benpensano», come li chiamava Frankie Hi Nrg.
Sono i vermi del razzismo verso chi sta peggio; dell’odio per gli esclusi spinto fino a invocarne l’esecuzione sommaria; del conformismo rancoroso che nutre gli intruppamenti sui social media; dell’inflessibilità verso i poveri che va sempre di pari passo con l’ammirazione per la furbizia dei ricchi, tanto bravi ad aggirare le leggi per farsi i cazzi propri.
«Se l’è andata a cercare», Davide Bifolco. Non si è fermato all’alt. Era in motorino con altri due. Era senza casco. Il motorino era senza assicurazione. Era in giro di notte. Soprattutto, era uno del Rione Traiano e quindi quasi geneticamente pericoloso, camorrista in potenza.
Sulla base di tali pseudomotivi, una parte di opinione pubblica – pungolata dalla marmaglia dei commentatori e opinion maker proni al potere in divisa – trova ovvio che un’auto dei carabinieri speroni un motorino, poi un carabiniere, pur potendo facilmente risalire alla sua identità, si accanisca a inseguire un ragazzo e infine lo ammazzi in mezzo alla strada. Lo trova ovvio e lo giustifica.
O meglio: dice di trovarlo ovvio perché vuole giustificarlo.
Tutto ciò nella completa assenza di qualunque reato. Per chi gira senza casco o assicurazione non è previsto un proiettile in petto, ma una multa o il sequestro del motorino. Eppure, sembra che molta gente abbia letto (parola grossa, lo so) un altro codice della strada:
Sia ben chiaro: anche nel caso di un reato – ad esempio uno scippo – quella del carabiniere sarebbe stata una condotta ingiustificabile.
Anche nel caso con Davide ci fosse stato «un latitante» – circostanza già smentita dal diretto interessato – va ricordato che in Italia non c’è la pena di morte, in teoria. Men che meno irrogata a casaccio e messa in atto da un militare, per strada, senza la seccatura di un processo. In teoria.
Ma no, dicono quelli che benpensano: la vittima non è Davide, la vittima è il carabiniere. Poverino, immaginate lo stress, la rottura di coglioni a dover lavorare in quel quartiere, in mezzo a quella gentaglia. Pure Aldrovandi, in fondo, mica era un santarellino! Applausi ai poliziotti ingiustamente condannati per averlo ucciso! Facile criticare chi mantiene l’ordine! E Cucchi? Un tossico. Gabriele Sandri? Un ultrà. Non se ne può più di questa delinquenza, e tutti ‘sti negri che portano l’ebola, dove andremo a finire, ci vuole il pugno di ferro, solidarietà alle forze dell’ordine ecc. ecc.
A questo punto, di solito, arriva la citazione (a cazzo) di Pasolini. Se questi apologeti della repressione sapessero cos’ha scritto davvero Pasolini sulle forze dell’ordine, direbbero che han fatto bene ad ammazzare anche lui, comunista e pure ricchione.
[Molti, del resto, la pensano già così, e sovente sono gli stessi che lo citano a sproposito per difendere a priori chi manganella e uccide.]
Il 12 settembre scorso ho presentato L’Armata dei Sonnambuli proprio allo Zero81 Occupato, e ho parlato anche di questa vicenda, cercando di inserirla in un contesto ideologico e storico più ampio. Il tema è il vittimismo del potere e di chi ne giustifica o nasconde gli abusi, il «non è mai colpa nostra» come fondamento dell’ideologia dominante italiana, parte essenziale di un dispositivo che plasma le nostre vite tutti i giorni.
Su questa vera e propria macchina mitologica sto scrivendo da tempo un lungo testo, stimolato dalla visione di Magazzino 18 di Simone Cristicchi (lacrimogena apoteosi del «non è mai colpa nostra») e dalla lettura quasi simultanea di tre saggi usciti di recente: Critica della vittima di Daniele Giglioli, Fenomenologia di un martirologio mediatico di Federico Tenca Montini e Il cattivo tedesco e il bravo italiano di Filippo Focardi.
Per finire quel post ci vorrà tempo, ma intanto posso mettere a disposizione l’audio dell’intervento napoletano. È un intervento a braccio, non strutturato in precedenza e dunque con sbavature, ma penso contenga elementi utili. Dura poco più di dodici minuti. Se invece che ascoltare in streaming volete scaricare, cliccate sulla freccia a destra. “Buon” ascolto.
LA MORTE DI DAVIDE BIFOLCO E IL VITTIMISMO DEL POTERE
Intervento di Wu Ming 1 allo Zero81 Occupato di Napoli
12 settembre 2014 – L’audio completo dell’incontro si trova qui. Durata: 1h e 49′.
N.B. A un certo punto ho accennato a prigionieri italiani «nelle carceri indiane» per detenzione di droghe leggere. L’ho detto che parlavo a braccio. In realtà volevo dire «indonesiane», mi riferivo a persone come il torinese Daniele Pierretto, arrestato a Bali nel 2012 perché (secondo l’accusa) in possesso di hashish, e presto dimenticato da quasi tutti. Di lui non ho trovato notizie recenti. Ricordo che in Indonesia per questo genere di reati c’è la pena di morte. La rischiò anche un altro italiano, il maremmano Juri Angione, che se l’è “cavata” con dieci anni di prigione.
Sono più di tremila i nostri connazionali chiusi nelle galere di tutto il mondo, spesso in condizioni terribili e in molti casi per fatti risibili o mai commessi, ma solo ed esclusivamente per i due marò si è assistito a una mobilitazione così affollata di politici, a una campagna tanto satura di bellicose intenzioni, infuocati proclami e momenti platealmente grotteschi. Per l’opinione pubblica mainstream, sono vittime solo Girone e Latorre.
In India, per la precisione in una prigione di Varanasi, ci sono anche Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i cui nomi non diranno nulla a buona parte di quelli che si indignano per la «montatura» contro i marò. Di Tomaso ed Elisabetta ha scritto anche il nostro amico Matteo Miavaldi.
Wu Ming 1 da wumingfoundation
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